Verità e realtà

imagesQuando una cosa ci appare reale noi la diciamo vera. Vero è ciò che è conforme alla realtà.
Come sempre ciò che ovvio ci appare anche banale. Tra vero e reale pare dunque esserci un identità. Se così fosse i due termini dovrebbero essere interscambiabili ovvero sinonimi. Ma così non è. Di una proposizione noi diciamo che è vera o è falsa, non diciamo che è reale. Di un corpo diciamo che è vero o reale quando cade sotto i sensi. Nel concetto di verità c’è comunque qualcosa che si lega indissolubilmente allo spirito. Solo lo spirito è capace di giudizio. Di tutte le creature di questo mondo per l’uomo e solo per l’uomo una cosa può essere vera. La verità quindi è un esistenziale venuto in essere solo con lo spirito umano. Questo venire in essere significa che ha assunto realtà. La verità è una realtà dello spirito.

Quando affermiamo che “L’universo è esistito da miliardi di anni” intendiamo dire che la realtà dell’universo è da sempre, a prescindere dall’esistenza umana. Tuttavia l’esistenza dell’universo a prescindere da un recipiente è cosa senza senso. Per chi esisteva? Incredibilmente a un certo punto è venuto in essere quel chi per cui esistere. Con differente intendimento possiamo quindi affermare che l’universo è esistito solo da quando esiste la vita, la vita intesa come il recipiente, colei per la quale l’universo ha diritto ad esistere, da quando cioè è esistito un dentro e un fuori, da quando è esistito il soggetto che ha posto l’universo come oggetto, e che nel porre l’universo come oggetto ha donato all’universo il senso, la ragione della sua esistenza.

La verità dell’universo si pone di conseguenza nel suo senso, nel senso che si è venuto a costituire. Un senso in crescita, un senso in fieri che si fonda sull’evoluzione dello spirito, un universo che tanto più è quanto più lo spirito si evolve. Questo processo che allontana lo spirito dalla materia dando vita ad un mondo interiore ha nome di astrazione. Lo spirito si va astraendo dalla materia. Nella sua evoluzione lo spirito fonda viepiù il senso e con il senso arriverà la verità. Il sorgere della coscienza e il sorgere del senso, è il sorgere anche dell’esistenza del tutto, il sorgere della realtà. La realtà di conseguenza si disvela solo alla luce della coscienza e solo alla sua luce può dirsi reale, vera ed esistente. La vita alla sua apparizione ancora non dona senso nel senso che la coscienza dona.

Ora la coscienza dona senso e forma alla realtà e il suo modo di dare un senso è dirla vera. La verità è il ponte tra il mondo reale (esterno) e la coscienza. La verità è ora anche il ponte tra coscienza (realtà interna) e il sé. La realtà con l’avvento della coscienza si differenzia in due ambiti ben separati la realtà fenomenica sensibile (esterna) oggetto della scienza e la realtà metafisica soprasensibile (interna) oggetto della filosofia.

Monismo, materialismo e relativismo sono solo pseudo dottrine che si fondano sull’ideologia, una forzatura intellettuale che distorce la realtà negando la verità.
La realtà che prima era solo materia bruta ora si compone di un’altra realtà, la realtà dello spirito che fonda nella verità il proprio essere. Lo spirito conosce solo per verità. La verità diviene dunque il metodo d’indagine della realtà, non solo di quella esterna della materia ma anche di quella interna dello spirito. La realtà interna dello spirito è in sé e per sé il metodo d’indagine della realtà secondo verità. La verità è dunque lo strumento per la conoscenza e diviene al tempo stesso l’oggetto della conoscenza. La realtà dello spirito è nella sua verità. La realtà dello spirito, per quanto possa essere grande l’universo, è la realtà più vera. Per l’uomo, ovvero per la coscienza più evoluta nell’universo, nulla è più concreto che lo spirito stesso.

Si distinguono di conseguenza una realtà del mondo esterno, una realtà del mondo interno, un mondo in cui l’io pone il non-io e un mondo in cui l’io pone l’io come oggetto.
Ciò che comunemente chiamiamo realtà pone l’oggetto all’esterno della coscienza verso quello che abbiamo davanti, e cerchiamo la concretezza in ciò che soddisfa gli appetiti e i sensi. Non visto lo spirito, ovvero noi nella nostra massima concreta esistente realtà, opera sempre in avanti senza riflettere, chiamando reali le cose davanti. La verità, pur indossata, rimane nascosta per così dire “alle spalle”e verità e realtà si confondono. La fuga verso la vita nasconde l’Io. L’Io è l’abisso più profondo, ne facciamo quotidianamente uso, ma non lo conosciamo. Quando spremo tutto del cervello saremo ancora agli inizi.

Di un oggetto diciamo che è vero intendendo che è reale, e non diciamo che è vero a meno che non ci riferiamo alla sua sussistenza, all’esistenza della cosa in sé nella sua concretezza o autenticità. La verità in quanto concreta realtà dello spirito, implica sempre qualcosa che riguarda il rapporto e il giudizio. Ciò che è è l’ente e l’ess-ente è tutto ciò che è. Sia nella fattispecie della materia che in quella più concreta dello spirito. L’invisibile è più potente del visibile.

Su questo pianeta ad essere non sono solo le cose, ma anche la vita e la vita per l’essere esistenziale Homo è il pensiero e al di là da quello l’emozione che lo sostiene. Quindi qui e ora l’essente comprende sia il mondo fenomenico della materia che il mondo fenomenologico dello spirito. Questi due mondi vivono in uno, ma sono totalmente separati. La distinzione è assoluta. Uno è il mondo esterno e riguarda le cose sensibili, l’altro è il mondo interno e riguarda le cose sovrasensibili. Il nostro corpo beninteso è esterno, rimane quindi chiaro che per mondo interno non può essere inteso neppure il nostro cervello.

Dell’uno mondo si occupa la scienza, dell’altro la metafisica. La metafisica è in essere un’eternità di tempo prima di essere dottrina per la filosofia, esiste nel positum da quando esiste la vita. Ogni vivente porta con se lo spirito. Ogni essere esistenziale vive e sussiste nella dimensione metafisica. Noi e il nostro gatto viviamo in questa dimensione. Sin dall’inizio della vita la cosidetta realtà è divenuta duplice partecipazione di mondo interno e mondo esterno, di spirito e materia, di soggetto e oggetto. Per quanto incorporeo lo spirito vive in uno nella materia, lo spirito è letteralmente in carne e ossa. Per chi può comprendere è il miracolo stesso della transustanziazione che si compie anziché all’istante, in miliardi di anni mediante l’evoluzione. Da allora, dalla nascita della coscienza, allo spirito compete verità così come alla materia competeva la sola realtà.
Ma la verità venuta in essere esprime in sé una nuova fino ad allora sconosciuta realtà: la Realtà dello spirito.

Dunque anche lo spirito è reale e in quanto reale è un ente. Tutti gli enti concreti o astratti che siano, sono reali. Sia lo spirito che la materia godono di realtà. Lo spirito anzi è per così dire molto più reale della materia perché attribuisce alla materia la sua realtà. L’universo era, ma non esisteva prima che ci fosse quel quid per cui esistere. Quel quid si chiama vita. La vita si chiama soggetto che pone l’oggetto, prima del soggetto non esiste neppure l’oggetto, dire oggetto è privo di senso, solo il soggetto porta con sé il senso. La vita dà senso all’essente. Con la vita lo spirito, con lo spirito ancora miliardi di anni di evoluzione e prende senso un esistenziale come la verità, con lo spirito umano la verità che dice vero ciò che è reale. Il reale assume senso e verità con lo spirito. Allo stesso tempo è lo spirito stesso che assume realtà, assume realtà astraendosi dalla materia, in un crescendo evolutivo che fonda sempre più nella cultura la propria essenza. Con ciò è la verità stessa a nutrirsi e a crescere. La verità acquisisce senso e realtà dicendo vere le cose della materia e vere le cose dello spirito.

La verità c’è. Ma la verità non è un ente. Ogni ente sensibile o soprasensibile che sia, è in carne e ossa. La verità non è in carne ed ossa. La verità non possiede realtà sua propria essenza è indissolubilmente legata allo spirito. La sua storia è la storia evolutiva dal singolo all’universale e dall’universale all’assoluto. Sarà raccontata un’altra volta.




La campanella suona per il cambio dell’ora

UnknownStimolato dall’articolo “Per chi suona la campanella” non perdo certo l’occasione per aprire una via per rispondere alle domande che lì vengono poste: qual è il prodotto dell’istruzione? qual è la qualità dell’insegnamento e come misurarla? Io tuttavia le riformulo con: “a che l’istruzione?” Quella “a”, che nella sua proposizione più estensiva e originaria non può che rifarsi alla koiné (termine che viene utilizzato in generale per indicare la versione accettata uniformemente su vasta scala di una lingua in contrapposizione alle varianti locali); in modo altrimenti estensivo, considerato nell’accezione di “parlare la stessa lingua”, esso può essere inteso come “l’intendersi”,  e non c’è altro modo di intendersi se non sul bene comune. La koinè dunque rappresenta il bene comune. L’istruzione deve essere intesa come tesa al bene comune. Il bene comune è il bene di tutti e il bene di tutti non tollera varianti locali né tantomeno varianti parziali.

Una visione aziendale della scuola non è solo sbagliata, è una bestemmia, un’eresia, un maledetto imbroglio. Favorisce il pensiero unico nella sola visione economicista del progresso sociale che subordina l’uomo alla Tecnica, al Mercato. Alienazione e reificazione sono alle porte, il degrado culturale è incrementato da pseudo riforme verso cui è doveroso indignarsi. Ma la coscienza anche del corpo docente è bassa e i motivi della loro indignazione sono per lo più fuori bersaglio e spesso anche corporativi. Si chiamano a fare i docenti persone che terminato il corso di studi e vinto un concorso vanno ad insegnare. Vanno a insegnare senza alcuna preparazione all’insegnamento nella presunzione che chi sa sia anche in grado di trasmettere quanto appreso. Si chiamano insegnanti di conseguenza persone la cui capacità all’insegnamento è presunta dalla sola conoscenza della materia. Sono coloro che chiamo i “relata refero”, quello che ho appreso riferisco. Questa presunzione non è solo sbagliata, è demenziale. E si fa questo da sempre perché sempre così è stato e non si sa che altro fare.

Ebbene la conoscenza della materia è solo il primo passo verso l’insegnamento, manca ancora in toto lo spirito. Un principio deve essere chiaro e chiaro a tutti: chi studia non studia per sé, studia per tutti. Studia per il bene comune. Questo principio dovrebbe essere di tutti da sempre. Questo principio dalle elementari all’università è ignorato da tutti, dagli studenti come dai docenti, come dai politici, come dai giornali.
Ciò di cui la società ha bisogno è di una scuola che educhi al servizio di questo principio: si studia per il bene e nell’interesse di tutti. Che dire allora delle scuole private?

Un altro fondamentale principio è che la scuola ha necessità di produrre il maggior numero possibile di gente preparata, cosa per cui: la scuola non serve a selezionare ma ad educare ovvero selezionare quanto meno possibile ed educare quanto più possibile.
Rimane evidente che nell’impegno per il bene comune occorre avviare nei discenti una progressione dello spirito, una progressione in spirito proporzionale all’età. Ogni studente inoltre si differenzia per personalità, carattere ed educazione. Necessita di conseguenza un corpo docente preparato a questo scopo. Pare ovvio che oltre alla laurea ogni insegnante debba ricevere un’adeguata educazione psicologica e filosofica ed sia sottoposto ad un esame clinico volto a valutare possibili disturbi della personalità, debba comunque essere valutato prima di essere inserito nell’insegnamento. Allo scopo personalmente ritengo che per ogni disciplina debba corrispondere un corso di laurea volto specificamente all’insegnamento in modo separato dal normale corso della facoltà.

Molti insegnanti ancora oggi si valutano e auto valutano in base alla sola conoscenza della materia, cosa di per sé lodevole ma assolutamente insufficiente e a volte anche controproducente se la loro volontà non è quella di trasmettere il più possibile quell’amore che per la materia che i docenti dovrebbero nutrire. Amore che si mostra solo nel modo in cui un docente sa motivare. La maggior parte degli insegnati ancora oggi, a distanza di quarant’anni dalle mie personali esperienze, fa odiare, rende invisa, o perlomeno non fa amare la materia che insegna. Ancora confondono la persona con il ruolo e da ultimo non fanno amare la scuola. Non fanno amare il sapere, non fanno amare la conoscenza; la sapienza mal digerita rimarrà invisa per tutta la vita. In media gli Italiani non leggono neppure un libro all’anno e questo è indubitabilmente merito della scuola. Tanto li ha nauseati e poco motivati che di leggere non ne vogliono più sapere. Studiano tutti solo per sé, per quello che serve e per quello che basta.

Il degrado culturale prodotto dalla scuola durante il berlusconismo nell’abbassamento dei valori culturali è stato devastante e ora con la crisi e la pseudo-riforma di Renzi, rischia di precipitare. Fare amare la scuola è la cosa migliore che un insegnante possa fare. Compito difficile, difficilissimo. Ma fare amare la cultura è e deve essere sempre e con ogni mezzo per ogni magister il fine. La scuola non può essere un ripiego, chi non ha amore per l’insegnamento deve essere cacciato, non deve insegnare. Nessuna materia è arida se si riesce a far comprendere il fine. Il fine è la crescita dello spirito nella prospettiva del bene comune. Quanto siamo lontani da tutto questo?

Corsi di formazione psicologica e filosofica in specifici corsi di laurea per aspiranti docenti, con tanto di esame per la valutazione di idoneità all’insegnamento presso psicologi, filosofi, analisti, psichiatri sono per me imprescindibili per qualsiasi disciplina. Per insegnare non ci si può improvvisare, a insegnare si impara. Questa sarebbe una riforma della scuola! e non chiudere i cancelli dopo che le vacche sono scappate. Dopo, merito e valutazione sono peggio che vuote parole. Come si può pensare di trovare criteri nell’anarchia? Il giudizio sugli insegnati deve essere dato prima, dopo è solo sterile, inutile, controproducente confusione e chiacchiera. E nella confusione come è noto regna il malaffare.

Per realismo: “ma ormai le vacche sono scappate!” Ho capito, ho capito da sempre, ma come invece far capire che le vacche sono scappate da sempre, è che fregandocene di dare sempre e solo risposte al contingente dovemmo invece preoccuparci di costruire recinti. Difficile? Lungo? Certo! Ma se mai si inizia … Altro che “avanti” … è ora di fermarsi, fermarsi e riflettere! Il più considerevole è che ancora non si pensa. Solo la cultura ci salverà.
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Perle di vetro

UnknownÈ necessario dire e pensare che il gioco non consiste nelle regole. Senza regole nessun gioco. Il gioco perfetto non ha regole. Fatte le regole il gioco può cominciare. Il gioco comincia quando le regole sono di tutti. Note a tutti in ugual misura e allo stesso modo. Questo non accade mai. Cambia per lo più.Per lo più è espressione che unisce e divide secondo modo e misura. Bianco e nero non esistono. La purezza è astratta, insussistente. Tanto meno il grigio che rimane solo un concetto nella mente di chi dimora nella caverna. Solo di notte le vacche sono nere. Il gioco è a colori secondo modo e misura. Sempre puntualmente in ogni punto determinato. Ogni determinazione è armonica e ogni determinazione è disarmonica, immutabile nello spazio e mutabile nel tempo. Per sé e per altro da sé. Osceno e bellezza coesistono, sono “la mia rappresentazione”. La realtà è reale la coscienza è vera. La coscienza dice vero ciò che è reale. La natura è reale. Sua la bellezza, mio il giudizio. Senza giudizio nessuna realtà.

Appartiene allo spirito un’espressione che accresce se stessa. Scintilla rubata agli dei artefice di molte arti e molti mestieri. Lo spirito che sale si eleva su diversi piani dell’essere, disvela la bellezza mentre l’opinione grugnisce in cantina. Anela libertà.
Guai a chi trasgredisce le regole. Chi trasgredisce le regole dilegua il gioco. Chi trasgredisce le regole deve essere punito. Senza certezza della pena corre un’epidemia. Non sono solo i malviventi a rovinare il gioco, rovina altresì il gioco chi non sa giocare. Per saper giocare non basta conoscere le regole. Gli uomini in catene vedono solo ombre, non conoscono il gioco. Sono tutti bendati e giocano a mosca cieca. Non ditegli di avere occhi, non vi crederanno e se vi credono ve li strapperanno. Detestano la luce del sole. Un cattivo giocatore non rispetta le regole, vuole vincere e può essere un buon giocatore. Questa aporia separa le regole dal gioco. È pericoloso affidare il gioco agli schiavi. Ecco una cattiva democrazia.

Oltre le leggi altre regole aspettano chi gioca. Fatte uno tutte le leggi, la giustizia è mille. Queste regole parlano di giustizia, coesistenza e verità. Un lunghissimo cammino ci attende. Un abisso separa la giustizia dalla legge. Magistrati che con-fondono legge e giustizia? che confondono la persona e il ruolo? severità e arroganza? obbedienza e responsabilità? … Non sanno né matematica né filosofia, la misura e il modo, non hanno le basi le basi per il giudizio. L’osservanza delle regole è condizione ma non il gioco. Il gioco vuole che i giocatori conoscano le regole. Una cosa sono le regole un’altra cosa è il gioco; il termine fisso e il movimento. Chi si muoverà meglio? Chi vince o chi migliora il gioco? La canaglia ama chi vince. Tiene i cani a ringhiare in cantina.

La singolarità di ciascuno gioca nella confusione la propria partita morale. Il senno, accidentale, si perde nella chiacchiera. Tutti vogliono dire. Tutti ne hanno diritto. Tutti liberi di esprimere tutto. Vomitano bile dalle periferie e la chiamano opinione. Il peggio monta in cattedra il peggio è popolare. Anche molto popolare. Dite il peggio e vi ameranno. Chiameranno poi il vomito della plebe Democrazia.
La plebe non è popolo. Per essere popolo ci vuole cultura. Giustizia, verità, amore.
Le leggi sono lontane, o sopra la testa di chi è in catene o a tenere in catene chi vuole la luce. Il gioco perfetto non ha regole. Chi è in basso nella legge vede solo catene. Chiama libertà il proprio desiderio, la propria edificazione. Non capisce giustizia, non comprende morale. Tra etica e morale non conosce distinzione. Il per sé chiude l’intero arco della sua esistenza. Vede solo ombre e non sa di essere legato. Fugge sempre davanti a sé. Fugge nella realtà. Verso il lavoro, il fare. Il giogo anche quando si volta, gli sta sempre alle spalle. Per liberarsi dal giogo gli stoici hanno coltivato per sé lo spirito puro, uno spirito libero sul trono e in catene. Ma anche nell’ermo non gli è stato possibile non giocare.

È necessario dire e pensare che il gioco non è le sue regole. Per chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire le regole sono lontane, sono ormai da sempre sue. Pennelli sapienti, scontati e logori in mano all’artista. Nuove discipline appassionano lo spirito.
La tela ora cerca giustizia, cerca armonia. Cerca l’abbandono, “la mia rappresentazione” di verdi pascoli in cielo. Il cielo di tutti, indeterminatezza dell’essere. A questo l’artista è chiamato. L’armonia delle genti. Il coro dell’essere in cielo. Respiro di anime in cieli di alta montagna. Anche la giustizia e l’affanno sono dimenticati. La misericordia per sé non mai soggiace
a costrizione; essa scende dal cielo
 come rugiada gentile sulla terra 
due volte benedetta: 
perché benefica chi la riceve
 come chi la dispensa. Ora è chiaro che anche la giustizia deve obbedire alla morale così come l’artista all’estasi.

Come si chiama il gioco? Il gioco si chiama libertà dello spirito. Lo spirito va verso il sole, nell’ascesi pretende libertà. Lo spirito che non va verso il sole mette gli altri in catene. Chi è scettico rimanga in catene, in quelle catene che da sé si è procurato. Assoluta inquietudine, chiacchiera di ragazzi ostinati, coscienza infelice, vuota e priva di appagamento nel presente. Perennemente distratto dalla vita nella fuga da e verso la realtà. Tutto accade nella singolarità, nella solitudine e nella confusione.
La regola fondamentale essenza stessa del gioco è che si gioca assieme. Questo fatto l’assieme segna il tempo con il senso. È l’assieme a dare la direzione e ad alimentare la morale. L’assieme è l’essenza stessa della morale. Contro chi ci si batte? Contro la paura, la sofferenza, e la morte. Libertà dello spirito contro paura, sofferenza e la morte. Per non morire soli bisogna esserci stati. Questo esserci stati dimensiona lo spirito nella sua gloria.

Dov’è ormai la legge? Dove sono le regole? Sono per questo meno necessarie? L’assieme dà la direzione. Pensiamo dunque alle leggi, stabiliamo pure le regole. È indispensabile e doveroso. Le leggi sono i minima moralia; il gioco che si gioca altrove dimora nella giustizia nella morale e nell’amore, altissimo e impronunciabile dio. E dunque e sempre oltre la giustizia, oltre alla morale, è all’amore che le leggi, queste piccole operose formiche, si devono ispirare. Leggi, giustizia, morale e amore distano tra loro abissi cosi come stanno tra loro pianeti, sistemi solari e galassie. E tutto fa parte del gioco. Come posso parlare a chi mi parla di leggi senza conoscere i piani soprastanti, senza conoscere il gioco? La potenza: essere per riprodursi, riprodursi per migliorare, segna la vita. Gli uomini hanno un modo gli dei ne hanno un altro. Sarà il coraggio o l’amore la mazza a vincere la morte? Solo la cultura ci salverà.

 




Per chi suona la campanella

UnknownLa mia ormai lontana esperienza d’insegnante e di preside mi fa ricordare che tutte le sedicenti riforme della scuola hanno sempre riscosso la disapprovazione solidale degli insegnanti e degli studenti, nonostante le posizioni e gli interessi delle due componenti non fossero quasi mai coincidenti. Bisognerebbe riflettere su questa invariante e partire dalla constatazione che la scuola dagli anni settanta ad oggi è diventata sostanzialmente un “nonluogo” della cultura, subìto e frequentato dagli studenti e dai docenti al ritmo della campanella. Diciamolo apertamente: all’ingresso di ogni edificio scolastico si potrebbe scrivere “kultur macht frei”.Esistono forti analogie tra le funzioni della sanità, della giustizia e dell’istruzione e tra queste spicca il ruolo autonomo del medico, del magistrato e dell’insegnante nell’esercizio della loro professione. Questa caratteristica dell‘autonomia, invisa a gran parte della classe dirigente politica, ha da tempo attirato la loro attenzione facendo prefigurare un comune destino: prima è stato l’ospedale a diventare Azienda Ospedaliera, poi si è passati alla responsabilità civile dei magistrati e ora tocca alla Scuola. Il problema vero per il potere rimane sempre il controllo.

La proposta di riforma scolastica presentata dal Governo in carica, chiamata con la  locuzione un po’ näif  “Buona Scuola forse per evitare di associarla questa volta al nome del Ministro pro tempore, vuole intervenire sulla filiera produttiva preside–docente –studente con la pretesa di introdurvi elementi di selezione e di controllo. Il nuovo lessico riformista si avvale di termini e locuzioni come bonus, carriera, valutazione, merito, scuola digitale, nuove alfabetizzazioni (lingue straniere dai 6 anni, coding e pensiero computazionale nella primaria, digital makers nelle secondarie  principi di economia in tutte le secondarie…), dopo il POF il MOF (Miglioramento dell’Offerta Formativa), attrarre risorse private (cittadini, fondazioni, imprese), alternanza scuola-lavoro obbligatoria nei professionali e tecnici, esperienze di apprendistato sperimentale…Tutto sembra pensato per rendere la scuola più autonoma e flessibile ovvero efficace rispetto al prodotto ed efficiente rispetto alle risorse, ma rimangono sospesi i punti fondamentali di una vera riforma della scuola: qual è il prodotto dell’istruzione? Qual è la qualità dell’insegnamento e come misurarla?

Per quanto riguarda le risorse ricordo che all’epoca delle riforme “Moratti” e “Gelmini” si giustificava la necessità che imponeva di intervenire nel sistema scolastico osservando con meraviglia come oltre l’80% della spesa per l’istruzione fosse assorbita dal personale, docenti per primi. I Ministri dell’istruzione mostravano la loro sorpresa per il fatto che l’insegnamento fosse prevalentemente basato sul lavoro delle persone piuttosto che delle macchine. Questa surreale ammissione ci avvertì subito che si trattò di taglio della spesa pubblica e non certo di riforma scolastica, ma lo stile comunicativo dei governi di centro-destra dell’epoca ponevano l’attenzione in nome dell’efficienza sul nome delle cose piuttosto che sulle cose stesse

Quanto all’efficacia, il principio per cui sia giusto valutare in base al merito, da sempre un precetto morale per l’educazione impostosi poi nelle aziende secondo le visioni manageriali, è oggi diventato un luogo comune di tutte le coscienze che si sentono motivate all’eguaglianza sociale secondo la regola delle pari opportunità, ma con diversi meriti. Ora, se nell’ambito scolastico ci riferiamo agli studenti il criterio della loro valutazione in funzione del merito appare evidente in quanto costitutivo nella funzione stessa dell’istruzione. Tuttavia, una delle caratteristiche della scuola risiede nel fatto che vi coesitono due fronti nelle relazioni tra le parti in causa che non presentano tra loro continuità ed omogeneità. Infatti, mentre nel rapporto docente-studente la valutazione del merito si fonda sull’assimmetria dell’informazione, dal momento che si suppone che il docente conosca la materia da insegnare al discente il quale non conoscendola, e per di più minorenne, da quello deve apprenderla, nel rapporto docente-preside questa assimmetria non sussiste, ancor meno se si considera il fatto che fino ad oggi i Presidi sono stati selezionati tra gli insegnanti, sicché la valutazione del merito deve essere fondata su un’altra evidenza.

Quando erano limitati alla verifica della preparazione degli studenti, i parametri della valutazione del merito venivano declinati nei termini di impegno, volontà, capacità, attenzione, comportamento le cui combinazioni formavano i profili didattici, le valutazioni degli elaborati, degli esami e l’orientamento scolastico. L’imbarazzo che gli insegnati hanno provato per anni nello stilare giudizi personalizzati (fino al punto di creare moduli e griglie precompilate dove apporre crocette) è stato superato ripristinando il sistema docimologico fin dalle scuole elementari. D’altronde se il fine è la misura del risultato diventa necessario munirsi dello strumento dei numeri.

Oggi i tempi sembrano maturi per estendere la valutazione secondo il merito anche ai docenti. Non si tratta più e soltanto di soddisfare l’efficacia dell’insegnamento, ma di perseguire l’efficienza della scuola intesa come un sistema produttivo, un’azienda. Dopo la concezione dell’Azienda Italia e la visione dell’amministrazione di un Comune come un condominio, la letteratura di riferimento rimane ovviamente quella economica aziendale, con il suo lessico e tutto la panoplia dei suoi strumenti operativi.

Rimane tuttavia il dilemma presente in ogni sistema organizzativo chi valuta il valutatore? Più in generale, il problema che si pone è se il merito possa essere valutato obbiettivamente all’interno di un ordine gerarchico. Valutare sulla base del merito richiederebbe infatti l’oggettività del metodo e l’assenza di conflitti d’interesse nel controllore. Il paradosso che si può generare in ogni situazione gerarchizzata, ovvero secondo una linea di comando, in particolare nel settore del pubblico impiego, sta nel fatto che un dirigente valutato dai suoi superiori come un mediocre abbia il potere di determinare il valore dei suoi dipendenti. Se immaginiamo gli stessi criteri di selezione per i presidi e per i docenti all’interno dell’organizzazione scolastica (pubblica) si instaurerebbe necessariamente un rapporto gerarchico, con la complicazione logica che nei comitati di valutazione dei docenti parteciperebbero rappresentanti dei genitori, non selezionati con gli stessi criteri meritocratici, ma eletti  con il criterio politico della rappresentatività di una componente scolastica.

Nelle aziende, la valutazione del merito di un manager è fondamentalmente legata alla sua capacità gestionale delle risorse su tre livelli: scegliere i collaboratori migliori per raggiungere gli obiettivi prefissati, fare squadra motivando tutti gli operatori, elaborare programmi capaci di  conseguire i risultati attesi.  Su quali criteri? Alla fin fine nelle aziende il problema è semplice perché è il fatturato con i suoi utili a dettar legge e la volontà ultima è quella della proprietà attraverso il suo Amministratore Delegato.  E nella Scuola?

La “Buona Scuola” immagina una nuovo Preside selezionato e formato con capacità mangeriali che nomina i propri docenti per realizzare un MOF triennale e capace di attirare risorse dai privati (aziende, fondazioni, associazioni, famiglie). Gli oppositori della riforma animati da spirito democratico e partecipativo, già indignati come cittadini dalla corruzione, dall’illegalità ed ogni sorta di inefficienze ed incapacità mostrate dal nostro Paese, interpretano subito la proposta negativamente vedendo nella nuova figura di Preside, sebbene legalmente già Capo d’Istituto, l’allegoria di un minaccioso Capo, in analogia alla trasformazione del Sindaco in Podestà operata dal fascismo.

Una caratteristica del nostro Paese, o più precisamente del suo non-popolo, è quella di invocare nuove regole, nuove leggi e il ricambio della classe dirigente, di richiedere capacità decisionale e responsabilità in autonomia da ogni potere centrale, salvo poi neutralizzare ogni potere con la malintesa concezione della partecipazione che rivela piuttosto una visione sterilizzata di democrazia. Anche per la Scuola il problema non è economico, non è politico, ma culturale.

 

 




Per un mondo di padroni senza schiavi

Unknown Renzi e tutta la destra inseguono una politica liberista, sono la stragrande maggioranza. Questo è un fatto. Inoltre il pensiero unico economico, la metafisica della tecnica, il turbocapitalismo, il Mercato vanno ben al di là dei confini nazionali. Secondo cliché già sperimentati e controproducenti, ancora una volta l’opposizione combatte Renzi non le sue non-idee. Sul piano filosofico-esistenziale nessuna idea, da parte di nessuno. Mi dà la nausea che anche all’opposizione il pensiero unico domini l’intera partita, che il pensiero sia da sempre, sempre e solo economico. Nessuno spazio per la cultura considerata ancora oggi dalla sinistra, nel vetero intendimento pseudo-marxista, una sovrastruttura. Eppure dovrebbe essere chiaro che un servo vive nella paura.

Gli schiavi hanno vissuto nella paura un’intera esistenza, nella paura assoluta, nella paura quotidiana di perdere la vita. Lo schiavo ha dovuto dimorare in ogni istante della propria esistenza con questa minaccia sempre presente; pericolo che ora si avvicina ora si allontana in funzione del servizio reso al signore. Paura della morte e servizio si legano indissolubilmente. Lo schiavo vive solo se serve. In considerazione di ciò bisogna riflettere che il modo migliore per allontanare la paura è servire, servire diminuisce la paura. Un altro è non pensarci. Lo schiavo deve inoltre nascondersi, nascondersi più che può, il pericolo viene da Cesare e più ci si avvicina a Cesare più aumenta la paura.

Servizio, non pensiero e lontananza. Tutto avviene secondo misura. Come possiamo noi immaginarci un’intera vita vissuta nell’angoscia, nell’ansia, nel terrore? intender non lo può chi non lo prova. Ma anche se questa esperienza, per nostra fortuna, ci è negata non ci è negata la possibilità di rappresentarla. Lo spirito si approfondisce nella conoscenza solo se sperimenta la sofferenza. La propria come quella degli altri. Senza questa conoscenza che riguarda tutti nel passato come nel presente manca infatti la Memoria. La memoria, il ri-cordare, il riportare al cuore e ritenere l’immagine nel ricordo, segna lo spessore della nostra persona o la nostra superficialità, da ultimo la memoria siamo noi. Senza memoria le parole restano parole e l’esistenza galleggia irrisolta nella mediocrità in perenne fuga verso la realtà, un contingente sempre più stretto che può arrivare a soffocarci nel qui e ora. Per gli stolti schiavo sarà sempre solo un nome su un libro, un libro di quella storia stolta che stolti insegnanti hanno dato da leggere senza la capacità di far rivivere quello Spirito in carne e ossa che è il vero spirito della storia.

Il civilissimo Cesare, modello di grandezza per tutti i poveri di spirito, faceva tagliare la testa allo schiavo che gli aveva fatto cadere un vaso. Questo non ve lo hanno mai insegnato. Il Signore ha coscienza solo per sé e la sua mira è il godimento, ma il Signore non ha rapporto con le cose e per questo gli servono servi, servi che con una coscienza da servi, servono l’unico “fare”: il fare del Signore. Signori e Servi sono tutti “uomini del fare”. Sulla paura si è fondata la storia.

Millenni di anni di schiavitù, poi il passaggio alla condizione del servo, con le sue varianti nobili del cavaliere nell’occidente europeo e del samurai in Giappone, infine queste parole “gli uomini nascono liberi”. Queste parole sanciscono un diritto che stravolge i rapporti umani e con questo anche l’economia. La morte, la paura assoluta, cessa di essere ricatto. Passato il tempo degli schiavi e la forza del ricatto diminuisce, oggettivamente diminuisce, diminuisce in virtù di un principio umanitario che cambia le relazioni e i rapporti di forza. La ricattabilità diminuisce ma non scompare, diminuisce secondo misura. Nuove forme di ricatto prendono atto. Nel mondo civile non esistono più gli schiavi, la pena per la disobbedienza non è più la morte, oggi il ricatto si chiama “futuro”. Oggi il ricatto è il lavoro. Oggi il Mercato è il Signore, il Signore per poter imporre il servizio tiene in ostaggio il futuro. Il lavoro è lo strumento di ricatto: arbeit macht frei. L’unico baluardo sono i diritti.

Tutti d’accordo sulla “la centralità del lavoro. Lavoro inteso come elaborazione da parte del Sevo e come ricatto da parte del Signore. Meno diritti significa infatti più paura, più ricattabilità. Per questo quelle del Mercato devono essere chiamate Leggi. Le Leggi del Mercato tolgono di necessità i diritti. Più paura più servizio. È sulla paura che si fonda lo sfruttamento.

Oggi i giovani vivono nella precarietà, che non è solo precarietà del lavoro ma preoccupazione per la propria intera esistenza, è la vita stessa ad essere messa in discussione, a essere precaria. Vivono nella paura di non trovare lavoro, di perdere il lavoro, di non avere futuro. La precarietà, l’ insicurezza sono condizione di vita. Sono lasciati soli. L’essere lasciati soli aumenta l’insicurezza e la paura e con la paura aumenta la ricattabilità. Gli hanno sottratto il futuro e sottrarre il futuro significa rimetterli nella paura. Il malessere si diffonde.

La minaccia viene dal futuro, viene da lontano e la difesa è il non-pensiero. I giovani fuggono nel contingente e cercano di non pensare a ciò cui non sanno trovare soluzione, scusati in se stessi dalla non responsabilità per le colpe dei padri: i giovani pensano che non avere colpe li assolva. Trovano la soluzione in una coscienza da servo, hanno una sola soluzione “non pensarci” e servire, fuggire nel contingente in maniera sempre più miope e ristretta: io speriamo che me la cavo. Questa la regressione favorita da vent’anni di berlusconismo che continua aggravata dalla crisi da un giovinastro.

Il ricatto sul lavoro fondato sulla paura del futuro è alla base dell’ideologia liberista, del Mercato che trova nella paura e nel ricatto il suo odioso fondamento. I Monti non comprendono questo dire, la loro insipienza è grande più della loro ricchezza e l’una e l’altra preservano lor signorie da ogni preoccupazione filosofico-esistenziale, una materia di cui ignorano l’esistenza. Il problema è che la Cultura è sconosciuta a tutti. Tutti ignorano che a fondamento di ogni economia ci sia il Diritto. Le sinistre anziché fare cultura si sono preoccupate solo di dire no dove il mercato diceva sì, senza mai uscire dal discorso unico. La centralità è l’uomo non il lavoro. Il lavoro non può essere un ricatto e l’uomo non deve più vivere nella paura.

La ricattabilità è categoria dell’essere da sempre esistita, dal ricatto naturale per la sopravvivenza al ricatto del Signore nella storia. Dobbiamo liberarci da questa odiosa fattispecie. Dobbiamo liberarci dalla paura. Sarà chinare la testa la soluzione?
Una coscienza da Servo libera l’anima di molti dalla paura, ma offende la dignità di tutti.
Solo la cultura ci salverà.




Le vittorie di Pirro non asfaltano più

images-3Se l’espressione della sovranità popolare è indice di democrazia, se democrazia è partecipazione, allora i risultati elettorali andrebbero valutati considerando le percentuali calcolate rispetto agli aventi diritto al voto e non soltanto ai votanti. I valori “legali” dei risultati elettorali calcolati secondo regola decidono il vincitore, ma quelli “reali” che tengono conto dei partecipanti indicano il peso della volontà popolare. La cultura dei commentatori politici del voto non supera, nelle maggioranza dei casi, il livello d’ignoranza delle statistiche alla Trilussa. La statistica, si sa, è materia difficile e pressochè sconosciuta, ma la politica-marketing nella sua comunicazione da regime ha imbonito le masse condizionandole a percepire la realtà nei termini sondaggistici di “campione rappresentativo” o “trend”,  intorbidendo le acque con il ricorso all’uso semplificativo quanto ingannevole dei valori percentuali piuttosto che dei valori assoluti.

Accade così che dopo aver rilevato in queste ultime elezioni complessivamente in tutte le Regioni il 53,90% dei votanti (in altri termini ha votato poco più della metà degli aventi diritto al voto secondo la Costituzione, ma le elevate percentuali di votanti nell’era della cd Prima Repubblica non erano ritenute indice della maturità politico democratica degli italiani rispetto alle altre democrazie occidentali?) tutti si lanciano nelle più stravaganti analisi delle percentuali di voto raggiunti dai candidati e dalle varie formazioni politiche, con l’ambizione di  rappresentare la realtà politica e cercare ragioni per cantar vittoria..

La seguente tabella (in corso di aggiornamento in base ai dati del Ministero degli Interni) illustra invece un altro modo di descrivere tale realtà, che sarebbe opportuno avere presente quando si parla di democrazia, di sovranità popolare, di volontà popolare e di rappresentanza.

Regione

Partecipazione al voto

(%)

Candidato vincente

Voti ottenuti rispetto ai votanti (%)

(valore legale del voto)

Voti ottenuti rispetto agli aventi diritto

(%)

(valore reale del voto)

Campania

51,92

De Luca

41,04

21,30

Liguria

50,68

Toti

34,44

17,40

Veneto

57,15

Zaia

50,09

28,60

Umbria

55,42

Marini

42,78

23,70

Marche

in corso di aggiornamento

Puglia

in corso di aggiornamento

Toscana

in corso di aggiornamento

In conclusione, si constata che nelle quattro Regioni indicate (nelle rimanti tre Regioni è verosimile attendersi risultati equivalenti) i loro Governatori sono stati eletti “mediamente” da poco più di 1/5 della popolazione avente diritto al voto: volontà della maggioranza o dittatura della  minoranza?