La cultura non è un’ideologia

images-2Reyhaneh Jabbari è stata condannata a morte in Iran per aver ucciso a coltellate chi stava per violentarla. È stata quindi impiccata per il mancato perdono da parte della famiglia della vittima, che avrebbe potuto convertire la pena di morte in detenzione. Tutto secondo il diritto islamico della “qisas”, la legge del taglione.

Questo fatto terribilmente osceno dovrebbe far riflettere i benpensanti relativisti che considerano tutti i popoli avere uguale dignità. 
Diversamente, molto diversamente (e come diversamente potrebbe essere ?) ogni popolo staziona su diverse considerazioni dell’ “Altro da sé”, determinando di volta in volta diverse regole di convivenza: dal tribalismo, dalla barbarie, al rispetto, all’amore per il prossimo con diverse gradualità che vanno, per i pochi che hanno l’intelligenza di comprendere, da zero a infinito. Non res sed modus in rebus.

La mancanza delle dimensioni  e del saper dimensionare all’interno del sé pregiudica la capacità valutativa e l’intelligenza del reale. L’appiattimento relativista colora la realtà di uno squallido bianco o nero. Non è cosa da poco, non si tratta di parole ma della denuncia del mancato spessore con cui la maggioranza delle persone vivono la propria esistenza a detrimento di sé come del prossimo. Generalizzazioni che trovano conforto in frasi come “ci saranno sempre i ricchi e i poveri, i potenti e gli afflitti …” per concludere con il fatidico “nulla cambia”. Una tale insipienza non meriterebbe alcuna attenzione se non fosse che l’ignoranza che si fonda su una tale incapacità discriminativa nella totale assenza di un’educazione dello spirito infesta quotidianamente ogni possibile riflessione in ogni possibile discussione, con chiunque e a qualsiasi livello. La mancanza di uno spessore culturale infatti denuncia l’ignoranza assoluta della comprensione o “del quanto e del come ” o di quanto e come l’ evoluzione culturale, non solo storica, ma più propriamente e profondamente evolutiva sia avanzata attraverso i millenni.

Personalmente sono ben cosciente dei profondi cambiamenti culturali che riguardano la mentalità e quindi la convivenza che separano anche una sola generazione dall’altra in spazi di tempo infinitamente brevi. Non vivo oggi nello stesso ambiente in cui sono nato. Io ricordo l’odore: ho educato il mio naso alla memoria. Diversamente, nella maggioranza degli esseri senzienti il sentimento in odore della sola attualità vive il presente rendendo unico il sentimento a giudizio. Questa inaccettabile superficialità recita solo lo “spettacolo” e appiattisce adimensionalmente al “qui e ora” tutta l’esistenza.

Ebbene tutti i popoli sono diversi, sia in qualità che in quantità, ogni popolo ha raggiunto un diverso grado di civiltà e, udite, una diversa dignità. Dignità che si manifesta nella mentalità, nel modo particolare di concepire, intendere, sentire, giudicare le cose, nella considerazione di sé come dell’altro da sé.
Non si tratta di giudicare un popolo migliore di un altro per trarne conclusioni pregiudiziali tendenti al dominio, ma di discernere criticamente in ogni popolo, nello studio approfondito della mentalità, il grado di civiltà secondo quantità e qualità raggiunto, senza abbandonarsi nel giudizio al “sentito” personale o all’ideologia legata alla propria cultura. La cultura non è un’ideologia.

Detto ciò “giudicare è doveroso e irrinunciabile”, non per dirsi migliori o peggiori , ma per valutare la civiltà su oggettivi parametri legati alla convivenza, alla capacità di convivenza di quel popolo con gli altri popoli come alla capacità di convivenza di quel popolo con se stesso. Una petizione umanitaria in difesa dei diritti dell’Uomo non solo ha il diritto, ma il dovere di interferire.

Lo studio approfondito dell’evoluzione dal comportamento animale al comportamento umano rivela cammini comuni a tutta la specie Homo sapiens sapiens, tappe evolutive necessarie e necessitate comuni a tutta l’umanità. Le civiltà sono proiezioni nel positum, rappresentazioni materiali di questo cammino. La conoscenza approfondita di queste fasi è indispensabile per iniziare qualsivoglia discussione sul presente in qualsiasi disciplina. Al di sotto di questa conoscenza io vedo solo l’aprire la bocca.

Il nefasto episodio della donna violentata, richiesta ad abiurare e poi impiccata (per volontà del figlio dell’ucciso) mostra l’arretratezza di una cultura che ha avuto giustificati motivi suo tempo di esistere ma che denunciando ora la sua “crudele barbarie” manifesta a chi vuole intendere che la cultura è in progresso e che questo progresso è una Verità Oggettiva Assoluta,  Verità dello Spirito a prescindere da questioni teologiche. Per i pochi o pochissimi che intendono esiste la direzione, esiste “la retta via” anche se dice Pindaro “tempo eterno è di mezzo”. Ma questo non sconforti , ciò significa anzi che “non c’è confine al miglioramento”. Da zero a infinito, con distinzioni d’essere, odore della vita, che mutano ora nell’arco di una sola generazione (25-30 anni). Abissi.

Solo chi comprende fino in fondo in cuor suo questo ha diritto a parlare. Il resto è solo chiacchiera, merita il silenzio. Di contro il becero relativismo, ora filosoficamente imperante, negando l’esistenza di ogni verità oggettiva permette l’opinione a chiunque respiri salvo poi scandalizzarsi di fronte episodi di questo genere. Solo la cultura ci salverà




L’io sento

UnknownSento dunque sono? Leggiamo cosa dice  Louis Agassiz  a proposito dei neri americani nella seconda metà dell’ottocento in una lettera alla moglie (His life and corrispondence, Luis Agassiz, 1893): “Tutti gli inservienti del mio albergo erano uomini di colore. Mi è difficile descriverti la penosa sensazione che questi mi hanno suscitato, specie perché il sentimento che mi ispiravano è contrario a qualsiasi principio di fratellanza del genere umano e di origine unica della nostra specie. Ma la verità prima di tutto. Ho provato pietà alla vista di questa razza degradata e degenerata e, al pensiero che si trattasse di uomini, ho sentito per loro una grande compassione. Tuttavia mi è impossibile reprimere la sensazione che essi non siano dello stesso nostro sangue. Vedendo le loro facce nere, le loro labbra carnose, i loro denti, la loro capigliatura lanosa, le loro ginocchia storte, le loro lunghe mani con grandi unghie curve , e specialmente il livido colore delle palme, non potevo staccare gli occhi dai loro volti e ordinare loro di stare lontani da me. E quando allungavano quella mano ripugnante verso il mio piatto per servirmi, avrei voluto scappare lontano a mangiare un pezzo di pane piuttosto che cenare con un tale servizio. Che infelice scelta per la razza bianca aver legato, in certi paesi, la propria esistenza a quella dei negri! Dio ci salvi da un tale contatto!”. 

Agassiz, chi era costui? Naturalista americano della seconda metà dell’ottocento Agassiz è un importante studioso di pesci fossili, protetto dal “Grande” Cuvier, il fondatore della paleontologia.  Agassiz lasciò la nativa Svizzera per far carriera in America “in quanto europeo famoso ed affascinante” (come ce lo presenta il paleontologo evoluzionista Syephen J. Gould nel suo libro Il pollice del Panda, 1980).

Come il suo ispiratore Cuvier, Agassiz fu uno strenuo difensore della teoria creazionista di contro alla teoria evoluzionista darwiniana. Citato e riconosciuto all’epoca come “scienziato” non ha perso neppure oggi tale appellativo. Ciò che sono intenzionato a fare non è certo entrare in polemica per smentire tesi (il fissismo) ridicolizzate nei fatti  dalla stessa scienza, ma entrare più profondamente nell’analisi del brano sopracitato in quello che superficialmente, troppo superficialmente, viene definito “animo umano”, per trarne poi insegnamenti sulla sua “natura”, appunto “la natura umana”. Un termine quanto mai ambiguo usato in tutte le epoche con grande superficialità nella falsa sicurezza che con esso fosse noto l’oggetto da indagare.

Tutti o quasi oggi etichetterebbero l’autore del brano in questione con una pronto giudizio: razzista. La mia tesi sarà scoprire le origini del razzismo e dimostrare che Agassiz non solo non si pensava razzista, ma che era un uomo intellettualmente onesto. Dimostrare altresì quanto sia errata la definizione di scienziato attribuita fino ai giorni nostri di personaggi che vengono definiti tali solo perché si occupano di scienza alla stessa maniera con cui si definiscono filosofi coloro che si laureano o insegnano filosofia.

Scusate la digressione e torniamo senz’altro al brano sopra citato. Dalla lettera (sconvolgente) che cosa principalmente si evince? Si evince che il giudizio sul mondo è a partire dalla propria emotività, dice Agassiz “il sentimento che mi ispiravano”, senza avvedersi di prendere la propria emotività, ovvero “come io sento e percepisco il mondo” a metro e verità dell’essere: il metro con cui io andrò a giudicare il mondo. Guardando dentro a se stesso, alle proprie emozioni, Agassiz con grande onestà intellettuale si sente in dovere di contraddire i propri principi “di fratellanza del genere umano e di origine unica della nostra specie”. “Ma – afferma Agassiz – la verità prima di tutto”.

Che cos’è per Agassiz la verità?: l’io sento. Prendere per vero ciò che la propria anima a se stesso con grande travaglio interiore confessa. Non si avvede minimamente che il proprio modo di sentire è solo il suo personale modo di sentire e lo trova vero tanto più che questo va contro i suoi principi, ispirati da sentimenti cristiani di compassione: “ma la verità prima di tutto”. Agassiz riconosce nell’ io sento, il massimo della soggettività, quell’oggettività che eliminando l’ideologia (l’ideale di fratellanza e di un’unica specie) lo riconduce in buona fede a un “atteggiamento da scienziato” che non lascia che le proprie aspirazioni ideologiche pur emotivamente fondate (compassione e pietà) possano turbare o negare quella verità che i sensi gli offrono che sono il suo modo di vedere la verità. Per i ‘negri’  prova pietà e compassione, ma non lascia che questi sentimenti neghino l’evidenza, dove l’evidenza, ob torto collo, è quello che la realtà mostra attraverso i suoi personalissimi sentimenti.

Questo atteggiamento si può riassumere in due paradigmi: io sono quello che sento (l’io sento) e ciò che sento è la verità. Da questa monade, “l’io sento”, con cui il giudizio di valore di tutta la realtà viene determinato come vero, pochissimi fuggono. L’ io sento,  secondo cui é vero ciò che sento, l’unificazione tra realtà e verità all’interno dell’io costituisce per ciascuno la “visione del mondo” e la con-fusione tra realtà e verità. Da questa gabbia che ci unisce e isola a un tempo, da questa gabbia che siamo noi nel senso più proprio, sia superficiale che profondo, partono tutte le nostre considerazioni sociali, politiche, filosofiche. L’ io sento fa da filtro alla realtà e giudica come vere solo quelle proposizioni che compiacciono allo spirito.

Di questa gabbia nessuno o pochissimi hanno coscienza. Da questo autoinganno pochissimi fuggono. La quasi totalità degli umani, compreso il lettore, così come Agassiz (nota bene definito come scienziato) confonde la propria visione del mondo con la verità dell’essere, molti come Agassiz addirittura a livello addirittura epidermico  “ Vedendo le loro facce nere, le loro labbra carnose, i loro denti, la loro capigliatura lanosa, le loro ginocchia storte, le loro lunghe mani con grandi unghie curve e specialmente il livido colore delle palme, non potevo staccare gli occhi dai loro volti e ordinare loro di stare lontani da me”.

Dal suo epidermico sentire, infanzia dell’umanità, l’io sento vede, respira e giudica: lo fanno tutti, compreso tu che stai leggendo. La paura, l’orrore, la fobia del diverso è la patologia più diffusa tra gli umani. In ciascuno il bambino giudica il mondo a partire dall’ io sento. Le fobie e le antipatie o simpatie sono per la stragrande maggioranza della gente ancora il tramite della conoscenza e il modo di relazionarsi al mondo. Se a questo si aggiungono i pregiudizi, cliché del sentire comune che operano nel “grege” si ha il panorama del sociale nella sua patologia.

La stragrande maggioranza degli individui è parlata dalla lingua e dalla mancata evoluzione dell’ io in una più ragionevole condivisa visione della realtà, ovvero la maggior parte degli individui, lasciata a se stessa senza un’educazione sentimentale, non raggiunge mai l’età adulta, indulgia in uno stato mentale nel quale considera il proprio personale modo si sentire come metro oggettivo di valutazione. Ci si rivolge al sé in maniera acritica in una postura resistiva in difesa costante dell’io nella paura di perdere la personalità.

La realtà esterna giunge come conflittuale obbligando a un cambiamento forzoso.
 Le convinzioni emotivamente fondate tendono alla conservazione. La resistenza al cambiamento costringe l’individuo a ingoiare la realtà e a forzarla all’interno del proprie convinzioni a partire dall’io sento. Il bambino cui è mancata l’educazione sentimentale conserva nell’età adulta, il nucleo emotivo legato al principio dello “è vero quello che sento” e nella mancata maturazione dello spirito riversa sul sociale tutte le sue manchevolezze qualsiasi ruolo vada a rivestire anche quello riconosciuto di scienziato, filosofo o politico.




L’autoimmunità sociale

images-4Unknown-1Secondo stime correnti  80-100 mila sarebbero i combattenti jihadisti dell’Isis, di cui 3000 sarebbero europei e 48 italiani. Circolano sul web informazioni anche sulla presenza di occidentali tra le fila dei resistenti curdi.In Ucraina si sono formate neo-brigate internazionali di antica memoria ed anche tra queste sono presenti italiani. Siano essi volontari ideologici o mercenari, questi neo-brigasti costituiscono un fenomeno significativo, per quanto ancora contenuto, che ci indica un profondo e grave mutamento sociale in corso. Un fenomeno che non ci è estraneo e che non va sottovalutato, come è accaduto in questi ultimi decenni per il virus Ebola.

Che i giovani di ogni popolo (sappiamo quanto le condizioni culturali, sociali ed economiche nei nostri paesi occidentali, in particolare in Italia, abbiano prolungato tale status) siano i più esposti ad assumere comportamenti estremi per il loro bisogno di appartenenza sociale e di identificazione con principi e valori alternativi alle autorità esistenti è fenomeno noto e studiato. Del resto i poteri degli Stati e le dittature del secolo scorso hanno saputo bene come utilizzare queste potenzialità (arruolamento dei giovani e loro preparazione alla guerra).

Tuttavia, pur conoscendo i metodi e gli effetti di tale reclutamento (la posizione del dito indice nelle due immagini qui sopra esprimono tuttavia una differenza culturale profonda: in alto verso il cielo o diretto verso di te), come spiegare il fatto che la propaganda jihadista, con il suo uso studiato delle tecniche del marketing,  si presenta come  attrattore per alcuni giovani? È come se nelle società occidentali si fosse sviluppata una sorta di autoimmunità sociale e si manifestasse la radicalizzazione dei conflitti interni all’occidente proiettata in un teatro di guerra straniero al fine di potersi esprimere con l’azione.

Si tratta di una perdita o mancanza di identità che porta sempre più numerosi cittadini, per lo più in età giovane, a disconoscere i principi sui quali si è fondata la loro formazione e per i quali dovrebbero reagire contro ogni minaccia ma che al contrario rivolgono contro di essi la propria ostilità. Che il tramonto dell’occidente si manifesti con un’autoimmunità sociale?

 




Del doman non c’è certezza

 

UnknownLa fine di un rapporto d’amore è un evento drammatico, un lutto che ha ispirato da millenni poeti e musicisti. E il Trattamento di Fine Rapporto? Riecheggiano i versi del Magnifico fiorentino: Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: del doman non c’è certezza. 

In economia il futuro è reso possibile dal risparmio. Il lavoro, la casa, la pensione e il TFR sono stati per la famiglia italiana valori fondamentali, fuor di metafora, sui quali fondare un’esistenza che si proiettasse nel futuro. In questi ultimi anni gli economisti ci hanno ripetutamente spiegato che la ragione per cui l’Italia ha potuto resistere meglio di altri paesi alla crisi finanziaria ed economica stava proprio nel risparmio delle famiglie.

A fronte della progressiva perdita del lavoro e diminuzione del potere di acquisto lo stato di recessione ha quindi costretto le famiglie ad intaccare i propri risparmi nel tentativo di mantenere le condizioni di vita raggiunte. Nonni con le loro pensioni e genitori con i loro risparmi stanno mantenendo quel oltre 44% di giovani senza lavoro.

Ebbene, dopo l’allontanamento dell’età pensionabile, dopo la disoccupazione e la precarizzazione del lavoro, fallito il tentativo secondo il Tremonti pensiero della cartolarizzazione immobili privati, ora tocca all’anticipo di una parte del  TFR nella busta paga. Magari per due o tre anni, con la rassicurazione che si mantenga la tassazione separata, purché sia realizzata con scelta volontaria ? Perché no, mugugnano i sindacati. Preferite l’uovo oggi o la gallina domani?

È sconcertante come l’inetta sinistra italiana non reagisca con fermezza contro la viltà di una simile proposta che per alimentare le entrate nelle casse dello Stato non esita a sgretolare il futuro delle persone facendo leva sullo loro presente stato di bisogno. Questa politica, disconoscendo il ruolo regolatore dello Stato tanto faticosamente conquistato nella storia, rivela ancora una volta la propria incapacità di governare l’economia per difendere le persone dal cinismo del mercato.




L’economia è nuda

images-1Dovrò sfondarvi i timpani per farvelo capire? L’unico modo di uscire dalla crisi è aumentare i consumi, ovvero mettere più soldi nelle tasche degli Italiani. Aumentare la ricchezza complessiva nelle tasche di tutti, per i noti limiti del sistema bancario europeo non solo in Italia ma in tutta Europa, così come hanno fatto gli USA, oggi usciti dalla crisi, riversando miliardi di dollari sul mercato.

Ogni cosidetta riforma e di fatto una controriforma, va direttamente in senso inverso, blocca di fatto con l’impoverimento dei diritti ogni possibile aumento dei salari, ovvero della massa complessiva della ricchezza in tasca ai cittadini, ricchezza senza la quale la produzione è destinata inesorabilmente a rallentare e progressivamente a bloccarsi. Come non capire questa banalità: se non ho i soldi per comprare tu non vendi!

Puoi migliorare, ottimizzare, la produzione ma sono palliativi. L’unica cosa che aumenta la produzione e l’occupazione è l’aumento della domanda, l’unica benzina che avvia il mercato è il consumo: il telefono che squilla per gli ordinativi. Se il telefono squilla tutto il resto, tasse comprese, diviene di secondaria importanza. E non ci può essere consumo senza aumento della ricchezza nelle tasche di tutti.
L’aumento della produzione presa a sé è senza valore, a che produrre di più se non aumenta la richiesta? Per accumulare merci in magazzino? A chi si vuole vendere?

All’estero ragliano in coro economisti da strapazzo che invece che in cattedra dovrebbero stare ad ascoltare con le loro lunghe orecchie tra i banchi. Ignari della teoria dei vasi comunicanti ritengono di risolvere il problema in modo egoistico e concorrenziale mettendo in concorrenza gli sfruttati di un Paese (sempre più numerosi), con gli sfruttati (sempre più numerosi) di un altro, nel quadro di un impoverimento generale che porterà inevitabilmente ad un aumento dello sfruttamento e della disoccupazione ed a una diminuzione generalizzata in tutta europa della ricchezza. Un domino di insipienza che porterà inevitabilmente alla crisi anche la stessa Germania, la locomotiva, che non potrà più vendere i propri prodotti ad un resto Europa, i mercati orientali non sono più sufficienti, che non ha più i sodi per acquistarli. E allora? Altri mercati e così via finché il cerino scotterà le dita all’intero pianeta?
Un’ economicismo miope che legge come reale solo il contingente e si oppone cieco alla cultura. La necessità di un nuovo umanesimo che tolga le redini ad un turbo-capitalimo in corsa si rende sempre più necessario.

È talmente banale ed evidente tutto questo che pare che una fata maligna abbia chiuso a tutti gli occhi con la polvere della stupidità.
Renzi dice di pensare al futuro dei giovani e per una sorta di incantesimo ancora una volta al suono del piffero un’ umanità insipiente va alla deriva insieme al pifferaio. Eppure è sotto gli occhi di tutti che razza di futuro si sta preparando. I giovani, per i quali tutto si dice di fare, non avranno mai i soldi per pagarsi un mutuo (niente casa) né un lavoro continuativo per avere un’adeguata pensione, ed ora neppure un TFR: un provvedimento santo e provvidenziale fatto a suo tempo per garantire non solo l’individuo ma anche lo Stato. Come non capirlo?

Il futuro? Una massa di vecchi homeless senza adeguata pensione né liquidazione. Chi li manterrà? Un destino inevitabile da terzo mondo. Un problema già da ora irrisolvibile per lo Stato. Renzi la sciagurata cicala si è personalmente come molti, molti altri che compaiono sullo schermo televisivo messo al sicuro personalmente per questa vita, per quell’unica vita, per quel che ci è dato di sapere, per cui altri, non garantiti, dovranno lottare per non soccombere. Tutto dipende ancora da dove e da chi sei nato.

Una politica sciagurata che pensa di risolvere i problemi risparmiando sulla pelle dei lavoratori, dei pensionati e dei giovani, attraverso l’indebolimento progressivo dei loro diritti e il loro progressivo sfruttamento, sta trascinando un intero continente nel baratro: chiamano questo disumano impoverimento economico Austerity, con il portato  delle “Riforme strutturali”, rimedio universale. Ciò che è più grave: un istupidimento generale fa delle vittime i complici dei carnefici. Disgustose bamboline ripetono all’infinito banalissimi slogan e, Dio mio, sono ministri o rappresentanti di partito che trovano spessissimo il consenso tra la popolazione. In mano alla politica dell’austerità è inevitabile il declino. I rimedi ci sono ma prima di tutto occorre una nuova cultura un nuovo umanesimo. Una coscienza civile politica, e soprattutto filosofica in seno al popolo.

Finché il popolo non capirà cultura nessuna possibile salvezza. Solo la cultura ci salverà.




La dignità ritrovata

Arin MirkanCeylan OzalpDue donne curde si sono uccise in questi primi giorni di ottobre per difendere la loro città di Kobane in Siria dall’aggressione delle brigate nere dell’Isis. Finite le munizioni, per evitare il martirio come prigioniere degli jihadisti, una si è gettata come un kamikaze contro il nemico, l’altra ha utilizzato l’ultima pallottola contro se stessa.

Nella mitologia greca gli eroi erano giovani e belli e costituivano per gli uomini il modo di avvicinarsi agli dei. Arin Mirka e Ceylan Ozalp erano donne giovani e belle. Non sono abbastanza “maschilista” per farmi commuovere solo dalla bellezza femminile, ancor meno sono ideologico per fare dei loro volti la versione femminile dell’icona del Che Guevara. C’è di più, molto di più in questa tragica vicenda che non si può esorcizzare elogiando il sacrificio o l’eroismo di donne fiere e combattenti e che ci riguarda tutti. Questi due volti, senza veli, ci sconvolgono per due sentimenti profondi che la loro tragica scomparsa ha fatto riemergere in noi: la vergogna e la paura della fine.

La vergogna. Non è questione di scontro tra civiltà, ma del riconoscimento e della difesa dei principi su cui si fonda le nostra identità e che il popolo curdo, prevalentemente musulmano ma di tradizione culturale indoeuropea, oggi ci ricorda con la propria lotta contro il terrorismo integralista. All’epoca delle manifestazioni contro la guerra del Vietnam, negli anni settanta, nutrivo un certo disagio nel pensare ai soldati americani miei coetanei che rischiavano la loro vita, molti di loro la persero, mentre io europeo sfilavo per le strade della mia città. Quando in anni più recenti, oramai adulto, mi sono recato al Vietnam Veterans Memorial  a Washington ho sfogliato il libro dei caduti per cercare il nome, i nomi, di coloro che erano nati nello stesso mio giorno, mese ed anno, con la profonda angoscia che avrei potuto leggervi anche il mio. L’inquietudine non derivava dalle ragioni di quella guerra, ancor meno da una mia presunta appartenenza ideologica o religiosa, ma dalla consapevolezza della alterità della vita, della sofferenza e della morte formatasi nella nostra società. È un fatto, ed è positivo, che i giovani, in particolare nel nostro Paese, non abbiano conosciuto da due generazioni la tragedia della guerra e i suoi sacrifici. Questa condizione privilegiata ha consentito loro di sviluppare una cultura solidale e pacifista, ma dobbiamo vigilare sul rischio che non abbia affievolito la loro integrità morale.

La paura della fine. Da un secolo ci arrovelliamo sulla possibilità del tramonto dell’occidente: due guerre mondiali, altre guerre in Corea, in Vietnam, nel Medio Oriente, dalla paura di ieri per un olocausto nucleare causato dalla guerra fredda indotta dalle super potenze e guerreggiata di nascosto al terrore per gli attentati preannunciati apertamente a tutto il mondo dagli jihaidisti islamici. Tornano alla mente le parole di Oswald Spengler: “Noi non abbiamo la possibilità di realizzare questo o quello ma la libertà di fare ciò che è necessario o nulla; ed un compito che la necessità della storia ha posto verrà realizzato con il singolo o contro di esso.” Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.  Intanto, un senso di angoscia si diffonde e si generalizza nei paesi occidentali: non tanto per l’orrore suscitato dalle decapitazioni spettacolari quanto per il timore di arrivare ad ammettere la necessità della forza come risposta e dunque regredire allo stato di violenza animale. E qui tornano alla mente le parole tratte da Cuore di tenebra di Joseph Conrad e riprese nel  monologo del colonnello Kurtz in Apocalypse now: “È impossibile trovare le parole…per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore. L’orrore…l’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore. L’ orrore e il terrore morale ci sono amici in caso contrario allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici. (…). Bisogna avere uomini con un senso morale, ma che allo stesso tempo siano capaci di… utilizzare i loro primordiali istinti di uccidere senza emozioni, senza passioni, senza discernimento… Senza discernimento. Perché è l’intenzione di giudicare che ci sconfigge.”

Sul piano politico noi portiamo la colpa di avere lasciato queste due donne senza più munizioni, disconoscendo coloro che là fuori, ai confini dell’occidente, difendono le nostre democrazie senza poter praticare la loro. Sul piano etico loro ci offrono un esempio per una dignità ritrovata.