Alla ricerca dello spazio perduto

desertificazione-climate-704x400La ricerca dello spazio perduto non è una nuova edizione dello “spazio vitale” della follia nazista, ma l’emergenza più grave del nuovo secolo.  Mentre tra i popoli europei cresce e si diffonde la paura per i 65 milioni di profughi in fuga nel mondo dalle guerre, 

disastri ambientali  e  crescita demografica annunciano la prossima catastrofe: nel 2015 gli sfollati a cause dei disastri ambientali sono stati 19,2 milioni, oggi nel mondo sono 70 milioni e se ne prevedono per il 2050, quando la popolazione mondiale sarà di 9 miliardi, fino a 250 milioni.  In termini temporali solo una generazione  ci separa da quell’evento (in media una generazione dura 25 anni dalla nascita di un genitore alla nascita di un figlio), ma già oggi guardando i migranti venuti da chissà dove vagare per le strade delle nostre città, dovremmo renderci conto che siamo noi europei e non loro extracomunitari ad aver dimenticato le radici e che dobbiamo al più presto abbandonare alcune nostre certezze per pensare ad un futuro che si annuncia diverso da quello atteso.

Non è una novità per la specie umana se solo ricordassimo che la storia dell’umanità si è evoluta su una scala temporale ben più ampia di quella individuale sulla quale formiamo la nostra coscienza e quindi la nostra percezione della realtà: la migrazione globale è nel dna dell’umanità e dunque nel suo futuro. L’analisi del mio genoma, per esempio, quello di un italiano figlio di italiani del sud e del nord, da decine di generazioni con chissà quali incroci con i greci, germanici, normanni, longobardi, arabi … , ha rivelato che i miei avi di 30 mila anni fa (solo 1200 generazioni) migrarono dall’Africa verso i territori dell’India. Di fronte allo scenario odierno della migrazione non saranno comunque i muri a salvarci perché l’Europa non è  una “Fortezza Bastiani”  in cui i singoli Stati si possano barricare aspettando i tartari sopraggiungere dal deserto, un deserto che per ragioni climatiche cresce ed avanza portandoli con sé.  L’Europa, se non vuole cessare di evolvere e tramontare definitamente, non deve chiudersi in una unità etnico-politica, ma al contrario deve  espandere  i propri confini oltre il bacino del Mediterraneo, verso il continente africano a partire dai territori costieri del Nord Africa.

Occorre perciò, senza ipocrisia, prendere atto della necessità urgente di “mettere gli scarponi” su quelle terre, quello economico per lo sviluppo e quello militare per difenderlo,  questa volta però non per prendervi le risorse (petrolio, minerali, terreni agricoli) come gli Imperi occidentali hanno fatto per secoli con il colonialismo, ma per portarvi le nostre risorse (economiche, tecnologiche e culturali) con lo scopo primario di accelerare localmente lo sviluppo economico e sociale . Non si tratta di esportare la democrazia né di trapiantare lo stesso modello di sviluppo economico che ha causato i problemi che dobbiamo risolvere, tantomeno di espandervi gli interessi della propria economia, come il nuovo colonialismo cinese sta facendo da anni, ma di promuovere con determinazione la crescita culturale di quei paesi nella consapevolezza che lì sono già reperibili  sia le risorse umane che  materiali per tale sviluppo. Non dobbiamo integrare un profugo medico, ma costruire e mantenere un ospedale nel suo paese dove quel medico possa lavorare.

Il costo economico richiesto da un tale programma sarà ingente, stimabile  in non meno di un decimo del PIL dell’UE ogni anno (nel 2014 il PIL è stato pari a 18.495.349 milioni di dollari, pari a 23,9% del PIL mondiale), e potrà essere sopportato solo se concepito come un investimento a lungo termine in grado di salvare le economie europee.  Se si osserva la crescita del PIL in alcune aree dell’Africa subsahariana si possono già individuare modelli di sviluppo avanzati in Angola, Kenya, Ghana, Etiopia e Sudafrica, gli unici ad avere tassi di crescita non più raggiungibili dai nostri paesi occidentali .

E il terrorismo islamico? Sul piano storico e politico va considerato come un’arma usata da gruppi estremistici in conflitto all’interno dei paesi arabi e verso il mondo occidentale che ha creato e sostenuto questi paesi per realizzare il progetto originario musulmano di costituzione di uno Stato arabo unitario (Califfato). Al di là della connotazione religiosa, una religione che nacque per unificare le tribù della penisola araba (religione significa “legarsi nei confronti degli dei”), anche nel caso del terrorismo islamico si tratta della ricerca di uno spazio vitale e come tale il terrorismo islamico va considerato oggi come un effetto collaterale del fenomeno più generale della migrazione, nei confronti del quale non devono sussistere dubbi o esitazioni nell’eliminarlo, ma  con la consapevolezza che lo si contrasta per il modo con cui opera e non per il fine che si prefigge.

Viviamo con angoscia il presente perché ci sentiamo minacciati dalla frustrazione delle nostre aspettative e poiché non ne riconosciamo le cause cerchiamo sicurezza trovando un nemico fuori da noi. Dobbiamo invece rappacificarci con la nostra storia trovando un senso che superi l’individualità, dobbiamo diventare consapevoli di attraversare un’era di cambiamenti per l’intera umanità. Così scriveva Dino Buzzati nella sua fuga del tempo, presagendo un diverso futuro: “A un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno”.

 

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