Uomini forti per popoli deboli

Nella prospettiva dei mezzi di comunicazione di massa  della vigente democrazia statistica  la volontà popolare si esprime attraverso i sondaggi.  A pochi giorni dall’insediamento del nuovo Presidente USA Donald Trump ecco irrompere l’ultima verità shock scoperta dai sondaggisti dopo la sua elezione nel novembre scorso: 8 italiani su cento vogliono un “uomo forte” al potere. E non basta, a invocare l’uomo forte, che nel XX secolo si chiamavano Führer o Duce e oggi leader, sono soprattutto i giovani. Per la psicologia sarebbe fin troppo semplice spiegare questo ultimo aspetto, si tratterebbe di un modo con cui i figli manifestano un’accusa rivolta ai padri di essere incapaci di essere tali. Tuttavia, poiché è in gioco la volontà di un’intera popolazione occorrerà trovare una spiegazione di livello più generale.

La fisica ci ricorda la relatività di ogni misura e la necessità di considerare la coesistenza di ogni azione con la sua reazione. In altre parole, un forza si qualifica in funzione di ciò a cui si rivolge. Nella fattispecie dobbiamo dunque domandarci rispetto a quale altra entità un uomo è considerato forte.  Esiste sull’argomento un diffuso fraintendimento secondo il quale un uomo forte, in politica, è connotato da due principali caratteristiche, l’essere solo alla guida ed essere decisionista. La “solitudine del potere” è una condizione che ogni essere umano, indipendentemente dal sua grado di responsabilità sociale o individuale, vive in molte occasione della sua esistenza. Anzi si può affermare che è proprio da tale condizione che scaturisce in lui il senso di responsabilità. E dunque non è da ricercare in questa “solitudine” una caratteristica dell’uomo forte al potere, tanto più che, per quanto monocratico possa essere un potere, qualsiasi monarca, dittatore, presidente o leader massimo si circonderà di una corte, di consiglieri o di esperti e consulenti (il problema in questi casi è il metodo del loro reclutamento). Quanto al “decisionismo”, la questione leggermente si complica perché se da un lato non esiste un’azione che non sia preceduta da una decisione, sia pure la presenza di una fievole volontà, dall’altro esiste la condizione assai diffusa dell’ignavia, che non a caso viene considerata colpa grave da ogni morale laica o religiosa, tanto più se associata ad una condizione di potere.

Alla fine, dunque, per spiegare questa invocazione popolare dell’uomo forte al potere, al governo, occorre soffermarsi non tanto sulla personalità del leader designato, sulle sue apprezzate o denigrate qualità, quanto sul livello culturale del popolo che lo invoca. In occasione della recente scomparsa del linguista Tullio De Mauro sono stati diffusi  sui quotidiani i risultati di alcune sue ricerche sullo stato della cultura degli italiani. Il quadro che ne è risultato è sconfortante, ma è la verità del problema che abbiamo qui affrontato che può spiegarci il fenomeno: il 70 per cento degli italiani è analfabeta, legge, guarda, ascolta, ma non capisce.

Concludo questo articolo con le stesse parole con le quali conclusi “La democrazia statistica”: “Sarebbe ora che la coscienza democratica nel nostro paese si svegliasse dal torpore allucinatorio del “non è vero perchè non mi piace” e rivolgesse l’attenzione alle cause vere e profonde del declino del nostro paese. Non è in discussione la sovranità del popolo, ma la sua condizione di sottosviluppo culturale. Il livello di democrazia di un popolo è direttamente proporzionale al suo livello di cultura e solo la cultura potrà salvarci”.