Al voto! Al voto!

UnknownQuando si dice che la quantità diventa qualità: l’astensione al voto arrivata al 50% fa ormai più paura dell’affermazione elettorale della formazione politica avversaria, per altro ormai assimilabile in governi di larghe intese.  Gli esiti delle ultime tornate elettorali politiche e amministrative hanno imposto all’attenzione dei politologi ed opinionisti la ricerca delle spiegazioni del fenomeno ‘astensionismo’,  quando  piuttosto dovremmo spiegarci il perché in passato avvenisse il contrario.

Quando i tassi di partecipazione al voto erano elevati (89% al referendum per scegliere fra monarchia e repubblica nel 1946, oltre il 90% negli anni ’70)  venivano interpretati come indicatore dell’elevata partecipazione alla politica degli italiani.  I dati sull’affluenza alle urne ci ponevano ai primi posti nel mondo occidentale e democratico e inorgoglivano i politici dell’epoca, i quali consideravano la scarsa partecipazione al voto  per esempio negli Stati Uniti d’America o in Gran Bretagna come una macchia per quelle democrazie che si consideravano più avanzate e mature. Il fenomeno è stato facilmente spiegato  con l’uscita del paese dalla dittatura fascista e con la contrapposizione ideologica domestica tra democristiani e comunisti nel quadro mondiale della divisione est-ovest.  Gli stessi tassi oggi drasticamente dimezzati segnalerebbero agli studiosi, già preoccupati per altre ragioni dello stato della democrazia in Italia, che in fondo non si tratterebbe di una pericolosa disaffezione nei confronti della politica, dei partiti e dei governi e che anzi il fenomeno va considerato come indicatore dell’affermarsi di una nuova specie di cittadino: “l’astensionista razionale, analitico, sofisticato: il cittadino critico che considera il non voto  come un’opzione politica”,  come analizza Elisabetta Gualmini (La Repubblica del 13/6/2013).  In un altro intervento sullo stesso quotidiano Roberto D’Alimonte osserva d’altro canto che “un alto livello di partecipazione non è necessariamente sinonimo di buona democrazia”.  D’altra parte, Barbara Spinelli in un acuto articolo dal titolo ‘ La paura del popolo’ (La Repubblica del 12/6/2013) aveva rilevato il riemergere dei dubbi sul suffragio universale in relazione al diffuso orrore del populismo, ricordano le origini del fenomeno tipicamente aristocratico risalenti all’epoca della Grecia classica e così bene espresse da Aristotele quando dichiarava di temere una degenerazione della democrazia  se sovrano fosse diventato il popolo e non la legge.  Dobbiamo risalire dunque a 25 secoli fa per riscoprire il punto cruciale da chiarire prima di discutere di democrazia e di popolo.

Quello che forse sfugge alla sensibilità degli opinionisti contemporanei è che i Greci prima della democrazia e dopo i miti inventarono la filosofia, ponendola a fondamento dell’intera esistenza umana e pertanto non potevano ammettere che la vita della polis, oggi diremmo di uno Stato, potesse dipendere dalla ‘volontà popolare’ piuttosto che dalla sapienza. Bisognerà attendere fino agli illuministi per comprendere come la precondizione per il riconoscimento del diritto al potere del popolo fosse il livello della sua cultura. La conoscenza per tutti e il diritto all’istruzione (il vero e profondo spirito dell’Encyclopédie) sono le premesse che daranno realtà e valore al suffragio universale. Con l’illuminismo il popolo può finalmente evolversi  dalla condizione di massa  in un insieme di cittadini che cooperano e si riconoscono mediatamente il diritto (lo Stato come entità terza).  E se il popolo fa paura è solo quando si ribella, consapevole dei propri diritti, non quando è passivo, acquiescente o assente.

Una conclusione che si può dunque trarre dalla fluttuazione della partecipazione al voto è che non esiste una correlazione tra il livello di democrazia di un paese e la partecipazione elettorale dei suoi cittadini, ma che esiste piuttosto una relazione tra entrambi i due fattori  (democrazia e  partecipazione) e il livello culturale di un popolo, ovvero la sua civiltà acquisita, il cui accrescimento è il fine ultimo della politica.  Una nuova scuola di pensiero si sta dunque affermando nel nostro paese, che  vede nella dinamica dell’astensionismo e nella fluttuazione della scelta elettorale una nuova e più evoluta forma di esercizio della sovranità popolare, ma si tratta del trionfo dell’ideologia economicistica  del mercato, del marketing, della logica della mercificazione che vince anche in politica sui principi.

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