Fare o non fare questo è il problema

UnknownLa vignetta di Massimo Bucchi  accompagnata dalla battuta “per una giustizia rapida e più efficiente aboliremo quanti più reati possibili” fa sorridere amaramente perché afferma una verità indicibile. Non solo una verità sullo stato della giustizia nel nostro paese e sulla politica che l’amministra, ma una verità sulla mentalità diffusa a tutti i livelli di pensiero ormai diventata metastasi del pensiero unico  in tutti gli ambiti dell’operatività: la logica imperante del primato del risultato, che prevale sui principi e finisce con invertire la relazione  tra causa ed effetto.

Troviamo un esempio di questa logica in un articolo del 20/01/2016 sempre su La Repubblica   dove si tratta  dell’aumento del numero dei corsi universitari a numero chiuso e si esprime la preoccupazione di andare verso una università per pochi, questa volta non tanto per il costo delle rette quanto per l’aumentata selezione all’ingresso. Sull’argomento viene pubblicata anche un’intervista al Prorettore alla didattica dell’Università Bicocca di Milano,  in cui la verità sul fenomeno in argomento viene distribuita  tra le domande e le risposte come fosse un copione teatrale, provocando un effetto a dir poco surreale: “Diminuisce il numero dei professori, aumenta quello delle aspiranti matricole. Quindi bisogna mettere un freno alla continua crescita“?, chiede il giornalista, “Proprio così” risponde il prorettore che più oltre prosegue “In Italia c’è un grosso problema legato agli abbandoni. L’idea di porre un freno a questo ha portato al numero programmato. Molti studenti infatti lasciavano gli studi perché non seguiti dai professori., i quali non potevano seguire tutti perché le classi erano grandi. Uno spreco di capitale umano enorme, se ci pensa“. E il giornalista incalza: “ Quindi con la selezione all’ingresso diminuiscono gli studentesche lasciano l’università?” ottenendo per risposta “Si. L’abbiamo sperimentato direttamente (…) Funziona perché diventa una selezione di qualità e gli studenti che si iscrivono sono più motivati”. Qui ci fermiamo perché c’è abbastanza materiale per una riflessione.

La logica che traspare da queste poche battute ricorda la supply-side economy,  tanto di moda nei primi anni ottanta col nome di Reaganomics, ovvero l’idea contrapposta a quella keynesiana secondo la quale sarebbe l’offerta a stimolare la crescita economica. Se a questa teoria macroeconomica si affianca poi il rigore sul pareggio dei bilanci che tanto ha condizionato l’economia europea di questi ultimi cinque anni, otterremmo il quadro di riferimento concettuale all’interno del quale si colloca la necessità del numero chiuso nelle università. In tutti questi anni la politica, parafrasando concetti mutuati dalla pratica privatistica aziendale, ci ha presentato programmi di riforma giuridica, economica e sociale sostenendo la necessità nel settore pubblico, caratterizzato da una cultura amministrativa fondata su procedure farraginose, costose e inconcludenti, verso una cultura gestionale fondata sui risultati. Di qui la critica alla burocrazia inefficiente e l’esaltazione della produttività e della concretezza in nome dell’efficacia. La figura osannata dello “uomo del fare” interpreta bene questa ideologia, nella misura in cui riassume nella personalità del leader politico o del manager che si presta alla politica i due aspetti che caratterizzerebbero il nuovo riformismo.  Da un lato, la solitudine dell’uomo messo a capo della situazione in crisi che risolve i problemi superando le resistenze di un potere reso inefficiente dalla necessità di essere condiviso, dall’altro viene meno l’attenzione al come si fanno le cose per far prevalere quello che si è fatto e ottenuto, ovvero  il risultato.

Questo modo di pensare applicato, come si fa ormai su larga scala nel mondo, alla ricerca scientifica ha effetti devastanti. Condizionare la ricerca considerando i risultati, magari da ottenere a breve termine, come variabile indipendente induce inevitabilmente, attraverso il controllo degli investimenti, una limitazione della creatività con il restringimento del campo di ricerca, con ciò contraddicendo lo spirito stesso della ricerca, che al contrario deve essere libera, come libero dovrebbe essere il pensiero, e non necessariamente finalizzata a risultati immediati e concreti. Sappiamo che di molte delle più rivoluzionarie scoperte scientifiche o matematiche non si sapeva che farsene appena prodotte.  In altre parole, l’esigenza dell’economia-pensiero unico, per non parlare della finanza, ha imposto ad ogni attività l’immediato conseguimento di una utilità,  identificando così la cultura con la tecnologia. Il trionfo del principio del a cosa serve?

Il passo dalla ricerca scientifica all’istruzione e alla formazione è evidentemente breve. Riprendendo l’argomento iniziale circa la “utilità” del numero chiuso/programmato all’università vi è da chiedersi perché volendo pure agire sul lato dell’offerta non si preferisca adottare politiche più aperte volte a stimolare l’aumento della domanda di cultura, a potenziare l’università  ovvero ampliare l’universo dei giovani sul quale agire sì con criteri selettivi fondati sulle capacità ma al fine di ottenere il massimo possibile dei risultati. L’enorme spreco di capitale umano, di cui si rammarica il prorettore citato, professore di psicologia, sarebbe così arginato, dal momento che guardando al futuro di un Paese che continua ad avere un basso tasso di laureati nella fascia d’età giovanile bisogna comprendere che se con la cultura forse non si mangia, certamente d’ignoranza si muore.

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