Donne testimonial del nazismo

È del 27 gennaio scorso, uno dei giorni dedicati alla Memoria dell’Olocausto, la notizia della scomparsa  di Brunhilde Pomsel nella sua casa di Monaco di Baviera, all’età di 106 anni. Chi era questa donna? La segretaria stenografa personale dal 1942 al 1945 dell’allora Ministro della Propaganda nazista Joseph Göebbels. È stata forse l’ultima testimone diretta, vissuta all’interno dell’apparato politico e amministrativo del regime nazista. Nel 2015 è stato girato il film documentario  German Life, una lunga intervista rilasciata dalla Pomsel, montata con filmati dell’epoca, proiettato nei giorni scorsi in occasione della Giornata della Memoria presso la Fondazione Feltrinelli di Milano. Ho ascoltato il racconto di “una vita tedesca” attraverso i suoi ricordi di bambina educata nel conformismo di una Germania severa e culturalmente isolata dal mondo, di giovane donna nella Berlino degli anni trenta approdata agli agi di un lavoro da lei ritenuto gratificante ma vittima inconsapevole della tragedia incombente ed infine i ricordi di segretaria che descrive il suo capo come un attore, un narcisista freddo e rigido, unico intellettuale nella massa di disadattati della cerchia di Hitler, un nano delirante. E mentre ascoltavo i ricordi dalla sua lucida mente, guardavo le rughe del suo inconsapevole volto centenario come fossero una scultura fatta dal tempo per ricordare la tragedia di interi popoli. Una rappresentazione in corpore vili delle tesi di Hannah Arendt espresse nella Banalità del male.

Finito il film mi sono affiorati alla mente altri volti di donne testimonial più o meno consapevoli del regima nazista. Donne al di sotto o al di sopra della coscienza della tragedia umana avvenuta nel loro tempo.

Una di queste è Traudl Junge (1920-2002), una delle ultime segretarie personali di Hitler dal 1942 al 1945. Le due donne presentano alcune analogie: entrambe furono segretarie di massimi esponenti del nazismo, entrambe sono scomparse pochi giorni dopo la presentazione dei film-documentario girati sulla base delle interviste rilasciate dopo oltre mezzo secolo dalla fine della guerra ed entrambe hanno sostenuto di essere state all’epoca sprovvedute e infantili, non a conoscenza del genocidio degli ebrei. Le due segretarie per ragioni professionali avrebbero dovuto presumibilmente conoscersi e comunque, avendo entrambe seguito i loro capi fino alla fine, si sarebbero dovute incontrare nel Führerbunker  sotto la Cancelleria del Reich a Berlino dove Hitler e Göebbels si rifugiarono nell’aprile del 1945, negli ultimi giorni del regime, fino al loro suicidio. Dopo la fine della guerra la (1947) Junge scrisse Fino all’ultima ora. Le memorie della segretaria di Hitler, 1942-1945, libro di memorie degli anni passati al servizio di Hitler dal quale fu in seguito ricavato un film-documentario (2000) che condensa in 90 minuti una sua lunga intervista durata 10 ore ricca di particolari e di aneddoti. In anni più recenti (2004), in coda al film La caduta. Gli ultimi giorni di Hitler, ispirato al suo librola Junge appare in un breve spezzone dell’intervista.

Un’altra importante testimone della Germania nazista, non una semplice funzionaria del regime, ma la figura atipica e controversa di un’artista è Leni Riefenstahl (1902 – 2003). È stata una regista, attrice e fotografa celebre soprattutto come autrice di film e documentari che esaltarono il regime nazista e che le assicurarono una posizione di primo piano nella cinematografia tedesca del suo tempo. I suoi film più noti girati durante il nazismo sono La vittoria della fede, Olympia (Olimpiadi del 1936) e Il trionfo della della volontà).  La sua adesione al nazismo fu caratterizzata dall’amicizia e reciproca stima con Adolf Hitler e dalla condivisione dell’estetica nazista, che contribuì a sviluppare con l’espressione visiva che le diede. Ebbe contrasti con alcuni gerarchi nazisti, soprattutto con Joseph Goebbels, che la portarono ad assumere una autonomia dal partito nazista, a cui per altro non fu mai iscritta. Sebbene la sua arte abbia avuto una forte connotazione propagandistica, nei suoi film non sono presenti i principi antisemiti e razzisti che invece permeavano le idee di Goebbels e Julius Streicher. Nel recente film Race-Il colore della vittoria, incentrato sulla figura dell’atleta americano di colore Jesse Owens che vinse quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi di Berlino del 1936, umiliando il mito razziale della superiorità della razza ariana, il ruolo assunto dalla Riefenstahl in quanto regista del film Olympia sulle olimpiadi vuole appunto rappresentare la sua concezione artistica contrastante quella razzista dei nazisti. La sua dimensione artistica non può tuttavia essere assimilata  a quella solo politica. La sua personalità libera e anticonformista non corrispondeva certo al modello femminile nazista e la sua influenza culturale, le sue innovazioni tecniche e il suo prestigio sopravvissero alla caduta del regime tanto da alleviare il peso del suo passato, passato che comunque le impedì di lavorare per lungo tempo. Infatti la regista fu processata quattro volte per le sue attività filonaziste e sempre assolta, perché giudicata non coinvolta in attività di guerra o di sterminio. Dopo la fine della guerra, si propose come autrice di opere sulle culture tradizionali africane e sulla biologia marina.

Dalle tre figure femminili vissute durante il nazismo e a questo sopravvissute annegando le proprie colpe in quella più generale di un intero popolo, dall’orrore di un popolo inconsapevole che si presta volontariamente ad essere al servizio di un dittatore, dalla banalità del male passiamo alla tragedia del male guardando le sofferenze che il male provoca sulle generazioni successive. Da donne collaboratrici inconsapevoli a donne vittime in quanto figlie del carnefice.   Helga Schneider (1937), oggi una scrittrice,

Helga Schneider bambina

La madre di Helga Schneider, 1998

nel 1941 all’età di 4 anni e suo fratello Peter di 19 mesi, il padre militare già al fronte, vengono abbandonati a Berlino dalla madre che arruolatasi come ausiliaria nelle SS diverrà guardiana al campo femminile di Ravensbrück e successivamente a quello di Auschwitz-Birkenau. Helga e il fratello vengono accuditi da parenti e poi dal padre risposato subendo drammatiche separazioni e vivendo con la zia a Berlino in una cantina in condizioni indicibili, sotto i continui bombardamenti. Nel dicembre del 1944 Helga e suo fratello Peter, grazie alla zia che lavorava nell’ufficio di propaganda del ministro Joseph Goebbels, vengono scelti con altri bambini berlinesi per essere “i piccoli ospiti del Führer” che li porterà nel bunker del Führer dove incontreranno Adolf Hitler in persona. In uno dei suoi libri la Schneider lo descriverà come un uomo vecchio, con uno sguardo ancora magnetico ma dal passo strascicato, la faccia piena di rughe e la stretta di mano molle e sudaticcia. Dal 1963 Helga vive in Italia, a Bologna.  Nel 1971, trentenni dopo l’abbandono, venuta a sapere dell’esistenza ancora in vita della madre che l’aveva abbandonata sente il desiderio di andarla a visitare a Vienna dove viveva in una casa di riposo. Scoprirà solo allora che la madre era stata condannata dal Tribunale di Norimberga a sei anni di carcere come criminale di guerra e che dopo 30 anni non ha rinnegato nulla del suo passato, di cui conserva orgogliosamente come caro ricordo la divisa di SS che vorrebbe che Helga indossasse, e vuole regalarle gioielli di ignota provenienza. Stravolta da quell’incontro tuttavia Helga vorrà tornare a trovare la madre nel 1998, dopo 27 anni dal primo. Da questo secondo incontro ancora negativo e ancora traumatico a causa della fede irriducibile della madre nell’ideologia nazista nasce il libro Lasciami andare, madre (2001) .

Sappiamo che erano 3700 le donne delle SS guardie nei campi di concentramento, di queste solo tre sono state condannate per genocidio. Nel 2015 queste donne avevano oltre 90 anni e vivevano senza aver mai scontato la loro pena. Si dice, e a ragione, che le colpe dei genitori non debbano ricadere sui figli, ma spesso si dimentica di ricordare la fatica che i figli dei carnefici, dei quali sono le vittime terminali, devono affrontare per dare, loro sì, una risposta alla irresponsabilità dei genitori. In termini di popolo questa fatica è culturale, non cerca vendetta ma pretende giustizia con la memoria; per i figli la fatica sta nel superare il risentimento in un rapporto capovolto tra padre-figlio e si chiama perdono.

Voglio chiudere questa sintetica descrizione di  donne vissute in relazione al nazismo con una figura femminile che ne è stata a mio parere la più grande interprete del novecento:   Hannah Arendt (1906 – 1975), la filosofa che preferiva non essere considerata una “professionista del pensiero”.

Proprio in questi giorni, dal 1 a al 6 febbraio, è in proiezione allo spazio Oberdan di Milano Vita Activa: The spirit of Hannah Arendt, documentario scritto e diretto dalla regista israeliana Ada Ushpiz nel 2015, che riprende il titolo di una sua famosa opera Vita Activa.La Condizione umana, esemplare espressione della sua teoria politica. Un altro film sulla sua vita Hannah Arendt (2012) di Margarethe von Trotta, fu distribuito in Italia in occasione della giornata mondiale della memoria il 27 gennaio 2015.

Hannah Arendt era una donna ebrea, dunque una vittima designata del nazismo, ma è stat anche una intellettuale che più e meglio di altri ha saputo “pensare” il male di tutti i totalitarismi, stalinismo e nazismo, in Le radici del totalitarismo e in particolare il male di quello nazista con la sua opera La banalità del male. Se il suo essere ebrea l’ha costrinse dopo una carcerazione a migrare fino ad approdare negli Stati Uniti d’America, dove morì,  il suo “pensare”  la condannò ad una sorta di apolidia culturale che per le posizioni critiche assunte nella sua costante ricerca della verità la rese invisa a buona parte della cultura dominante nel dopoguerra e del suo stesso popolo ebraico. In due frasi si può riconoscere l’essenza della sua visione del mondo:  “pensare non è conoscere, ma distinguere il bene dal male”, e “io non conosco che due forme di amore: per gli amici e per l’umanità”.

 

 

 

 

 




Populismo: politica senza memoria e senza cultura

Il termine populismo nella sua accezione generale di atteggiamento o movimento politico e intellettuale tendente a esaltare il ruolo e i valori delle classi popolari nasce nella seconda metà del XIX secolo in Russia e negli Stati Uniti d’America. Negli Stati Uniti con  Partito del Popolo del 1892 che sosteneva le istanze dei contadini del Midwest e del Sud, le quali si ponevano in conflitto con le pretese delle grandi concentrazioni politiche industriali e finanziarie. In Russia il populismo russo proponeva un miglioramento delle condizioni di vita delle classi contadine attraverso la realizzazione di un socialismo basato sulla comunità rurale, in antitesi alla società industriale occidentale. E proprio dal movimento russo nasce il termine populismo, come traduzione della parola narodničestvo, in cui narod significa popolo, che in seguito ai grandi movimenti politici del XX secolo ha assunto le varianti di populismo di destra e di sinistra.

Il populismo è dunque un movimento e in particolare un movimento culturale dove i soggetti sono gli intellettuali e il popolo, con una nascita presso gli intellettuali  e una direzione dagli intellettuali verso il popolo. Ora, se alle parole intellettuale o popolo avete già da ora preso posizione non continuate a leggere, l’articolo non è per voi. Per conoscere e capire i fenomeni bisogna sapere e prendere atto che il primo atteggiamento del bambino non è comprendere ma schierarsi. Se i termini populismo e popolo hanno oggi un’accezione ambigua dovuta alle loro diverse manipolazioni semantiche in relazione all’appartenenza ideologica, anche il termine intellettuale presenta non pochi problemi interpretativi. Secondo la Treccani intellettuale è “Riferito a persona, colto, amante degli studî e del sapere, che ha il gusto del bello e dell’arte, o che si dedica attivamente alla produzione letteraria e artistica. Al plurale gli i., per indicare complessivamente coloro che si dedicano agli studî, che hanno spiccati interessi culturali, che esercitano una attività intellettuale. In ambienti politici, la parola è stata usata con accezioni e sfumature diverse, talora per definire coloro che, in un gruppo sociale, in un partito e sim., costituiscono, per la loro preparazione culturale, per ingegno, ecc., la mente direttiva e organizzatrice (ha questo sign. anche l’espressione gramsciana i. organico); talora, invece, per designare polemicamente chi, in nome di una effettiva o pretesa superiorità culturale, assume atteggiamenti individualistici e critici in seno alla società in cui vive, al gruppo politico di cui fa parte”. 

Gli intellettuali dunque non hanno una collocazione, non sono definibili in una classe precisa e uniforme ma caratterizzati solo da un generico amore per la cultura intesa come una passione privata o , politicamente, come struttura portante e indispensabile per il sociale nel momento in cui gli intellettuali intendono rivolgersi al popolo. Gli intellettuali appartengono a diverse o diversissime filosofie, dal nichilismo al comunismo, dalla fede all’ateismo, filosofie che sottintendono diverse o diversissime visioni di vita e della società. Possiamo quindi senz’altro definire idioti coloro che si rivolgono a questa non categoria come a un unico cui addebitare giudizi del tipo “Gli intellettuali sono, o sono stati, la rovina del paese”. La spiegazione di questo vile agire del pensiero sta nell’ignoranza di chi invidia e odia tutto quello che gli è estraneo, che non può capire e a cui non può arrivare, nella volontà di rivendicare in seno alla mediocrità il diritto all’esistenza. Diritto sacrosanto, ma non criticare ciò che non puoi comprendere. L’odio per la cultura è una prerogativa popolare che va dai ceti più bassi a salire, secondo misura e in proporzione. La sua fonte primaria è l’invidia, quella che Dante relega Giuda nel Cocito insieme a Caino, fu per invidia che Giuda tradì Cristo. Tutto l’ultimo girone dell’inferno si fonda sull’invidia. Anche Caino uccise Abele per invidia, la motivazione di fondo per il tradimento e anche per l’avarizia (cupidigia per Dante) è l’invidia. In sé l’invidia può essere motivo di odio o ammirazione secondo diverse posture dello spirito: bontà, acredine o convenienza con infinite sfumature. Esiste persino un’euinvidia che guarda con gioia alla felicità altrui.

Ben altri sono tuttavia per lo più i mari in cui ancora si agitano le acque.
“Forti con i deboli e deboli con i forti” non è assolutamente prerogativa dei potenti, questa naturale disposizione dello spirito testimonia l’ancestrale attività animale, incolpevole nelle bestie, bestiale negli uomini. Viltà umana comune a tutti gli strati sociali, tanto più manifesta quanto minore è il potere. La “sindrome del caporale” dimostra che una briciola di potere in mano al penultimo può essere disprezzabile, umiliante e avvilente quanto e più dell’arroganza dei potenti. In milanese masapioc (ammazzapidocchi) è definito chi con un minimo di potere si vendica sul prossimo cercando con ciò il riscatto alla propria condizione, lo fa per “sentirsi qualcuno”, per quel minimo gradino acquisito si accanisce con chiunque incontri sotto di lui. Atteggiamento definito anche “sindrome della portiera”, questo genere di potere è considerato dal singolo alla stregua di un diritto acquisito, si esercita abitualmente in sedi burocratiche e anche nei condomini sul vicinato con singole piccole beccate dando al sociale tutto l’aspetto di un pollaio. Non è forse un fatto che tutti i regimi totalitari, fascismo, nazismo e comunismo, hanno creato apparati militari e polizieschi da affiancare alle forze istituzionali con il compito di controllare il popolo arruolando soggetti reclutati tra i più abbietti presi dal popolo? Nessuno è più lontano da un cittadino di un altro cittadino. Nessuno detesta il popolo più del popolo. Unirsi per collaborare è per lo più inviso.
Passando dal sociale all’individuale si pensi alla considerazione che si ha nel paese delle cosiddette tasse (in verità imposte) una santa istituzione che fa del primo mondo il primo mondo. Dove non ci sono tasse è il terzo mondo. Chi ci ha mai pensato? Tutti contro le tasse considerate da tutti un male: non l’eccesso ma le tasse in sé, l’istituzione! Va da sé che affiancare e sostenere questa idiozia procura consensi. Programma di governo: diminuire le tasse. E tutti applaudono.
Se osservate i palazzi in città, vi accorgerete che sono pieni di antenne di tutti i tipi, paraboliche e non, una per famiglia, indicatore dell’indisposizione assoluta anche in un condominio a unirsi e condividere. I contadini resistono a unirsi in cooperative, le piccole imprese in grandi e così via… Nessuno nel popolo è un essere sociale, pigrizia, ignoranza, orgoglio, diffidenza, sentimenti animali ancora padroni dello spirito.
Possiamo quindi ora tentare una prima definizione di populismo: la posizione politica di chi tende a sostenere sentimenti retrivi e ignoranza popolare, per appartenenza o per convenienza politica. Secondo l’adagio: ci sei o ci fai.

Orbene, il potere, comunque assunto, può essere esercitato per migliorare le condizioni sociali, sia materiali sia culturali del popolo o per trarne un vantaggio per il partito o movimento che dir si voglia o da ultimo personale.
Tra questi tre parametri: interesse pubblico, di partito, personale gioca la coscienza individuale. Senza l’ausilio di una profonda coscienza filosofica, l’io mercanteggia con se stesso ogni genere di falsità. Vendersi può significare: “non lo fò per piacer mio ma per piacere a Dio”. Dio il partito, Dio la famiglia, Dio quello che vuoi… gli alibi sono infiniti, compresa l’amante, la bella vita e la tossicodipendenza.
Al di fuori di valori certi rivolti unicamente all’interesse pubblico, tutte le scuse sono buone. Ne nasce un torbido malaffare cui è imposto il nome di “politica” o “politica del reale” ovvero rendere lecito l’illecito. Con un’idea di concretezza data alla somma indeterminata, scomposta e casuale quale risultante di tutte le menzogne e compromessi che determinano il contingente senza l’ombra di una direzione, ha luogo uno scontro continuo di affare e malaffare in cui l’animo di ciascuno entra in gioco dicendosene estraneo e tirandosene sempre fuori. La beffa. Responsabile chi?
Sic stantibus rebus il sacro nome del Dio, la Politica, viene trascinato nel fango e il popolo che si bea di tanta scelleratezza ne bestemmia il nome.
Storicamente in politica il ruolo degli intellettuali all’interno dei partiti è stato spesso quello di guida; rifacendosi a diverse ideologie gli intellettuali hanno dato la linea a questo, quel partito o movimento con diversa sorte e successo. Quasi invariabilmente all’idealità proposta dai magnanimi, è seguita una deiezione, un decadimento spirituale dovuto in parte alla difficoltà di mettere in atto utopie ma soprattutto dovuto all’incapacità degli eredi, dei seguaci, degli uomini pratici saliti al potere, di comprendere il valore e la portata delle idee che hanno ispirato il movimento, idee che sempre si fondano sulla filosofia e che per questo vengono presto disattese.

A questo punto è necessaria una breve nota su ciò che è la filosofia. Per quanto all’ignorante paia strano, idee come “tutti gli uomini nascono uguali” o “sono uguali di fronte alla legge” sono profondissimi intendimenti filosofici senza i quali questo mondo non sarebbe in concreto quale lo vediamo e viviamo. Di fatto nulla è più concreto della filosofia, non mi riferisco al suo studio ma alla sua entratura morale nel mondo. Quando nasciamo, nasciamo come eredi di principi universali che hanno liberato l’uomo grazie ai magnanimi da una condizione di schiavitù e sudditanza ma il cittadino che tutto questo assolutamente ignora, dal microcosmo della sua pusillanimità si chiede: “Che cosa ha fatto lo Stato per me” e va con i forconi in piazza. Quote latte. In democrazia è a questa infelice moltitudine senza radici che mi devo rivolgere per ottenere il consenso che mi permetterebbe di andare in loro soccorso. Giacché ogni generazione deve imparare di nuovo tutto il percorso fatto dall’umanità e se questo non accade come dovuto, la prospettiva è solo la regressione. Memoria e Cultura.

Scadendo ora dalla teoria alla strategia, alla tattica dalla generalità e dalla generosità dell’essere al contingente, si è sempre finito col confondere l’idolo con il Dio. A questo processo degenerativo hanno sempre contribuito l’interesse al potere personale e la volontà di compiacere al ribasso il popolo. Le perifrasi “il popolo non è pronto”, “il popolo non è in grado di capire” sono assolutamente vere! Per questo, a questo dovrebbe di necessità seguire un’azione diretta a mettere il popolo in grado di capire; questo non viene di fatto, fatto. Si offre al popolo demagogia al posto di educazione. Se ne riceve audience anziché cultura.
Anche in occasione delle più grandi guerre e delle più grandi stragi non bisogna scordare che dietro le armi si combatte sempre una battaglia culturale, una battaglia di civiltà: una guerra per imporre la propria concezione della “pace” nel mondo. Tutti, tiranni, i dittatori persino le democrazie hanno da secoli dichiarato di avere come obiettivo la pace: Tempus belli para pacem, la guerra per preparare la pace e non hanno ancora finito. Missioni per la pace o di pace orbi terraque.

Da sempre per governare e non solo in democrazia, occorre il beneplacito delle masse, il cosidetto consenso popolare ma andare incontro ai bisogni del popolo in nulla significa fare la sua volontà , a questo punto deve essere chiaro che al popolo purché mangi e si diverta, sta bene anche essere in catene. La dignità è un valore che appartiene al popolo nella misura della civiltà raggiunta. Mangiare e divertirsi, cui segue una grassa risata, è per il popolo il “concreto”, la vita reale, il resto è filosofia, parole al vento. L’uguaglianza tra gli uomini non è per il popolo principio morale ma vissuta come diritto in conseguenza dell’invidia: “Perché lui sì e io no”? Questa l’idea della giustizia. Quale altra?
Il cittadino, come a qualcuno piace chiamare la gente, ha sempre al centro l’io e agisce solo in sua difesa per appartenenza, per ciò cui appartiene e per ciò che gli appartiene. In questa prospettiva il sociale per coesistere deve essere necessariamente gerarchizzato per poter confermare come valido e riconosciuto il principio: “a lui si e a me no”. In una società gerarchizzata la superiorità è riconosciuta solo al “padrone”, mentre al “servo” conviene invece l’obbedienza e la fedeltà. Fedeltà: pessima virtù per uno schiavo. . I cittadini sono tutti sudditi, “yes man” in quanto solo facendosi schiavi soddisfano il padrone e ottengono il risultato voluto. Il servo infatti raggiunge il suo scopo quando soddisfa il padrone. Il paradigma è semplice “obbedisco non perché ci sono costretto ma perché mi piace”, questa la menzogna detta in sacrestia del proprio spirito unitamente alla chiosa: “io sono furbo, alla fin fine mi conviene”. La menzogna detta a se stessi: “non perché costretto ma perché lo voglio”, “non per necessità ma per virtù”, è il pilastro morale per molti di tutta un’esistenza. Ovviamente ne va della dignità, la schiena si piega e come al Luna Park lo specchio deforma l’immagine e la fa apparire diritta; all’onor del vero, smascherati, si aggredisce il debole e ci si china al potente. Solo il padrone e il sarto possono accarezzare la tua gobba. Al potente l’arroganza, al meschino la furbizia.

Stando che la morale del popolo è unicamente la convenienza, il popolo è pratico, panem et circenses, bastone e carota con il popolo funzioneranno sempre. Nel primo mondo, le bastonate un tempo pubbliche sulla pubblica piazza così come avveniva nei vecchi regimi o regimi dittatoriali, ora si limitano, per fortuna, a sperequare e umiliare in termini di ricchezza e giustizia. In altre parti del mondo diversamente la “canaglia” è ancora tenuta a freno con violenza e catene. Qualcuno ha pensato bene di liberarla. Il vaso di pandora aveva come tappo un canaglia, un dittatore. Ora è guerra ovunque. La democrazia è funzione diretta della coscienza popolare non una forma di regime. Le cosiddette libertà individuali riguardanti la morale non hanno ragione di essere se non in un contesto etico politico che riguarda tutto il sociale.
Il “Cicero pro domo sua”, volgarmente reso dal “farsi i fatti propri”, è un principio universale che segna l’ignoranza come substrato culturale comune a tutti gli uomini e fa degli uomini un’unica razza l’Homo sapiens sapiens.
Anche nel progredito occidente il popolo tende ancora a farsi i fatti propri, l’acuto aforisma è chiamato dalla plebe grassa e rozza l’11esimo comandamento; a seguire l’immancabile compiaciuto ridacchio per l’alta filosofia espressa.

Il popolo inoltre è molto miope, coltiva unicamente il suo: tira sera o tira a campà, non si interessa né del sociale né della politica, di visioni del mondo che vadano oltre confine del suo immediato. Stato e politica sono pericolosi stranieri pronti a invadere uno spazio che considera suo e solo suo. Al pubblico piace il privato.
Il popolo è ottuso, non ha conoscenza né esperienza, ritiene in buona sostanza reale, falso o vero che sia, ciò che vede e sente dalle emittenti, per confermare o per smentire la televisione rimane l’unico riferimento; oltre alla televisione non ha altri agganci culturali che il microcosmo di contatti negli ambienti in cui vive, a casa e al lavoro. Miserie che fanno da colonna portante per l’idea che si deve avere sulla morale, sulla convivenza civile, sulla natura umana, sull’universo e su Dio e su come deve essere tenuta l’asse del water, secondo il principio “solo quello che accade a noi accade veramente”. Concreto è solo quello che accade sotto i sensi e di quello che accade è vero solo quello che ci piace. È vero perché ci piace. Sul gusto personale tutta la verità e tutte le scelte. “Chi (è quell’idiota che, ndr) ha detto de gustibus disputandum non est se è sui gusti che si gioca l’intera esistenza?” (Nietzsche).
Il popolo chiama concreto solo quello che soddisfa i suoi appetiti. Tutto ciò che non accade a me non accade nel mondo. Non si documenta, non legge, non riflette e non sperimenta. Se lo fa, ripete all’infinito se stesso: i pochi files che occupano il suo universo morale, sempre gli stessi. Il resto è quotidianità, sesso, sport e cucina. Pusillanime significa dall’anima piccola (pusillus animus) al contrario di magnanimo, dalla grande anima. In fondo tutto si gioca su questo. La dimensione dell’anima conta. Una sana educazione dello spirito porta a crescere l’anima e la sfera degli interessi in crescita è destinata sempre più all’universale, coinvolge sempre più gli altri rendendo possibile la convivenza. Da individuo a persona esiste una lunga strada che nessun governo si è mai preso la briga di sostenere. La chiacchiera occupa interamente il sociale veicolando solo e unicamente stereotipi che conversano tra loro in luogo delle persone. Cose già dette.

Molti dei giudizi da me espressi non sono giudizi particolari dati a un popolo ma rivolti alla condizione umana nella sua generalità e ben altro ci sarebbe da dire. Anche da queste poche note si possono tuttavia tracciare le grandezze e le variabili del sistema popolo purché il sistema sia visto geograficamente, storicamente ed evolutivamente. Tutti i popoli sono diversi e tutti i popoli sono uguali. Molte delle cose dette sono vere per tutti i popoli, ma per tutti i popoli in misura diversa o diversissima corrispondenti a diversi o diversissimi gradi di civiltà. Un parametro come “farsi i fatti propri” può variare dall’incesto con stupro, o peggio, a non arrivare per tempo a tavola, o meglio, ed è presente in tutte le civiltà umane. Voglio dire che chi ha inteso il mio discorso come una critica unicamente negativa al presente, non ha veramente ma veramente, inteso nulla. Io analizzo e non mi schiero. È che la strada della civiltà è lunga e lunghissima e il punto in cui ci troviamo ha più strada da percorrere di quella già percorsa. Cosa per cui voglio bene alla mia epoca anche se non gli risparmio critiche. Se la democrazia ha messo al potere la mediocrità ho ben presente come nel passato sia stata la crudeltà e la barbarie a dominare.
La dignità come visto è una variabile fondamentale, un parametro che entra come novità assoluta nella storia solo recentemente, a partire dai primi atti di ribellione, nasce per combattere tutte le meschinità dell’essere quando l’individuo compiace per interesse alla propria umiliazione cedendo ai ricatti e facendo di necessità virtù, chiamando realismo la giustificazione ideologica che fa lecito l’illecito.
Molto diversamente in sostituzione del più antico “onore”, la dignità, la sua comprensione e assunzione, rimane fondamentale per la concretezza dell’esistenza. Dalla dignità dipendono lotte, diritti, libertà, fratellanza, uguaglianza, giustizia, convivenza, felicità ed economia. Senza dignità abbiamo solo padroni, crumiri e schiavi. L’uomo schiavo-crumiro, panem et circenses, sesso-possesso detto “uomo di pancia” è il peggior nemico del popolo e coloro che a lui si rivolgono in questi termini, gli “uomini del fare”, sciacalli. Chi aspira a rivolgersi al popolo da una posizione di potere, fosse un movimento o un partito politico, dovrà tenere ben presenti queste assolute verità. Può tenerle presenti in due sensi per fini contrapposti o per emancipare il popolo o per usare il popolo ai propri fini per il potere.

A emancipare il popolo o altrimenti detto, fare della massa, della gente, un popolo, sembra in mente dei, eppure il primo dovere di ogni governo dovrebbe essere far progredire la nazione in civiltà, sogno una costituzione che all’art.1 reciti “L’Italia è una Repubblica fondata sulla Cultura”. La cultura pare invece cosa che non riguardi né i governi, né le istituzioni né le opposizioni. Agire sulla mentalità del popolo per una sua emancipazione non pare riguardare la politica. L’importanza della cultura è soffocata dal Pensiero Unico Economico. Lo stato di civiltà di un popolo pare essere un fatto inalterabile, una costante del sistema sociale che come tale non deve essere presa in considerazione da nessun governo e da nessuna forza politica, da nessuna istituzione. La crescita morale dello spirito è ovunque fuori discussione. Per certo è un fatto che l’inerzia culturale di ogni popolo è un macigno tale da essere difficilmente smosso nel contingente da qualsiasi forza politica. Questo accade in ogni nazione, in ogni epoca. Eppur si muove. Provvidenza o pronoia si voglia chiamare, esiste una forza che spinge il progresso in modo indipendente dalle circostanze e tuttavia la politica può essere un freno o un acceleratore di questo cammino che andrebbe in ogni modo agevolato anche e soprattutto con interventi culturali mirati a migliorare le relazioni tra gli uomini non solo con la coazione, leggi, ma con insegnamenti morali, nelle istituzioni. L’educazione dello spirito, massima e unica disciplina per Platone, è ancora istituzionalmente una sconosciuta. Non un pensiero per educare il popolo. Il popolo si serve e non si educa.
Anziché rivolgersi alla gente con un piano educativo ogni potere dalle dittature alle monarchie alle democrazie, alla gente si chiede solo il consenso, consenso per ottenere o conservare il potere così la gente non diverrà mai popolo. L’ignorante è un ottimo cliente.

Ottenuto il potere, i migliori tra i governanti pensano al bene del popolo, ma totalmente privi di sapere filosofico pensano al bene del popolo unicamente come soddisfazione materiale. Che altro? Pagnotta calcio e sesso sono quantum satis, minimum vitae. Che anche questo star bene per avere successo debba corrispondere una mentalità, una cultura e una morale, neppure un pensiero. Nessuno realizza che il benessere economico sia frutto di una convivenza civile. Con gli schiavi un’economia, con gli uomini liberi un’altra. La mentalità è tutto. Il pensiero unico economico domina il pianeta e trova consenso proprio nella pancia del popolo. Il suo fine è il dominio del pianeta da parte di pochi o pochissimi, per ottenerlo ha bisogno del consenso degli sfruttati ovvero del popolo che volentieri con una mentalità da schiavi senza filosofia ovvero senza dignità, glielo accorda gridando in piazza il diritto di mangiare, “fare” sesso e andare allo stadio e tacendo al lavoro alla presenza delle videocamere. Un vecchio adagio recita: “Chi pecora si fa lupo se lo mangia”. Ovviamente va letto: “Più ti fai pecora più l’altro si fa lupo”, tutto avviene sempre secondo misura.

Il popolo in sé nella sua globalità è privo di qualsiasi valore, significato, unicità, direzione, voce, come un gregge può essere condotto ovunque. Tra il signore e il capopopolo per il popolo l’ultimo che parla ha sempre ragione. Della cosa, di qualsiasi cosa, vede solo una ragione: la propria, del resto non sa né vuole sapere. Per ogni individuo una ragione diversa, per ogni individuo solo la propria. Un io ipertrofico anima ciascuno e se unito ad altri in una “causa contro” moltiplica se stesso senza vedere gli altri, anche quando le ragioni dell’uno nulla hanno a che vedere con le ragioni dell’altro eppure se lasciati soli si accopperebbero; cessato il motivo che li ha visti uniti, una volta lasciati soli, cominciano a beccarsi e ricreano subito il pollaio. Per comprendere è bene capire che di là da giudizi, tutto questo è naturale, fa parte della natura umana come derivazione da quella delle bestie.
Leader carismatici possono occasionalmente anche sorgere dal popolo, ma è cosa storicamente recente, rara e preoccupante. Quando il popolo attraverso suoi capipopolo prende il potere nascono terrore, orrore, stragi, genocidi.  I capipopolo e la ciurma appresso sono in genere falliti che raccolgono con la violenza (il sangue piace al popolo) il consenso di tutti i falliti, frustrati, umiliati, rancorosi, in spirito di riscattare il fallimento e la frustrazione. Il successo del golpe è garantito nei momenti di crisi e di povertà usando la violenza e offrendo il meglio alla canaglia in proporzione diretta all’esaltazione e alla meschinità dell’anima e chiedendo in cambio fedeltà. Il popolo ha dentro di sé un mostro: se risvegliato porta il terrore.
Veniamo dunque al populismo, termine tornato in auge dopo essere stato a lungo dimenticato e posiamo i pezzi sulla scacchiera. Il termine viene impiegato in Italia per indicare il Movimento5Stelle, la Lega, Fratelli d’Italia, in Europa Marine Le Pen(Francia) , Nigel Farage (Inghilterra) , Norbert Hofer (Austria), Victor Obran (Ungheria). Ora pare che anche Trump possa essere investito di questo termine. Per Putin, Erdogan, Assad il termine è dittatore ma paiono anche questi tutti in odore di populismo.

Fatta eccezione per i 5Stelle, movimento a carattere più trasversale, negli altri casi possiamo parlare di “populismo di destra”. Eppure una volta esisteva un “populismo di sinistra” ben più affermato socialmente dell’attuale populismo. Il segreto era l’unità raccolta in una classe, quella operaia. Un’idealità che raccoglieva tutti i lavoratori e li spingeva alla lotta, la lotta di classe, lotta per i diritti del lavoro di contro a una classe padronale che difendeva il profitto.
Per tutta l’esistenza del PCI e del PSI, populismo ha significato per la sinistra stare dalla parte del popolo; e stare dalla parte del popolo senza approfittare né della pancia né dell’ignoranza, lottare anzi per la sua emancipazione, per una coscienza popolare che rivendicava i propri diritti. Questa idealità nelle attuali cosiddette sinistre è quasi totalmente scomparsa. L’idea di un’emancipazione, di una lotta e di una coscienza popolare non è neppure sfiorata e dunque nessuna ideale possibile unità. Indegni usurpatori si sono infilati nei panni altrui e danno ora al termine populista un significato unicamente negativo. Ma la notte era già cominciata e cominciata da un pezzo. I media viaggiano sempre in mezzo al fiume senza accorgersi della corrente, vanno dove li porta il vento, rassegnazione, cinismo, interesse personale. Fanno della professione un mestiere. Loro sì che sanno come gira il mondo. Bella gente. Le belle presentatrici televisive non hanno la minima cognizione del significato del termine e tanto meno dell’accezione in cui lo stanno usando. Una volta si chiamavano annunciatrici ora si spacciano per giornalisti, pardon giornaliste.
Ora tutti parlano di populismo ciascuno attribuendo al termine un significato diverso con diverse sfumature. Chi lo è un po’ chi non lo è per niente, per principio. Quelli che lo sono del tutto e non si vergognano. I più onesti… oh yees. Rimane ovvio che la considerazione in cui tenere il popolo dipende dall’intervento che si vuole fare sul popolo e che l’intervento dipende dalla definizione della fotografia come dall’azione che ne segue. Che cosa significhi populismo parrebbe a tutti chiaro dal momento che il termine si spreca ad ogni telegiornale o talk show ma come visto e dimostrato il significato e la valutazione da dare al termine possono essere differenti e persino opposti.
Populismo, mi dice un amico, Carlo dei 5Stelle, è stare dalla parte del popolo,  stare dalla parte di chi è sfruttato, di chi soffre, di chi è emarginato, degli umili, dei poveri…Un’idea catto-comunista definibile anche questa come populista che pur non essendo io né cattolico né comunista non solo non disprezzo ma in certa misura ammiro.

Sul socialismo è calato il silenzio. Ora che la farfalla è tornata nel bozzolo non è più in grado di volare. Il neonato bruco Renzi non sa neppure che cosa siano i diritti dei lavoratori, lavora per la parte avversa, proclama la necessità di scelte anche impopolari definite per l’occasione, udite udite, coraggiose. Spara qua e là sui diritti dei lavoratori e sulla costituzione e il 40%, che ancora non si è accorto del colore scuro della sua anima, lo applaude perché di sinistra. Populismo per Renzi è un’oscenità con cui diffamare i 5Stelle unitamente a tutte le destre.
Ovviamente ciò che è impopolare non è necessariamente contro il popolo: non credo sia una novità che le medicine non piacciono né ai bambini né agli adulti, ma ciò che è impopolare può anche ben essere contro il popolo. Che significato ha dunque essere o non essere contro il popolo? Fai del bene quando compri un gelato a tuo figlio?
La decisione dipende dalla condizione e dalle conseguenze, non dai un gelato a tuo figlio se ha il mal di pancia, anche se per questo tuo figlio potrebbe odiarti. Diverso se non dai il gelato a tuo figlio per darlo all’amante o mangiartelo tu. Il figlio è colui di cui ci si deve prendere cura e che ha bisogno essere educato.
“Dare al popolo quello che il popolo vuole e dire al popolo quello che il popolo vuole gli sia detto” e un’azione irresponsabile, opportunistica e criminale. Dico questo in memoria del grande statista Bettino Craxi che con queste parole fece scomparire il socialismo dalla storia del nostro paese. Dedichiamogli una piazza.

Un popolo senza educazione, educazione dello spirito, avrà come ricompensa al potere il regime che si merita, si tratti di una dittatura o di una democrazia. La democrazia infatti è espressione diretta della cultura di un popolo.
Tutti i discorsi sulla natura umana, il buon selvaggio o l’homo homini lupus, tendenti a individuare una “natura” sono amenità ignoranti del processo evolutivo della cultura. Perdonabili per il passato ma intollerabili al presente. Errori logici riempiono la nostra cultura e frenano l’evoluzione.
In genere ogni proposizione viene letta con un fondamentale errore logico che qualifica con un aggettivo una tesi e con l’aggettivo opposto l’antitesi: se A è bianco allora B, diverso da A, è nero. Così si afferma quasi inconsciamente che se A è cattivo allora B, vittima di A, è buono. Ovviamente se A sevizia B, A è cattivo ma questo non dice nulla sulla natura di B. Questa stortura logica ha riempito tutta la cultura, dalla televisione, alla letteratura, alla filmografia, in genere la più scadente, facendo leva proprio su questo inganno.
Qui nasce infatti il più grande inganno. Chi è sfruttato, chi soffre, chi è emarginato, chi è povero … sarà cattivo o buono? Si preoccuperà degli altri o solo di se stesso?
“Incattivito dalla vita” non è forse questa l’espressione che più si addice ai diseredati? Il termine “cattivo” non nasce forse da “captivus” prigioniero?
Impariamo questo, se la cattiveria non è come sostiene qualcuno insita nel DNA, essa nasce da una malasorte: quanto più sono state infelici le condizioni di vita, quanto più grande è stata la sofferenza tanto più la cattiveria ha ragione di esistere. Insorge allora una patologia dell’essere non obbligatoria per il singolo ma per certo necessitata per la massa. E dunque… gli sfruttati sono forse persone migliori degli sfruttatori? È stato il plebeo, il borghese, persona migliore dell’aristocratico? La canaglia non è forse sempre stata in mezzo al popolo?

Il comunismo nasce con questo peccato originale: credere lo sfruttato migliore dello sfruttatore rivendicando paradossalmente in lui virtù che il popolo, non per sua colpa, non ha mai conosciuto. Questo vizio ideologico ha fatto dimenticare il problema della coscienza, la necessità imprescindibile dell’emancipazione popolare dello spirito e ha consegnato all’ignoranza il potere. Il socialismo reale è stato la morte del socialismo. “Dio è popolo” è un’utopia che deve ancora realizzarsi, realizzarsi nell’idea di fare della gente un popolo, diversamente è una bestemmia non meno pericolosa di “popolo bue”. Questo falso ideologico ha fornito alle classi dominanti un alibi, la povertà spirituale del popolo si è riversata nel comunismo reale, regime che forzatamente voleva vedere il popolo legato alla virtù. Forti di questa evidente falsità, i padroni del mondo pretendono per sé un diverso destino e ritengono con ciò giustificato lo sfruttamento.  A ciascuno secondo i propri meriti, di nascita e carriera, è ancora legge universale anche in democrazia. Selezione e competitività per il bene comune è la tesi neoliberista. Eppure, non è forse ingiusto e odioso lo sfruttamento? Non è forse odioso chi sfrutta?!  Dunque da una parte chi pensa “popolo è bello” e dall’altra chi pensa “sfruttare è giusto”. In queste becere puerili opinioni si è dibattuta e ancora si dibatte la più parte dell’umanità.
Il popolo in sé non è nessuno, non ha voce, nel popolo esiste gente di grande generosità come esiste la canaglia come dai primordi ai giorni nostri e da qui all’eternità. Quando si pensa al popolo non si può pensare a questo o a quel popolo ma tutto deve essere visto attraverso i secoli, attraverso i millenni, attraverso la storia, la geografia e l’evoluzione, e comprendere che né il potere né il popolo sono mai stati gli stessi e che quello che la gente, politici compresi, ha in mente per “popolo” è solo un’astrazione miope, misera e puerile. Per comprendere bisogna leggere, studiare, pensare e soprattutto riflettere, molto riflettere o avere la bontà di tacere. Il turbocapitalismo è l’ideologia dominante, è un’idrovora che succhia costantemente capitali all’economia per nasconderli nelle tasche di pochissimi, ha un unico nemico la Cultura. “Gli uomini non sono uguali” è una verità universale e solo la cultura potrà renderli tali. Solo la cultura ci salverà.