Ormai solo una rivoluzione ci può salvare

inception_vfxDalla caduta del muro di Berlino si è scritto molto sulla fine della storia, delle ideologie, del comunismo, senza tuttavia spiegare perché gli equilibri nel mondo siano oggi diventati più instabili e più pericolosi. Se nell’era ante muro la potenza sovietica minacciava quella americana, nell’era post muro è l’intero mondo occidentale a sentirsi minacciato dalle crisi economiche, dal riscaldamento climatico, dalle migrazioni e dal terrorismo islamico. Cresce la paura: dopo il vissuto olocausto nazista e il temuto olocausto nucleare quale altro olocausto incombe sull’umanità? Quello provocato da una guerra, dal clima o dalla demografia?

Si cerca una via di uscita dall’euro, dall’Europa, dalla crisi economica, dal pericolo del terrorismo, mentre si diffonde la nostalgia per il passato scontro ideologico tra capitalismo e comunismo, uno scontro che sempre più numerosi intellettuali e politici ritengono preferibile a quello che si va oggi delineando con timore tra civiltà o tra religioni. Risorge l’interesse per le analisi di Marx sul Capitale, mentre qualcuno già intravede in Putin, sebbene si rammarichi che non abbia la statura di Lenin, il possibile argine dell’incontrastata egemonia neoliberista e capitalista: l’economia unica, nuovo ordine mondiale.

Di fronte al pericolo di una nuova guerra, di una catastrofe, riemerge la necessità del mito della rivoluzione. Ma quale rivoluzione, questo volgere di nuovo, dopo quella della agricoltura, il cristianesimo, quella scientifica, quella francese, industriale, russa, digitale? Esaminiamo alcuni punti di vista, scelti tra recenti analisi sulle condizioni dell’ambiente, della tecnologia e della coscienza.

Per la giornalista ambientalista Naomi Klein (“Una rivoluzione ci salverà”, 2014) il limite del capitalismo è costituito dalla natura stessa. Detto in termini marxisti e logici sarebbe che la contraddizione interna al capitale sia costituita dalle sue esternalità. E dunque per lei la rivoluzione non può che essere quella ecologica ed ambientale. Un’analisi condivisibile nelle sue buone intenzioni, ma che ancora si muove all’interno del pensiero economico e affida la salvezza dell’umanità alla ricerca di una economia alternativa e sostenibile. Il problema è però, una volta accertato essere il sistema economico la causa prima: si può superare l’economia mediante un ragionamento economico.

Il giornalista tecnologo Kevin Kelly (Quello che vuole la tecnologia, 2010) nella sua analisi della tecnologia giunge a riconoscervi “una qualità essenziale: l’idea di un sistema di creazioni che si autorafforza” e che egli chiama il technium, che va oltre l’hardware e le macchine “per includere la cultura, l’arte, le istituzioni sociali e le creazioni intellettuali di ogni genere. Comprende entità intangibili come il software, le leggi, i concetti filosofici.” L’autore osserva infatti che : “dopo una lenta evoluzione durata diecimila anni e l’incredibile esplosione degli ultimi due secoli”. Kelly è affascinato da una sorta di spiritualità che riconosce nella tecnologia “il technium sta maturando, sta diventando una cosa a sé”, per concludere che “il technium è il modo in cui l’universo ha progettato e costruito la propria autoconsapevolezza”. La rivoluzione è in corso d’opera e su questa spiritualità l’autore fonda il proprio ottimismo per l’umanità : “il fatto che ci sia qualcosa che vive delle proprie forze, è un valido argomento contro il nichilismo cosmico”.

Più recentemente per il teologo cattolico Vito Mancuso (vedi suo ultimo libro “Questa vita”, 2015), che riprende la visione della Terra di James Lovelock concepita come un unico organismo vivente (Gaia) la natura è dotata di intelligenza e dunque l’equilibrio va ricercato dall’uomo nella sua capacità di creare relazione, ovvero di aprirsi, di abbracciare, di amare liberandosi dall’ego, per una ecologia dell’Io perché: “oggi la scienza e la tecnica hanno urgente bisogno della sapienza umanistica e della spiritualità”. Qui si tratta di una nuova rivoluzione della coscienza, una rivoluzione culturale dopo quelle del cristianesimo e dell’illuminismo.

Tre posizioni differenti che pure muovendo da fattori apparentemente diversi come l’ambiente, la tecnologia e la coscienza convergono sulla comune necessità per l’umanità di un cambiamento radicale di fronte alla non sostenibilità della realtà attuale per accumulo di contraddizioni. L’elemento comune che attraversa le tre analisi sopra citate è la tecnica.

E di tecnica il filosofo Martin Heidegger si è occupato in più occasioni, per esempio nelle Conferenze: La questione della tecnica, 1953 e L’abbandono, 1955. Per il filosofo un radicale rivoluzionamento della visione del mondo è già avvenuto. Da alcuni secoli è infatti in corso un sovvertimento di tutte le più importanti rappresentazioni che trasporta l’uomo in una realtà completamente diversa e lo pone in un modo completamente nuovo nel mondo e rispetto al mondo. Si tratta di un rapporto essenzialmente tecnico dell’uomo alla totalità del mondo, in quanto: “La natura si trasforma in un unico, gigantesco serbatoio, diventa la fonte dell’energia di cui hanno bisogno la tecnica e l’industria moderna”. La potenza della tecnica è cresciuta a dismisura e oltrepassa di gran lunga la nostra volontà, la nostra capacità di decisione, perché non è da noi che procede. Heidegger si domanda se esista ancora quel “quieto abitare tra terra e cielo” che attraverso il pensiero meditante  permette all’uomo di radicarsi stabilmente o piuttosto tutto dovrà cadere “nella morsa della pianificazione e del calcolo, dell’organizzazione e dell’automatizzazione”. 

Se consideriamo gli anni di queste riflessioni (prima metà anni cinquanta) potremmo stupirci dell’attualità di affermazioni come “ormai dipendiamo in tutto dai prodotti della tecnica” e come “possiamo dir di sì all’uso inevitabile dei prodotti della tecnica e nello stesso tempo possiamo dire loro di no, impedire che prendano il sopravvento su di noi, che deformino, confondano, devastino il nostro essere”.  Heidegger chiama questo contegno che contemporaneamente dice sì e no al mondo della tecnica “l’abbandono di fronte alle cose”. L’abbandono è da Heidegger inteso eticamente come un modello di vita, un nuovo atteggiamento che l’uomo deve sforzarsi di esercitare nel suo rapporto al mondo della tecnica al fine di salvaguardare nella sua pienezza l’umanità dell’uomo contro l’impoverimento essenziale portato dal progresso tecnico-scientifico.

Per quanto superficiale sia questa digressione sul pensiero di Heidegger è tuttavia riconoscibile nella sua filosofia una radicalità nella quale è possibile intravedere la via di fuga se, con anche riferimento alle analisi di Marx, concepiamo l’economia come la ” morsa della pianificazione e del calcolo, dell’organizzazione e dell’automatizzazione” dalla quale liberarci. Per questo, ormai solo una rivoluzione ci può salvare.

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