Lacrime nella pioggia

C’è un modo per nascondere le cose alla vista degli uomini che è più efficace del buio: abbagliarli con la luce. E’ esperienza comune che quando si entra in un ambiente chiuso dopo essere stati esposti alla luce solare negli spazi aperti la vista si affievolisca momentaneamente  e dobbiamo aspettare qualche istante prima che i nostri occhi si adattino alla nuova condizione. Questo fatto ha una spegazione scientifica, ma qui interessa il suo valore come metafora per descrivere lo situazione della nostra coscienza sollecitata dall’esposizione alle informazioni che riceviamo dai mass media e dai social.

Già alla fine dello scorso anno si erano diffuse dall’estremo oriente notizie su un nuovo virus appartenente alla famiglia dei Coronavirus che preoccupava le autorità locali per la patologia indotta e per le sue capacità d’infezione e diffusione. Di lì a pochi giorni le informazioni che sono state diffuse sono aumentate seguendo un andamento ben più veloce di quello con cui lo stesso virus si diffondeva. In breve tempo la quasi totalità della cronaca si occuperà del Coronavirus attirando l’attenzione e suscitando timori di centinaia di milioni di persone nel mondo.

Secondo le indicazioni istituzionali ed editoriali delle principali testate, in ossequio ad una concezione della trasparenza secondo il principio del dire tutto a tutti , siamo stati sopraffatti quotidianamente dalle informazioni riportate dai giornalisti sulle caratteristiche del virus, sul suo andamento nei paesi dove era comparso e in quelli dove si stava espandendo e, infine, sui comportamenti più idonei da adottare per contrastarlo. Dal buio dell’ignoranza sui virus in cui siamo quasi tutti noi vissuti, a parte le cronache sul fanatismo dei “no wax”, in pochi giorni siamo stati esposti alla luce abbagliante delle informazioni, dei pareri e delle spiegazioni scientifiche fornite da virologi, epidemiologi, medici ed esperti di varia estrazione.

Sospinta da questa marea è salita l’angoscia, non tanto per il coronavirus che gli esperti si ostinavano a dichiarare agli inizi di essere come una influenza per poi ammettere di non conoscere, quanto per il modo con cui l’emergenza è stata comunicata. Una narrazione, come è di moda dire, nata come il viaggio di un organismo invisibile trasmesso all’uomo da un pipistrello in un affollato mercato alimentare del lontano oriente giunto a noi in Italia. Possiamo già ipotizzare che non mancheranno nei prossimi mesi  racconti thriller e fiction distopiche per elaborare la paura e rilanciare l’editoria.

Se concentriamo l’attenzione sul caso italiano, trascorsi ormai due mesi di “distanziamento sociale” possiamo osservare che in un tempo molto breve un popolo, che già avevamo appreso da ricerche internazionali essere agli ultimi posti nelle graduatorie culturali per la presenza di un elevato tasso di analfabetismo funzionale, è stato investito da informazioni farcite con acronimi, termini e concetti scientifici biologici (virologia, immunologia) e statistici (epidemiologia) mai sentiti prima e, in ogni caso, nemmeno studiati a scuola dalla maggioranza delle persone. 

Queste informazioni sul virus SARS-CoV-2 e sull’andamento della pandemia da Covid-19 sono state poi diffuse dalle istituzioni mediante comunicati quotidiani, in molti casi più volte al giorno, che contavano contagiati,  ricoverati in terapia intensiva, casi guariti e decessi, “con” o “per” coronavirus. Un puntino sui grafici giorno dopo giorno. Alla confusione generata dalla difficile comprensione dei dati forniti, espressi in percentuali senza specificare la modalità del loro calcolo e senza accertare l’omogeneità dei valori assoluti cui erano riferiti, si è aggiunta la deformazione percettiva del fenomeno indotta dalle geolocalizzazioni raffiguranti l’intensità e la diffusione della pandemia sullo sfondo di stilizzate carte geografiche.

Sui quotidiani e sul web mappe come quella qui riportata apparivano alla nostra vista come silhouette dei vari paesi colpiti dal virus coperte da cerchi di colore rosso più o meno grandi che avrebbero voluto rappresentare la proporzione della diffusione della pandemia. Il tentativo di differenziare i vari diametri dei cerchi per rappresentare proporzionalmente la diversa diffusione del virus nei vari paesi risultava tuttavia vana, dal momento che, per necessità dovuta al piccolo spazio a disposizione che imponeva l’adozione di una scala molto piccola, alla proporzionalità dei diametri dei cerchi tra loro non corrispondeva altrettanta proporzionalità degli stessi rispetto alla grandezza dei paesi. Il risultato è stato dunque quello di offrire a persone già impressionate dai numeri preoccupate una percezione visiva del fenomeno che lasciava intendere che la pandemia fosse estesa all’intero paese: carte che rappresentavano interi paesi, se non continenti, coperti da cerchi di colore rosso.

Quanto poi agli aggiornamenti numerici sull’andamento della pandemia il formato adottato sembrava (ancora oggi è così) un bollettino delle catastrofi quali terremoti, incidenti aerei o ferroviari, incendi, attacchi terroristici che riportava l’elenco dei numeri dei morti (decessi), dei feriti (contagiati) e dei dispersi (asintomatici). D’altra parte, lo stesso ricorso alle metafore che hanno considerato l’epidemia come uno “tsunami” e la situazione creatasi come uno “stato di guerra” usate da politici e giornalisti per giustificare le indicazioni emanate dalle autorità  per fronteggiare l’emergenza,  in realtà ha tradito la paura e l’incompetenza degli stessi comunicatori piuttosto che rivelarsi uno strumento comunicativo utile per far prendere atto della situazione e assumere con razionalità la responsabiltà del caso.

In una vera situazione di “guerra” i comandi militari responsabili delle azioni si guarderebbero bene dal pubblicizzare ai propri soldati, ancor meno ai civili, bollettini giornalieri recanti il numero delle vittime e dei danni subiti, semmai comunicherebbero per ragioni propagandistiche i danni inferti al nemico. 

Ciò che qui si vuole mettere in evidenza è che l’errore della modalità comunicativa non è consistito tanto nella sua impronta sensazionalistica quanto nel fatto che è stata adottata in modo compulsivo prima che si disponesse di informazioni certe e razionali per comprenderle. Nell’emergenza Covid-19 si è palesata la differenza tra pensiero scientifico e prassi politica.  Politici alimentati da scienziati accondiscendenti, prestati allo spettacolo, e amplificati dagli operatori della comunicazione si sono comportati rilevando lo stesso smarrimento e la stessa angoscia di chi li ascoltava e seguiva. Il potere politico, se si concepisse che la politica vera è la visione dell’interesse lontano , imporrebbe a coloro che lo esercitano la responsabilità etica di possedere se non la conoscenza dei problemi da affrontare e risolvere, almeno un livello culturale adeguato, non l’interesse, per comprendere la situazione.

Nel processo di rilevazione-comprensione-contrasto dell’epidemia generato dal nuovo coronavirus il fattore tempo è stato quello più rilevante. In particolare, l’accelerazione e la velocità, derivate del tempo, sono diventate gli indicatori per misurare con il primo la diffusione della pandemia (fase 1) e col secondo l’uscita dall’emergenza (fase 2). Quale e quando arriverà il rimedio per sconfiggere la pandemia? Cosa arriverà prima: un farmaco antivirale, il vaccino o l’immunità di gregge? Quando saremo di nuovo liberi di tornare alla “normalità”: a metà maggio, la prossima estate, entro l’anno, la prossima primavera…?

Spossati dal “distanziamento sociale” e sempre più preoccupati per gli ingenti danni che ne sono seguiti e altri che ne seguiranno, si tende a voler dimenticare cosa è successo in questi ultimi mesi d’isolamento quasi si trattasse di una fuga, una corsa da accelerare per allontanarsi nel più breve tempo possibile dalla sorgente del pericolo e giungere in fondo al tunnel per ritrovare con la luce la pace. Ma qualcosa sembra turbare le nostre coscienze ed emerge il timore che “non sarà più come prima”. Forse non tornerà più la “normalità” che abbiamo sospeso perché questo Coronavirus ha scoperto il vaso di Pandora, mito greco di ventotto secoli fa che oggi ci appare come la nuova metafora per descrivere la situazione reale.

Sempre rimanendo nell’ambito del linguaggio e della comunicazione spostiamo l’attenzione sul Coronavirus SARS-CoV-2 in sé per notare che nelle numerose spiegazioni su cos’è un virus fornite da virologi, immunologi, medici e biologi è stato omesso un termine, un particolare anch’esso di natura linguistica che tuttavia cambia la prospettiva del fenomeno. Anche al nuovo Coronavirus è stato dato un nome, se n’è conosciuto il genoma, se ne sta studiando il comportamento nella sicura prospettiva che, come avvenuto in passato in molti altri casi, prima o poi sarà posto anch’esso sotto controllo. Eppure nel presentarlo si è dimenticato di dire che la piccola entità biologica chiamata virus è un parassita.

Il punto è che i virus sono organismi parassiti obbligati e in quanto tali, non possedendo le informazioni sufficienti per auto riprodursi, hanno bisogno di una cellula ospite che fornisca loro i mezzi per farlo. Da quando esistiamo su questo mondo i virus come entità sono sopravvissuti contribuendo a stabilire con l’uomo (in generale con tutte le cellule vegetali e animali) uno stato di equilibrio virus-cellula che costituisce nel bene e nel male uno degli aspetti del nostro rapporto con la natura.

Oh, questa Natura! Per secoli ci siamo crogiolati sul dubbio se essa fosse benigna o matrigna ed ecco arrivare questa pandemia con le sue evidenze: i) è l’uomo stesso con la sua cultura che decide l’equilibrio nel rapporto con la natura; ii) l’uomo ha rotto questo equilibrio da almeno tre secoli. E, dunque, se è vero che nulla in biologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione si arriva anche all’amara verità che la stessa evoluzione se-ne-frega dei nostri “diritti” e “spazi di libertà”.

Gli scienziati che lavorano sui modelli matematici ci avvertono che se sarà confermato nei prossimi giorni (con riferimento alla data di questo articolo) ciò sarà la prova che le misure di “distanziamento sociale” adottate sono state efficaci…”perché altrimenti” …(Manzoni dixit) se l’andamento continuasse ad essere esponenziale… dovremmo tornare all’isolamento o al limite perseverando moriremmo tutti e… il “discorso finisce lì” (Keynes dixit).

Nell’emergenza posta dalla pandemia il mondo occidentale ha rivelato, al suo interno, una profonda differenza culturale nelle strategie da adottare per affrontarla: da un lato alcuni paesi dell’area meridionale dell’Europa, Italia per prima, che, assumendo il modello cinese, proponevano l’isolamento totale della popolazione, dall’altro altri paesi dell’area più nordica dell’Europa che consideravano l’ “immunità di gregge” come l’unico obiettivo realistico da perseguire per non sconvolgere la vita economica e sociale. Tutti, comunque, nell’attesa di farmaci efficaci per la cura e del vaccino per la profilassi.

Le dichiarazioni del premier inglese, seguite da altre di politici ed esperti olandesi, scandinavi tramite i comunicatori, che ci indica quando una popolazione ha superato il pericolo pandemico di una infezione, fece scalpore e divise l’opinione pubblica tra gli umanisti latini e cinici anglosassoni. Le domande eluse, perché inquietanti, sono state: quanto tempo trascorrerà prima che ognuno di noi potrà riprendere la vita quotidiana ex ante (normale, sic!)? Quale assetto economico e produttivo ritroveremo? Quanti saranno i morti seguendo la strategia della immunità di gregge e quanti invece con il lockdown? Rispetto ai deceduti causati direttamente dalla pandemia coronavirus, le vittime di natura economica e sociale sono da considerarsi effetti collaterali? Il punto è tutto qui: la scelta tragica di stabilire quale proporzione di vittime siamo disposti ad accettare? In altre parole, è un problema di velocità: in attesa di farmaci antivirali e del vaccino qual è la strategia più rapida e più efficiente, per raggiungere l’immunità di gruppo?

Il filosofo Umberto Galimberti ci ha spiegato che i razzisti più pericolosi sono quelli che “io non sono razzista, però…”. Orbene quel “però…” ricompare nelle argomentazioni diffuse tra esperti e vittime potenziali che trattano la pandemia : “la salute prima di tutto, però l’economia…”

Comunque, questo Covid-19 non è una esercitazione.

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