Il deserto cresce

Unknown-1Non si tratta del riscaldamento terrestre, ma della incomunicabilità creata dalla frenesia jihadista che rende sempre più difficile una qualsiasi forma di dialogo con lo Stato Islamico che pretende di costituirsi sull’orrore. Cresce pericolosamente la distanza che ci separa da questa inciviltà.

Non si tratta soltanto di iconoclastia, perché la questione propriamente teologica sull’utilizzo o la distruzione delle immagini religiose non ha impedito alle religioni abramitiche, la cristiana e l’islamica in particolare, di produrre quello splendore artistico che oggi possiamo ammirare, per esempio, in Andalusia e in Sicilia. Ed oggi, nella misura in cui gli allarmi di attentati terroristici in Europa e in Italia sono realistici, possiamo temere attentati anche alle opere d’arte, agli edifici e monumenti nelle nostre città.

Sarebbe qui il caso, ben al di là dell’ipocrisia del politicamente corretto, di far precedere i video sulla distruzione sistematica del Museo di Mosul dall’avviso “le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità“ perché qui l’orrore non è più soltanto la violenza di un omicidio, resa ancor più insopportabile dall’efferatezza della sua esecuzione, ma è l’espressione cruda dell’abiezione umana, dal momento che mostra l’essere umano disumanizzare sé stesso fino al punto di uccidere le proprie origini.

Di fronte all’avanzata degli jihadisti e alla esibizione mediatica delle loro imprese diversi commentatori si pongono pur da diverse posizioni politiche e religiose sempre più frequentemente le stesse domande: “quanto dureranno ancora?”, “quanto ancora il resto del mondo starà a guardare i loro video?.  Adriano Sofri su LaRepubblica: “(…) Ammazzano, umani di carne e ossa e umani di pietra, e aspettano, ubriachi di sé, d’essere ammazzati”.

Dobbiamo temere le nostre reazioni quanto le azioni dei nostri nemici. Il Male gode della “proprietà transitiva” per la quale esso non solo possiede i carnefici, ma si trasmette  alle vittime rendendo quest’ultime anche peggiori dei carnefici, costringendole a collaborare al loro livello e a perdere qualsiasi dignità. L’abate Aranud Amaury in occasione del massacro degli eretici Catari a Béziers, interrogato da un soldato su come poter distinguere nell’azione gli eretici dai cattolici, avrebbe risposto: “uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi”.  Nietzsche fa dire a Zarathustra che sì il deserto cresce, ma subito dopo ammonisce: guai a chi cela deserti dentro di sé!

 

 

 




La proprietà transitiva del male

La Pietà di Michelangelo_ Allo spagnolo Samuel Aranda del New York Times il premio miglior foto 2012 dal World Press PhotoAl di qua del bene e del male ognuno in cuor suo pensa sempre di aver ragione. Il più efferato crimine si giustifica sempre con la buona fede. L’ ”io sento” trova sempre in sé le ragioni del proprio essere. Non solo Eichmann, ma anche Hitler hanno agito in “buona fede”, ovvero nella fede che loro ritengono buona. Questa verità deve essere chiara a tutti. Il crimine diventa crimine solo se e quando viene scoperto e solo allora associato, se associato, alla vergogna, ma in chi la fede è incrollabile neppure la condanna e la morte provocano il pentimento e salvano così anche la loro dignità. Se dunque non è la buona fede a salvare l’uomo, che cosa fa della coscienza una buona o una cattiva coscienza? Che cosa fa dell’uomo l’uomo?

L’essenza del male è la perdita della compassione. La compassione è ciò che relaziona il sé all’altro da sé e fonda con ciò la morale. Senza la morale che dice umano ciò che è umano, ciò che fa dell’uomo l’uomo, la buona fede si sostituisce nella coscienza capace di qualsiasi delitto nel sacrificio anche a costo della propria vita. Il Male gode della “proprietà transitiva” esso infatti non solo possiede i carnefici, ma passa alle vittime rendendo le vittime anche peggiori dei carnefici costringendole a collaborare e a perdere qualsiasi dignità. La perdita di dignità porta le vittime a collaborare spontaneamente coi carnefici e perduta tra di loro la solidarietà a essere a loro volta carnefici di se stessi.

Il Male gode inoltre di un’altra proprietà la “proprietà cumulativa”.  Al Male offerto dai carnefici si va a sommare il male profferto dalle vittime e il Male nella sua generalità aumenta. La responsabilità del male profferto dalle vittime va a sommari a quello offerto da carnefici, ma l’oppressione delle vittime sulle vittime è non di meno responsabilità delle vittime. La compassione è fede laica quanto religiosa, ha luogo nell’uomo solo in quanto conquista sociale dello spirito in modo indipendente da qualsiasi credo e per questo universale.

La scomparsa della compassione segna proporzionalmente la scomparsa della dignità che nella compassione trova il suo fondamento. Un uomo senza compassione è anche moralmente un uomo senza dignità. Questa è la logica che unisce oppressi e oppressori. Ogni regime che consideri, e nella misura in cui consideri, gli altri come massa di manovra, forza lavoro, numeri al servizio di alcunché (oggi il Mercato) opera nel male e sminuisce la coscienza di ciascuno: anche gli oppressi divengono ad uno a uno individualmente peggiori.

Il baluardo a difesa del Male trova nella dignità un suo fiero avversario, ma la dignità non ha radici se non si fonda sulla compassione e l’espressione più alta della compassione è la misericordia. Scrive Shakespeare ne Il Mercante di Venezia: La misericordia per sé non mai soggiace
 a costrizione; essa scende dal cielo
 come rugiada gentile sulla terra 
due volte benedetta:
 perché benefica chi la riceve 
come chi la dispensa. Solo la cultura ci salverà.




Uno Stato Laico non può tener conto dell’al di là.

images-3Il Male c’è, il male si diffonde e si trasmette. Chi lo nega è il vostro assassino. Dai carnefici alle vittime scivola silenzioso, inavvertito, fatale. Il processo si chiama disumanizzazione, rende gli oppressi a volte peggiori degli oppressori. Ce lo ricorda Primo Levi: “I deportati collaborarono coi carcerieri per mantenere i privilegi a svantaggio degli altri detenuti”, ma anche Manzoni: “I provocatori, i soverchiatori sono rei non solo del male che commettono ma del pervertimento altrui”.
La disumanizzazione, la perdita dello spirito, ciò che fa dell’uomo l’uomo, degrada l’uomo fino alla bestia, fino a divenire cosa. La perdita di umanità è il male in sé e ciò che è più tipicamente umano è la Dignità. La dignità è il valore fondante per qualsiasi società che voglia dirsi civile, un bene che si deve riconoscere a tutti. La dignità è il massimo valore dell’esistenza. Nessuno deve essere o sentirsi umiliato.

In una crisi non c’è solo la recessione economica ma soprattutto un arretramento culturale che rende peggiori gli oppressi. I poveri sono pericolosi per sé e per gli altri.
Il male traligna e si manifesta nell’adesione delle masse a movimenti che si dirigono inevitabilmente verso destra, una destra non ideologica ma viscerale che raccoglie nei voti il pensiero debole e un basso sentire. Nell’indigenza il popolo si difende, odia il prossimo e vuole dittatori. Si pensi a questo : ogni solidarietà in un campo di concentramento è morta, qualsiasi sentimento, la nostalgia, il ricordo che ci lega all’essere, azzerato. Se questo è un uomo.

Possiamo tenere come punto zero il non-morto, la non-vita vissuta nei lager, e confrontare il nostro galleggiamento esistenziale a partire da quella situazione, Questo può confortarci come sconfortarci, ma preso coscienza dell’abisso si deve anche comprendere che la distanza che separa l’umanità di ciascuno da questo punto è per ciascuno differente e che tutti abbiamo una resistenza diversa a precipitare, ricordando che nei lager chi ha più dignità è il primo a cadere. Nel non essere ogni passione è spenta, la dignità irrimediabilmente perduta. Intender non lo può chi non lo prova.

La disumanizzazione non gioca solo a destra, ma penetra anche altrove laddove governi sedicenti di sinistra, governi senza radici fumatori di loto, si spingono a considerare le risorse umane come forza lavoro, come merce da poter utilizzare e trasferire in ossequio al Mercato, e alle sue leggi. L’Ideologia di Mercato nella sua essenza metafisica ha solo servitori, ma privilegia a dismisura gli uni e opprime a dismisura gli altri disinteressandosi cinicamente del co-esserci. Ananke, la necessità, governa con leggi in spregio a Dike, la giustizia, serva solo di Pluto, il denaro. Nell’Olimpo non compare Dignità.
Scrive Hannah Harendt. “Pensare non è conoscere, pensare è distinguere il bene dal male”. Ne consegue che l’ignoranza non è l’insipienza, ma non avere intendimenti morali, a qualunque classe sociale si appartenga. Cultura e morale divengono sinonimi. Un “intelligenza morale” si impone. Purtroppo non ha ancora nome.

A causa della deiezione, la caduta dal punto morale in cui ciascuno di noi si trova e che determina la nostra visione di vita, la nostra fortezza, la nostra carità , si apre un abisso verso il punto zero, il non essere in cui tutti possiamo ancora precipitare; ma bisogna anche riflettere che nella direzione opposta, andando dal non essere all’essere, la morale apre alla vita nell’intendimento del co-esserci verso nuove avventure dello spirito per progredire verso un’umanità migliore. Ciò che fa di noi i compagni di quell’effimera comparsa, il presente, nelle tenebre dell’universo e nell’eternità del tempo, ci può ancora vedere legati in spirito nell’avventura dello Spirito per l’avvenire. Il coraggio è la mazza che supera la morte. Si tratta di fiducia esistenziale e non solo di fede religiosa.

Alla filosofia morale e non certo all’economia compete dunque il primato su tutte le altre scienze. Questo ancora non è stato inteso, ancora si ride di chi voleva i filosofi al governo. Eppure irridere la civetta che vede nella notte è pericoloso. Tutto ciò che segue è più potente di ciò che l’ha preceduto. La filosofia nasce un’eternità dopo l’economia, e segna la comparsa dell’uomo non già più come sola merce nel mondo come utilizzo ma in quanto uomo nella con-passione: per questo è più potente. Il valore aggiunto all’economia è l’uomo nella sua umanità. Le cerimonie sono fatte per gli uomini e non gli uomini per le cerimonie.
 Il Mercato è una cerimonia tecnologica che nella sua metafisica non ha chi umanamente sappia tenerne le redini. Il capitalismo è un treno in corsa senza manovratore.

Non sappiamo se esista un al di là e lascio tutti liberi di credere, ma ciò che è certo è che uno Stato Laico non può che tenere in considerazione la vita, la vita di ciascuno, qui ed ora, al di là di ogni convinzione religiosa, come l’unica, la sola possibile esistenza. In questa visione che uno Stato laico non può che fare propria, l’ingiustizia dovuta alla disuguaglianza offre tutta la sua crudità e la sua crudeltà. Nessuno può permettersi di affermare giusta la ricchezza prima di aver assicurato e garantito a tutti la sopravvivenza e una vita degna di essere vissuta.
 Solo la cultura ci salverà.




Kalashnikov e Toyota

055502942-0b7f5f60-73de-44f0-8081-0d36b68a60fdAdesso sappiamo che l’arruolamento nelle  milizie dell’ISIS è un lavoro regolato da un contratto: conversione all’Islam, adesione alla guerra santa con turni di combattimento fino a 16 ore in cambio di uno stipendio fisso, una scheda di valutazione con premio di produttività (numero uccisioni e/o ferite subite),

permessi matrimoniali, droghe gratis per sostenere il ritmo, compreso il viagra per sostenere gli stupri. Il tutto sotto il controllo di una efficiente organizzazione interna, con tanto di comitato di controllo e di timbri. Molto di più dei soliti mercenari o contractors, dunque, veri soldati che trovano nel costituendo califfato Dio Patria e Famiglia.

Se andiamo oltre lo sgomento per l’orrore provato alla visione delle ripetute immagini di gole sgozzate, di prigionieri ingabbiati e bruciati, di fucilazioni di massa, sgomento accompagnato dalla paura provocata dalle ripetute minacce di invasione e di attentati nelle nostre città, e riprendiamo quindi il controllo con la ragione, potremo intravedere la politica che dovremmo assumere nei confronti del terrorismo jihadista che proclama la costituzione di uno Stato Islamico in fieri.

Come è stato già fatto osservare altrove, le immagini delle efferate uccisioni sono state montate con un uso sapiente delle regole e delle tecniche della comunicazione del marketing e pubblicità, inventate per altro nella nostra cultura, mostrando al cittadino del’Occidente già assuefatto alle guerre mondiali, alle esecuzioni di massa e alle shoah singole esecuzioni di singoli uomini. Sia la vittima in ginocchio a volto scoperto nella sua tuta arancione che il carnefice col volto nascosto, il coltello puntato, nascosto dalla sua tuta nera, “guardano in macchina”, guardano noi che in solitudine di fronte allo schermo li guardiamo attoniti. Il messaggio subliminale voluto e trasmesso è evidente: quello a cui stai assistendo può accadere anche a te. La minaccia psicologica è più potente di quella militare. Ma se poi subentra la generalizzazione per cui l’efferatezza dello jihadista diventa l’intolleranza dell’islamismo il gioco è fatto: il piano si inclina, la pietra comincia a rotolare e nessuno la può più fermare. La paranoia è tra noi.

Primo flashback. Hitler negli anni che precedettero la guerra lasciò credere ad alcuni gerarchi nazisti  che la soluzione del problema ebraico potesse essere risolto liberando l’intera Europa conferendo agli ebrei “una terra da mettere sotto i piedi” (per esempio il progetto di deportarli in Madagascar coltivato da Eichmann), ma in realtà sappiamo che Hitler aveva già deciso lo sterminio di tutti gli ebrei già nel Mein Kampf e che lo aveva rilevato come progetto da attuare solo a pochissimi suoi stretti e fedeli seguaci. Ancora oggi proviamo orrore per l’Olocausto, ma lo proviamo per l’enormità della strage e per le assurdità delle motivazioni piuttosto che per il metodo con cui è stata condotta. L’inesorabile e costante processo di disumanizzazione degli ebrei (Untermenschen) perpetuato per tutto il periodo del nazismo, considerati prima come merce forza-lavoro poi solo come oggetti, ha permesso l’applicazione della razionalità produttivistica realizzata in maniera così efferata nei campi di sterminio (Conferenza di Wannsee). In altre parole ciò che dovrebbe di più inorridire nella shoah non è tanto il risultato, perché l’occidente ha conosciuto altri olocausti, quanto il modo con cui è stata realizzata: la rivelazione che la economia e la tecnica possano dominare gli umani a tal punto.

Non dimentichiamo che sugli ingressi dei campi di sterminio nazisti v’era scritto Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi). Ma non si dimentichi neppure gli stermini stalinisti che per un periodo ancora più lungo e con genocidi ancora più vasti hanno visto sugli ingressi dei gulag la scritta Trudom domoj (con il lavoro si torna a casa).

Ora, superiamo lo shock e riflettiamo con la ragione domandandoci se esiste una razionalità anche nei comportamenti delle milizie jihadiste per capire cosa realmente vuole il Da’ish . La costituzione di uno Stato Islamico costituisce il mezzo per combattere e distruggere la civiltà occidentale o il fine non è piuttosto la costituzione di un nuovo potere centrale, essendo la nuova e spietata forma di terrorismo solo il mezzo con il quale raggiungere tale fine? Ed ancora: questo terrorismo è finalizzato solo a spaventare gli occidentali inducendo in loro il senso di colpa per le responsabilità colonialiste ed imperialiste o piuttosto serve a dare sicurezza alle innumerevoli tribù private del capo-dittatore che fornisce loro una prospettiva di unificazione nel vuoto politico di quei territori? Appare chiaro che comprendere senza ideologie pregiudizievoli i fenomeni che stanno avvenendo anche in Libia, non solo riducendoli alla sola connotazione religiosa, ma inquadrandoli sul piano antropologico, storico, economico e sociale, significa trovare la chiave interpretativa di ciò che sta accadendo in quei territori per approntare quindi una solida strategia di confronto con la nuova realtà, che non si riduca alla sterile contrapposizione tra una diplomazia di convenienza e la possibilità di una guerra.

Secondo flashback. L’espansione dell’Islam tra il VII e VIII secolo ebbe inizio con l’unificazione delle tribù beduine arabe perseguita da Maometto e proseguì dopo la morte del Profeta con una guerra di espansione per la costituzione del Califfato che con una sorprendente rapidità sconfisse gli imperi Persiano e Bizantino: i territori occupati si estesero dalla penisola Iberica, lungo la costa africana del Mediterraneo fino ai territori del Medio Oriente ed Oriente. Fino alle crociate del XI e XIII secolo gli arabi convissero con i poteri allora esistenti in Europa mantenendo quegli stessi equilibri di potere che da secoli sussistevano fra i poteri europei medesimi. Non solo, ma anche durante il periodo delle Crociate la cultura araba raggiunse in Spagna e nel Regno di Sicilia di Federico II di Svevia livelli di cultura e civiltà senza eguali.

L’attuale rappresentazione mediatica degli accadimenti nel mondo islamico, connotata dai commenti di politologi e dalle dichiarazione dei politici, rivela un’angoscia accompagnata dall’assenza della comprensione razionale del fenomeno  con ciò offrendo al nuovo nemico, il progetto di uno stato islamico, la conferma della sua giusta strategia. Questa irrazionalità del mondo occidentale tende sempre più a cedere verso la necessità del ricorso alla “guerra”, anche se giustificata dalla legittima difesa, quasi una nuova edizione della “soluzione finale” della questione del terrorismo islamico. Tutto ciò senza considerare, al di là delle criticità sul puro piano militare, i devastanti effetti collaterali di ordine politico e sociale nei confronti delle tribù (non popoli) locali e più in generale delle divisioni interne presenti nel mondo islamico. Dischiuso il vaso di Pandora con l’eliminazione dei dittatori,  alcune componenti pure presenti nelle “primavere arabe” dovrebbero ancor più oggi essere recuperate con un accorta strategia di sostegno politico ed economico, anche con le armi quando necessario, alla causa della costituzione di una democrazia.

Dobbiamo accettare la prospettiva, anche se non ci piace, che nei prossimi anni dovremo fare i conti con un nuovo Stato che pretenderà di sedersi al tavolo dei grandi per stabilire un nuovo ordine mondiale. A quel punto coloro che oggi sono gli irriducibili terroristi nemici dell’occidente si proporranno come  la nuova classe dirigente con la quale trattare. Vale anche per l’ISIS la famosa e tanto celebrata affermazione di von Clausewitz secondo cui “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, mentre l’Occidente deve ricordare quanto lo stesso autore scrive altrove: ” In qualunque modo io possa immaginare la relazione tra me e il resto del mondo, la mia strada passerà sempre attraverso un campo di battaglia.” Ormai solo un dio ci può salvare?

 

 

 

 

 

 




La dittatura dei numeri

UnknownÈ noto, ma dimenticato, che quando fu chiesto di scegliere tra Cristo e Barabba il popolo scelse a larghissima maggioranza Barabba e gli altri tacquero. Meno noto, e non meno dimenticato, è che quando Hitler salì al potere nel 1933 fu grazie al voto popolare pari al 44%. Tre anni dopo nel 1936, in Germania si tennero le elezioni parlamentari nella forma di un referendum con una singola domanda, chiedendo cioè agli elettori se approvavano l’occupazione militare della Renania e un elenco composto da un unico partito, quello nazista. Ebbene a questa farsa partecipò il 98,8% della popolazione, di cui rispose “sì” il 95%, mentre il rimanente furono schede ritenute “non valide”. Un vero e proprio plebi-scito.

In passato la volontà popolare, in quanto espressione della massa verso il potere, si è sempre espressa per un potere centrale, forte, autoritario o anche una tirannide o dittatura identificandosi nel capo, nel leader. Ancora oggi le coscienze si mostrano non essere sufficientemente mature per esprimere una pluralità al potere. La democrazia può forse legittimarsi, ma non può fondarsi solo sulla base del voto popolare. Chi si esprimere per fare la volontà del popolo, anche se in buona fede, comunque è un ingannatore e spesso se in mala fede anche un ipocrita. Fondare la democrazia sui soli numeri non è espressione della volontà popolare, ma è il populismo nella sua più infima essenza, un insulto alla stessa democrazia, perché la democrazia non è una forma di potere, ma il modo con cui il potere governa un popolo in considerazione del valore da attribuire alla persona.

il concetto di popolo, inteso come nella Dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei Popoli (Barcellona, 1990) ove si afferma che “Ogni collettività umana avente un riferimento comune ad una propria cultura e una propria tradizione storica, sviluppate su un territorio geograficamente determinato”, viene sostituito da quello di popolazione, ovvero di un insieme di individui aggregati per talune caratteristiche. In seguito la definizione data scade dal concetto di popolo come sostanza politica legata alla cultura a quella di un definizione numerica legata all’appartenenza.

Questo passaggio ha portato con sé anche il cambiamento del concetto di rappresentanza, che dal suo significato politico fondato sul diritto e sulla storia (l’agire in nome dell’istituzione per l’interesse della collettività) si è spostato verso quello statistico (l’agire in nome dell’interesse prevalente, la moda).  Secondo l’impostazione statistica, infatti, un campione può dirsi rappresentativo del proprio universo quando si verifica un’identità delle proporzioni secondo le quali sono presenti, nell’uno e nell’altro, i vari caratteri della popolazione. E la rappresentatività statistica ha stravolto a sua volta il concetto di delega, non più inteso come conferimento di poteri dall’elettorato all’eletto per superare  i limiti oggettivi dell’incompetenza, ma come un mandato esercitato da un campione selezionato in nome e per conto dell’universo.  Nuovo fondamento razionale e scientifico della democrazia, la statistica va imponendosi nella società dominata dalla tecnica con la  potenza dei numeri e la suggestione dei sondaggi: è la democrazia statistica, in rappresentanza dell’opinione senza alcun riferimento morale.

Per di più anche secondo un tale rigore metodologico i dati risultanti dalle elezioni politiche basate sul suffragio universale potrebbero paradossalmente essere intesi come non rappresentativi della volontà popolare, quando il campione dei votanti non è rappresentativo dell’universo degli aventi diritto al voto.  In definitiva è passato il concetto secondo cui una vera democrazia rappresentativa deve poter consentire  ad ogni  componente presente nella società  il diritto di avere una sua rappresentanza politica in modo del tutto indipendente dai valori culturali partecipati.

Questo può apparire una concezione corretta del pluralismo ma quando la cultura del popolo è bassa può portare irrimediabilmente come in passato alla dittatura o comunque spingere verso regimi autoritari anche se portano il nome di democrazie. Ciò significa che la democrazia è diretta conseguenza della cultura popolare e dice della necessità assoluta di agire sulla stessa per avere maggiore democrazia senza sottomettersi alla dittatura dei numeri.

La miseria culturale dei politici contemporanei, addestrati dalle scuole di formazione politica di appartenenza sulle tecniche del marketing e della pubblicità, confonde il processo di selezione di una classe dirigente politica con  il metodo della formazione dei campioni rappresentativi dell’universo usati nei sondaggi d’opinione.

Non è qui in discussione la sovranità del popolo, ma la sua condizione di sottosviluppo culturale perché la democrazia non ammette l’ignoranza. Oggi assistiamo nel nostro paese al fatto che alle cariche istituzionali e al governo accedono spesso non le personalità  migliori, che pure  esistono ed operano nel paese  confinate nel proprio ruolo o nel privato, ma  rappresentanti del popolo che sono come il popolo. Si potrebbe definire il fenomeno come  un “imperativo statistico”, con riferimento  in questo caso  al prevalere della  “moda”, ovvero dei valori più frequenti: i governanti come rappresentanti della moda. E gli uomini politici contemporanei così selezionati si fanno vanto di essere non  per il popolo, non soltanto con il popolo, ma di essere proprio come il popolo.  A loro  questa  identificazione  totale appare come la realizzazione  compiuta della democrazia.

Troppi politici, sia di destra che di sinistra, si sono convinti che la democrazia è il potere derivato dalla maggioranza dei numeri: i voti non si pesano, si contano.   Votus non olet. Potenza e fascino del numero: il fondamento  razionale della democrazia è appunto la statistica.

Qualsiasi regime sia al potere la democrazia è dovuta unicamente al grado di civiltà raggiunto da un popolo, non la sua misura, ma l’essenza stessa legata alla sua cultura. O alla sua ignoranza. Più democrazia non dovrebbe di conseguenza significare che tipo di forma debbano prendere le istituzioni per meglio interpretare la volontà popolare, ma impegnare le istituzioni per migliorare la cultura del popolo.
La distinzione tra populismo e democrazia è netta: lottare per migliorare le condizioni materiali e spirituali del popolo e giammai per fare la sua volontà.
Ormai solo la cultura ci può salvare.




Ormai solo la cultura ci può salvare

UnknownSi legga l’articolo sul Corriere della sera in cui estrapolando pochissime righe virgolettate si vorrebbe attribuire al filosofo indubbie collusioni con il nazismo. È inutile parlare di Heidegger, né parlare con Heidegger, pensando di comprendere e poter riportare quanto dice se non si comprende il piano della discussione, ovvero l’ ex-sistentia, che l’Essere non è un ente, che la verità è la Verità dell’Essere, che la sostanza è la manifestazione dell’Essere nell’essente. Per certo il suo dire non è facile e non è comprensibile a tutti: un grande uomo condanna gli altri a spiegarlo. Un po’ altezzosamente non si cura degli sciocchi. Soprattutto non si schermisce da possibili fraintendimenti, “chi ha orecchie per intendere intenda” degli altri degli sciocchi non si occupa. Grave errore: gli sciocchi lo crocifiggeranno! Heidegger non si difende, non si difende mai. Si scusa, ma non si difende. La sua è una posizione esistenziale e un metodo cui vuole rimanere fedele fino in fondo. Di qui il suo silenzio.

L’operazione giornalistica è quella solita scorretta e banditesca con la quale si pretende di comprendere una filosofia o un’appartenenza attraverso frasi virgolettate. Giornalismo da strada ad uso di straccioni che hanno fame di notizie più che di verità. E, nota bene, si tratta della pagina culturale. L’importante per tutti per “capire” non è mai infatti capire, ma schierarsi. È tipico del pregiudizio imperante ragionare per partito preso. Solo si accenna e già si giudica. Per un giudizio su Essere e Tempo personalmente ho dovuto sospendere lo stesso per più di mille pagine. E il giudizio è seguito solo quando sono stato sicuro di aver capito. Capito tutto fino in fondo. Ogni frase contenuta nel libro presa a sé non significa nulla, come nulla significa ciò che viene riportato dai giornali. Dai giornali a volte, spesso, neppure il fatto viene mai chiarito, ma ecco che già l’opinione pubblica, l’opinione ignorante della plebe è schierata. E in “democrazia”, si sa, quello che conta sono i numeri: l’opinione.

Sull’articolo del «Corriere» si riporta che «Gli ebrei (nei Quaderni neri) non appartengono nemmeno ad un mondo diverso da quello tedesco, ma sono senza mondo, esclusi dall’Essere». In particolare, nella nuova parte dei Quaderni Neri, il pensatore di Essere e Tempo parla espressamente di «autoannientamento», riferendosi al popolo ebraico. Ebbene, personalmente detesto gli ebrei, i neri, i gay, le lesbiche, i rom, i mussulmani i cristiani … perché mentre io li ritengo uguali, tutti costoro si ritengono diversi e in particolare migliori, sicché considerano la loro emarginazione unicamente una colpa altrui e guardano al prossimo con diffidenza, malanimo e spesso anche rabbia fino ad arrivare ad odiare. Si impone una domanda: chi è razzista?

In altre parole i “diversi” si autoescludono dal mondo o, per usare le parole di Heidegger, dall’Essere. Più gli ebrei di quanto non abbiano fatto i tedeschi, non i tedeschi della shoah, ma il popolo tedesco nella storia. Ovviamente Dio deve essere uno per tutti come parimenti la Verità, essenza dell’Essere garante dell’uguaglianza.
In un’intervista a Der Spigel del 1966 (pubblicata postuma nel 1974):
-Spiegel: Si dice che i suoi rapporti, senza dubbio non con tutti, ma con alcuni di questi studenti ebrei siano stati molto cordiali anche dopo il ’33. E’ così vero?
-Heidegger: Dopo il 1933, il mio atteggiamento è rimasto immutato.
Si noti bene: immutato. Questa infatti deve essere la posizione di fronte a chi vuole diversificare. La postura corretta dello spirito di contro a ogni razzismo: né contro né a favore.

Ancora nell’articolo del Corriere si legge: “Nei testi composti tra il 1942 e il 1948, dice in sostanza che l’azione degli alleati nel fermare i tedeschi è stato un «crimine» più grave delle «camere a gas»”. Questo “in sostanza” rivela che l’asserito non è l’asserito di Heidegger, ma solo la comprensione dovuta all’intervistatore.
Per sostanza Heidegger intende ben altrimenti, ovvero la manifestazione dell’Essere nell’essente e credo che Heidegger si chieda il più estensivamente possibile quale danno sia stato maggiore per l’umanità se l’olocausto o l’aver residuato il dominio dell’uomo sull’uomo e la conseguente disumanizzazione dell’uomo considerato mezzo e merce, così come è avvenuto in Russia o, aggiunge, nel regime capitalista, considerazione espressa da Heidegger nell’intervista a der Spigel del ‘66. Lettura che consiglio a tutti.

In attesa di leggere i Quaderni neri annunciati di prossima pubblicazione in italiano, un avviso ai lettori, solo quei pochi che hanno orecchie per intendere: non ho inteso difendere Heidegger, ma la Verità. Solo la cultura ci salverà.