Je suis soldat

images“Guerra totale all’Isis” è il nuovo grido di battaglia consolatorio dopo l’11 settembre di Parigi. Quale che sia il livello d’intervento che si deciderà prossimamente di attuare in Medio Oriente, quello che ormai appare a tutti è l’asimmetria di questa guerra. Non si tratta di un esercito regolare che si contrappone ad un altro esercito regolare come avvenuto in Iraq o a dei guerriglieri come avvenuto in Vietnam. Nè si tratta di un comune campo di battaglia: dai vasti territori desertici del Medio Oriente e Nord Africa alle popolate città metropolitane europee. Il fatto è che si è realizzata da tempo una radicale trasformazione nella concezione stessa delle armi in uso nella nuova guerra in atto. Sebbene i terroristi usino ancora le armi convenzionali, la loro vera è più temibile arma è l’uomo stesso: lo jihadista col giubbotto esplosivo che si fa esplodere in mezzo ad una folla o che spara con un fucile mitragliatore contro un gruppo di persone in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento della vita quotidiana di una città europea nella rivendicata consapevolezza di morire. L’intelligence lo sa da sempre ed ora tutti lo scrivono sui quotidiani che queste azioni sono scarsamente prevedibili e quando si manifestano sono assai poco contenibili nei danni che vogliono provocare. Questa asimmetria nella concezione delle armi corrisponde poi ad una concezione della vita altrettanto diversa tra le parti: noi tutti,  non importa se laici o religiosi,  sosteniamo la “sacralità” della vita di ogni persona e per questo ci dichiariamo anche contrari alla pena di morte e siamo tolleranti. I così detti integralisti islamici non esitano invece con le esecuzioni capitali esemplari, magistralmente diffuse con le tecniche mediatiche, e del martirio ne fanno un valore supremo.

L’asimmetria è anche descrivibile in termini di efficienza: da una parte si usano soldati super addestrati che utilizzano armi sofisticate, complesse e costosissime, sebbene dal potenziale distruttivo devastante, mirando a obiettivi identificati e precisi, dall’altra abbiamo terroristi poco addestrati militarmente ma totalmente indottrinati “religiosamente”che usano se stessi e con poco esplosivo e qualche arma basilare di facile reperibilità seminano morte indiscriminata.  A questa forma di combattimento non è opponibile come alternativa il raid aereo, sebbene questo rimanga necessario a livello strategico, né ha senso correlare tra loro bombardamenti e attentati per identificare, per esempio, i bombardamenti aerei francesi in Iraq come la causa della strage di Parigi. L’autonominato Califfo del sedicente Stato Islamico (sembra che Daesh sia il termine da preferire perché più politicamente corretto) non ha bisogno dei bombardamenti aerei per giustificare le azioni terroristiche in Europa perché questa fa parte della sua strategia di base.

Se per incanto gli jihadisti combattenti in MO e Nord Africa (le cui stime vanno da 20.000 a 200.000 unità a secondo della fonte d’informazione) sparissero oggi tutti improvvisamente, compreso il loro capo Abu Bakr al-Baghdadi, parte degli stimati 15.500 foreign fighters o “lupi solitari” o “jihadisti bianchi” che vagano tra MO e Europa rimarrebbero un pericolo per molti anni ancora. Vuoi per vendetta, per disperazione o per coerenza paranoica molti di loro infatti uscirebbero allo scoperto seminando morte con tanti attentati quanti sono loro numericamente, mentre altri rimarrebbero dormienti tra noi covando frustrazione e rancore in attesa di una prossima occasione. Questa considerazione ci porta alla domanda cruciale : che fare? Le analisi e i commenti prevalenti, da qualunque punto di vista ideologico, convergono sostanzialmente su due soluzioni: intensificare l’intelligence e intensificare l’intervento armato in MO, droni e bombardamenti, con la variante di armare i gruppi “alleati” o “alleabili” locali o intervenire direttamente sul terreno, come in Iraq e in Afghanistan. A tutti appare chiaro il significato di “bombardamenti”, intervento che desta in alcuni la disapprovazione per i probabili  effetti collaterali, o il significato del “intervento sul territorio”, che fa paura per le vittime tra i soldati che inevitabilmente genererebbe (vedi scelta Usa in questi ultimi anni dell’uso intensificato dei droni). Meno chiaro invece appare il significato dell’intelligence, perché entriamo nel campo dello spionaggio, del controspionaggio e dei servizi segreti, locuzione quest’ultima diventata sinonimo di poteri occulti e causa di tutti i mali del mondo.

Quando apprendiamo dai media il numero di terroristi esistenti che ogni agenzia rivela, magari accompagnato da nomi e cognomi, quando dopo ogni attentato veniamo a sapere che alcuni di quei terroristi uccisi o catturati erano conosciuti dalle polizie dei vari Stati, abbiamo la sensazione che i “servizi segreti”, a parte la mancanza di un loro reale coordinamento europeo,  abbiano una conoscenza del fenomeno più ampia di quella utilizzata per intervenire in termini di prevenzione o anche di repressione. Non sono in grado di entrare nei particolari per mancanza di informazione e di conoscenze tecniche sul problema, tuttavia quanto è dato di conoscere è sufficiente per comprendere, se lo vogliamo, che questa è e sarà in buona parte una “guerra coperta”, fatta con sistemi e metodi non convenzionali che l'”opinione pubblica”, quella stessa che inorridita dalle atrocità compiute dai terroristi reclama sempre maggiore intransigenza, non sarebbe disposta ad accettare  se li conoscesse, in nome del diritto. In altre parole, rinunciando ad essere “politicamente corretto”, intendo affermare che questi individui, “foreign fighters” o “lupi solitari” o “jihadisti bianchi”, costituiranno una minaccia per tutta la loro esistenza e quindi andrebbero neutralizzati. Per quello che so, il modello di riferimento dovrebbe essere quello del Mossad, servizio segreto israelianoi cui metodi e risultati (cattura di Eichmann, operazione “Collera di Dio”, operazione Entebbe, ecc) appaiono oggi quelli più efficaci per sconfiggere il nuovo nemico.

Tuttavia, per combattere con efficacia la nuova guerra non basta adottare i metodi dei   servizi segreti israeliani, perché io penso che comunque non basti l’intervento militare e poliziesco, occorre che tutto un popolo eserciti una vigilanza attiva con una coesione sociale forte, la coesione che fa di una popolazione un popolo. E ancora può valere qui il modello israeliano, questa volta in chiave civile. Dalla costituzione dello Stato di Israele (qui non interessano le questioni politiche e religiose) il suo popolo ha dovuto adattarsi in un territorio ostile pur volendo edificare e mantenere un sistema politico democratico. Nel 1990, a cavallo fra le due intifada che scoppiarono in quel paese, feci un viaggio in Israele e tra meraviglie storiche e naturali non mancai di notare alcuni aspetti della vita quotidiana che mi sorpresero molto e che a mio parere denotano la coesione sociale esistente tra quei cittadini. Notai per esempio che i tassisti di Gerusalemme montavano nelle loro auto un apparecchio ricetrasmettitore che li collegava in rete tra loro e con una centrale operativa. Il dispositivo, per altro diffuso anche tra altri privati cittadini, sfruttava la loro costante presenza sul territorio per esercitare una vigilanza attiva che potesse essere d’aiuto alle forze di polizia (e dell’esercito) al fine di prevenire attentati. Ciò che più mi aveva sorpreso era tuttavia constatare che ciò avveniva in un modo assolutamente normale, senza mostrare alcuna ansia o paura dovuta ad uno stato di emergenza che potesse interferire con lo svolgimento della vita quotidiana. Io non penso che nel nostro paese si possa nelle condizioni presenti proporre simili comportamenti (con buona pace di coloro che hanno voluto importare nelle istituzioni il whistleblowing da popoli con ben altra cultura), ma credo che quelli siano i comportamenti che dobbiamo apprendere al più presto. In questa prospettiva credo anche che sia stato un grave errore eliminare il servizio militare di leva e/o il servizio civile perché si è tolto ai giovani di tutto il paese, maschi e femmine naturalmente,  l’unica possibilità di aggregarsi temporaneamente per educarsi alla cooperazione per un fine comune. Sono convinto che un servizio di leva ben organizzato su solide basi democratiche e fini umanitari (per favore non si confonda il mio appello con l’ignoranza leghista o con la nostalgia fascista), fatto in tutti i Paesi europei, che consentisse anche scambi tra come un Erasmus civile, fornirebbe ai giovani l’occasione di educare la propria naturale propensione all’avventura e arginerebbe per esempio il successo della propaganda aruolativa degli jihadisti, fenomeno  che oggi tanto ci allarma.

Ammettiamolo: gli jihadisti stanno ora vincendo, non tanto sul campo di battaglia (prima o poi anche loro saranno definitivamente sconfitti) quanto per gli effetti dirompenti sulla tenuta democratica dei popoli nei nostri paesi occidentali, quelli europei in particolare. Intorpiditi dal benessere e dal consumismo abbiamo generato in Europa due generazioni di giovani dalla coscienza modificata  (chi scrive è nato nel 1948 ed è padre di tre giovani figli) che non hanno mantenuto la memoria del sacrificio delle generazioni precedenti nel conquistare ed affermare i principi della democrazia. Coloro che oggi insistono e giustamente nel ricordare i principi di libertà, uguaglianza e fraternità su cui si è fondata da oltre due secoli la civiltà occidentale a cui apparteniamo dimenticano tuttavia di ricordare che la Rivoluzione Francese è stato un bagno di sangue (colgo l’occasione per ricordare en passant  che Napoleone è stato il primo a voler esportare in Europa la “democrazia”), che tutte le successive Rivoluzioni, Risorgimenti, Guerre d’Indipendenza, Resistenze e Lotte Operaie sono stati tutti bagni di sangue. Risvegliamo dunque almeno con onestà intellettuale le nostre coscienze assopite e riconosciamoci nei nostri principi universali al di sopra delle religioni e delle ideologie. È  la nuova guerra, bellezza, e siamo chiamati a difendere la democrazia, non a praticarla. Siamo tutti soldati.

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