Dobbiamo diffidare degli -ismi. 

220px-Worshiping_the_golden_calfNell’immaginario collettivo, il senso comune, il termine ideologia ha assunto oggi una connotazione per lo più negativa. Infatti esso viene spesso percepito come una metafora dell’autoritarismo, evocando il fantasma del nazismo o del comunismo. Tutti ritengono di conoscere il termine e conversano tra di loro ora in favore “il problema è che non ci sono più ideologie” o contro “ma questo è ideologico!” come dire “falso”, idee astratte avulse dalla realtà. Ideologia è un’altra di quelle parole polisemiche in uso al linguaggio su cui esiste una grande confusione. Se consultiamo un dizionario (p.e. Treccani) all’osso e alla radice si evince che si tratta di credenze, credenze più o meno validamente supportate. Tali credenze sono il supporto, lo stroma di sostegno epocale di ogni civiltà. Ovvero l’intendimento profondo e allo stesso tempo superficiale che sostiene in quanto trama l’ordito dell’umanità nel qui e ora. Rappresentano il pensiero unico il mezzo e lo scopo del sociale. “L’enunciato gli antichi credevano che …” non fa riferimento alle sole conoscenze scientifiche, ma al complesso delle credenze che costituivano la mentalità, il modo particolare di concepire, intendere, sentire, giudicare le cose. In definitiva ogni ideologia è portatrice di un diverso modo d’esserci, l’odore e il sapore stesso di un’epoca, che vive come spirito in carne e ossa una diversa felicità diversamente distribuita all’interno di un tutto che insieme è vita e prigione, teatro in cui si recitano, senza saperlo, ruoli e parti di significato universale.

Detto diversamente, l’esistenza non è mai stata la stessa e non è tuttora la stessa. Malgrado l’avanzamento della scienza e della techne gli antichi siamo ancora noi. Ancora noi a spalancare la bocca davanti alla scoperta del fuoco.
Il modo particolare di concepire l’esistenza, la mentalità, pretende una ragione, uno scopo. Lo scopo in passato è stato dettato dalle ideologie, credenze religiose, filosofiche, politiche e morali. Le ideologie per quanto falsificabili hanno sempre avuto l’enorme e indiscutibile pregio di collegare ovvero tenere unito un popolo o più di un popolo e di contribuire in modo essenziale alla sua sopravvivenza. in questo senso le religioni possono essere considerate come la prima forma dell’ideologia e in questo senso si spiega la loro radicazione nella gran parte dell’umanita’. Ciò non testimonia la loro validità, ma la necessità di un progetto comune senza il quale la disgregazione è inevitabile.

Da quando la scienza si afferma come verità non si può più parlare a proposito di scienza di credenze, la scienza di fatto non è una credenza, la scienza si afferma come verità e oltre al compito di spazzare via credenze che si intromettono nel suo campo e come tali possono essere smentite, mostra al suo interno il metodo con cui la verità va cercata falsificando verità religiose, filosofiche, politiche e morali che pretendono di essere il verbo in un campo che non gli appartiene tentando di limitare la scienza in ogni sua nuova stagione. Questo beneficio assoluto portato dalla scienza all’umanità ha illuso l’umanità che attraverso la scienza sarebbe arrivata all’uomo la felicità, affidando alla scienza e alla sua sorella gemella la techne, ogni salvezza. Il pensiero illuminista che alla scienza si è rifatto ha creato un mito e moltissimi fedeli.

A che la scienza? Possiamo ritenere utile la scienza per due motivi, uno per vincere l’ignoranza di credenze che la contraddicono, l’altro per migliorare la sopravvivenza. La sua importanza quindi per migliorare la condizione umana è indiscutibile. La scienza dunque è un mezzo per raggiungere due scopi, eliminare la fantasticheria e migliorare la sopravvivenza. Tuttavia vi è un campo che alla scienza non compete: la morale. La scienza migliora la sopravvivenza, ma non necessariamente la vita. La scienza è un mezzo e in sé è indeterminata, senza scopo. L’azione dipende dallo scopo, cambiando lo scopo anche l’azione cambia ponendo al timone le varie ideologie, la scienza in sé non ha altro scopo che quello di progredire con un unico fine che presuppone la centralità dell’uomo e della vita umana (paradossalmente se al centro ci fossero gli animali ogni azione della scienza cambierebbe) per quanto riguarda la sua sopravvivenza, non è un soggetto né volitivo né pensante, ogni suo prodotto può essere usato da chiunque per qualsiasi scopo in dipendenza di credenze. La scienza è a-direzionale, il fine rimane indeterminato. L’uso dunque non riguarda la scienza, ma unicamente la morale che si fonda sulla volontà. Una “democrazia procedurale”, è una democrazia che guarda solo al contingente seguendo una tecnica politica per obiettivi contingenti qualificati come reali e trasferisce la propria equità agli esiti della propria applicazione, al di fuori di qualunque ideologia e qualsiasi epistème, verità morale, ai soli fini di trovare il consenso, ma obbedisce di fatto all’ideologia dominante: l’ideologia economica del Mercato, espressione della della Techne, che il capitalismo, sua concretizzazione, si illude di dominare. Il risultato è il volere della maggioranza in luogo del bene comune, di qui ogni populismo.

Il capitalismo ha un unico fine l’accrescere se stesso, aumentare all’infinito il profitto, in particolare il profitto privato. I cosiddetti “governi tecnici” e la “democrazia procedurale” agiscono in toto all’interno di un’ideologia capitalista meglio dei regimi autoritari. Le Leggi di Mercato sono di fatto il supporto tecnico dell’ideologia capitalista. Vengono chiamate leggi per ingannare sulla loro oggettività appellandosi alla scienza. Il vecchio mondo si rifaceva a verità rivelate che sono ormai al tramonto e al cui tramonto ha contribuito grandemente la scienza. Si va lentamente ma inevitabilmente verso l’ateismo e il nuovo dio unico valido assertore della verità è rimasta ai livelli più alti la sola scienza, scienza troppo astratta e lontana per la gente comune che ha bisogno di idoli, ora la Techne arriva nel quotidiano più vicina all’uomo sotto tutti i profili.

Di tecnica devono ora dotarsi tutte le ideologie, economiche, finanziarie, politiche e pur anche religiose. La techne diviene quindi la nuova arma da combattimento. Assume in sé un valore assoluto e ci si rivolge a lei come una volta ci si rivolgeva in preghiera al crocefisso immagine di Dio. Il popolo ha bisogno di vedere e toccare, ha bisogno di idoli. Sia fatta la sua volontà. Chiesa, Stato e Capitalismo si contendono ancora gli scopi. La Chiesa è sempre più in crisi: l’epistème in quanto verità rivelata è ormai sempre più logora. Lo Stato con la sua democrazia procedurale non ha più come scopo il bene comune e riesce sempre meno a mediare tra il bene comune e gli interessi della maggioranza, opera unicamente per il raggiungimento di obiettivi secondo la volontà popolare. In questa situazione il Capitalismo prospera tirando i fili ai governi, prospera anche grazie all’insipienza dei filosofi, rassegnati fantasmi del passato, che cedono il passo alla Techne. Il relativismo e un neo-oscurantismo illuminista hanno assassinato la Verità.
Tra tali colossi, in un angolo la filosofia sembra destinata a perire. A perire per mano degli stessi filosofi che per realismo, la peggiore delle credenze, si rivolgono ormai alla filosofia come a una lingua morta e passano il testimone alla “cibernetica”. Come a dire “la filosofia ha fatto il suo tempo”. Genuflessi alla scienza si sono perduti totalmente nel labirinto del pensiero, si sono dimenticati dell’essere e hanno smarrito completamente lo scopo: la ricerca della Verità. Solo la Sapienza ci salverà.




La dittatura dei numeri

UnknownÈ noto, ma dimenticato, che quando fu chiesto di scegliere tra Cristo e Barabba il popolo scelse a larghissima maggioranza Barabba e gli altri tacquero. Meno noto, e non meno dimenticato, è che quando Hitler salì al potere nel 1933 fu grazie al voto popolare pari al 44%. Tre anni dopo nel 1936, in Germania si tennero le elezioni parlamentari nella forma di un referendum con una singola domanda, chiedendo cioè agli elettori se approvavano l’occupazione militare della Renania e un elenco composto da un unico partito, quello nazista. Ebbene a questa farsa partecipò il 98,8% della popolazione, di cui rispose “sì” il 95%, mentre il rimanente furono schede ritenute “non valide”. Un vero e proprio plebi-scito.

In passato la volontà popolare, in quanto espressione della massa verso il potere, si è sempre espressa per un potere centrale, forte, autoritario o anche una tirannide o dittatura identificandosi nel capo, nel leader. Ancora oggi le coscienze si mostrano non essere sufficientemente mature per esprimere una pluralità al potere. La democrazia può forse legittimarsi, ma non può fondarsi solo sulla base del voto popolare. Chi si esprimere per fare la volontà del popolo, anche se in buona fede, comunque è un ingannatore e spesso se in mala fede anche un ipocrita. Fondare la democrazia sui soli numeri non è espressione della volontà popolare, ma è il populismo nella sua più infima essenza, un insulto alla stessa democrazia, perché la democrazia non è una forma di potere, ma il modo con cui il potere governa un popolo in considerazione del valore da attribuire alla persona.

il concetto di popolo, inteso come nella Dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei Popoli (Barcellona, 1990) ove si afferma che “Ogni collettività umana avente un riferimento comune ad una propria cultura e una propria tradizione storica, sviluppate su un territorio geograficamente determinato”, viene sostituito da quello di popolazione, ovvero di un insieme di individui aggregati per talune caratteristiche. In seguito la definizione data scade dal concetto di popolo come sostanza politica legata alla cultura a quella di un definizione numerica legata all’appartenenza.

Questo passaggio ha portato con sé anche il cambiamento del concetto di rappresentanza, che dal suo significato politico fondato sul diritto e sulla storia (l’agire in nome dell’istituzione per l’interesse della collettività) si è spostato verso quello statistico (l’agire in nome dell’interesse prevalente, la moda).  Secondo l’impostazione statistica, infatti, un campione può dirsi rappresentativo del proprio universo quando si verifica un’identità delle proporzioni secondo le quali sono presenti, nell’uno e nell’altro, i vari caratteri della popolazione. E la rappresentatività statistica ha stravolto a sua volta il concetto di delega, non più inteso come conferimento di poteri dall’elettorato all’eletto per superare  i limiti oggettivi dell’incompetenza, ma come un mandato esercitato da un campione selezionato in nome e per conto dell’universo.  Nuovo fondamento razionale e scientifico della democrazia, la statistica va imponendosi nella società dominata dalla tecnica con la  potenza dei numeri e la suggestione dei sondaggi: è la democrazia statistica, in rappresentanza dell’opinione senza alcun riferimento morale.

Per di più anche secondo un tale rigore metodologico i dati risultanti dalle elezioni politiche basate sul suffragio universale potrebbero paradossalmente essere intesi come non rappresentativi della volontà popolare, quando il campione dei votanti non è rappresentativo dell’universo degli aventi diritto al voto.  In definitiva è passato il concetto secondo cui una vera democrazia rappresentativa deve poter consentire  ad ogni  componente presente nella società  il diritto di avere una sua rappresentanza politica in modo del tutto indipendente dai valori culturali partecipati.

Questo può apparire una concezione corretta del pluralismo ma quando la cultura del popolo è bassa può portare irrimediabilmente come in passato alla dittatura o comunque spingere verso regimi autoritari anche se portano il nome di democrazie. Ciò significa che la democrazia è diretta conseguenza della cultura popolare e dice della necessità assoluta di agire sulla stessa per avere maggiore democrazia senza sottomettersi alla dittatura dei numeri.

La miseria culturale dei politici contemporanei, addestrati dalle scuole di formazione politica di appartenenza sulle tecniche del marketing e della pubblicità, confonde il processo di selezione di una classe dirigente politica con  il metodo della formazione dei campioni rappresentativi dell’universo usati nei sondaggi d’opinione.

Non è qui in discussione la sovranità del popolo, ma la sua condizione di sottosviluppo culturale perché la democrazia non ammette l’ignoranza. Oggi assistiamo nel nostro paese al fatto che alle cariche istituzionali e al governo accedono spesso non le personalità  migliori, che pure  esistono ed operano nel paese  confinate nel proprio ruolo o nel privato, ma  rappresentanti del popolo che sono come il popolo. Si potrebbe definire il fenomeno come  un “imperativo statistico”, con riferimento  in questo caso  al prevalere della  “moda”, ovvero dei valori più frequenti: i governanti come rappresentanti della moda. E gli uomini politici contemporanei così selezionati si fanno vanto di essere non  per il popolo, non soltanto con il popolo, ma di essere proprio come il popolo.  A loro  questa  identificazione  totale appare come la realizzazione  compiuta della democrazia.

Troppi politici, sia di destra che di sinistra, si sono convinti che la democrazia è il potere derivato dalla maggioranza dei numeri: i voti non si pesano, si contano.   Votus non olet. Potenza e fascino del numero: il fondamento  razionale della democrazia è appunto la statistica.

Qualsiasi regime sia al potere la democrazia è dovuta unicamente al grado di civiltà raggiunto da un popolo, non la sua misura, ma l’essenza stessa legata alla sua cultura. O alla sua ignoranza. Più democrazia non dovrebbe di conseguenza significare che tipo di forma debbano prendere le istituzioni per meglio interpretare la volontà popolare, ma impegnare le istituzioni per migliorare la cultura del popolo.
La distinzione tra populismo e democrazia è netta: lottare per migliorare le condizioni materiali e spirituali del popolo e giammai per fare la sua volontà.
Ormai solo la cultura ci può salvare.




La modica quantità della morale

imagesQuando una realtà è “stabile e duratura” l’obiettivo da porsi per contrastarla è “ridimensionarla nei limiti fisiologici“. La questione morale si affronta dunque con la ratio della modica quantità. No, non stiamo parlando di stupefacenti, ma di corruzione. Questo il logos di Raffaello Cantone, come si evince dalla sua  intervista rilasciata su La Repubblica. Potrebbe trattarsi di una ennesima espressione di quel pensiero debole   (relativismo assoluto) tanto diffuso che dopo faticose analisi prende atto realisticamente del mondo per adagiarsi poi sul “così fan tutti”. La realpolitik dei moderni “uomini del fare”. Purtroppo si tratta, invece, di una dichiarazione fatta da un rappresentante non solo delle Istituzioni, ma proprio di quella Istituzione preposta a combattere la corruzione: l’Autorità Nazionale Anticorruzione.

Bisognerebbe indignarsi per la povertà dello spirito, per lo spirito superficiale, qualunquista e per questo volgare di quelli che in aria di sapere filosofico sentenziano “sempre”, “è sempre stato così”, “ci sarà sempre” o “mai. Passi per il popolino, la cui filosofia non viene opportunisticamente mai criticata, ma quel pensiero debole appartiene anche alla schiera dei “politici” o degli “intellettuali” che nelle stesse radici filosofiche fondano la loro azione e il loro pensiero.

Laddove bisognerebbe cogliere l’evoluzione dell’essere dello spirito da zero a infinito, lo spirito della natura come quello della storia, il cambiamento che giustifica nella fysis il nascimento e il motore dell’essere, di fronte ad emergenze esistenziali che da millenni stravolgono l’esserci, ebbene di fronte a tanto divenire le eccelse menti sanciscono “è inutile, la corruzione ci sarà sempre” e parlano di una “patologia fisiologica”, a regime.

La povertà delle loro anime, la miseria del loro spirito sarebbero solo meritevoli di profonda compassione se non fosse che il pensiero debole e il basso sentire facessero parte considerevole e integrante del popolo di barbari a cui ancora apparteniamo. Pensate or per voi se avete fior d’ingegno se, ma solo per esempio, una scienza ancorché ancora empirica come la medicina ragionasse con ugual ingegno ed un medico di fronte ad un tumore dicesse “è inutile, la malattia ci sarà sempre” e si arrendesse alla patologia dichiarandola fisiologica. Demenziale. L’allocuzione, priva di senso, non dovrebbe trovare alcun destinatario, di nessuna utilità.

Chi dice sempre o mai a proposito di patologie sociali, qualsiasi esse siano, denuncia in sé una sterile, misera, insipiente dimensione dello spirito, né ci si potrà attendere da costoro parole o azioni che possano in alcun modo giovare al cambiamento. Arresi in nuce non daranno germogli, ma solo palliativi, spesso ipocriti e interessati, si preoccuperanno diversamente di conservare cadaveri nella ghiacciaia come immagine del proprio fallimento che si vorrebbe quello di tutti. “Sempre e mai” detti con rassegnazione, sospiro dell’anima nel tentativo di cogliere la profondità dell’umano destino: sospirano per paura di respirare. O detti con realismo, realismo che fotografa la realtà pensando al presente con un’immagine cristallizzata dell’eternità. Il “qui e ora” domina la scena e condanna qualsiasi volontà di cambiamento come utopia. La schiera dei senza tetto popola l’essente. Cinici o depressi, vogliono tutti giù nel baratro insieme a loro.

Dal nichilismo cinico di Giuliano Ferrara, quello che trasuda nell’intervista a Gad Lerner su LaF del 14/01, secondo cui “la corruzione è una malattia endemica. Qualcosa che è stato e sempre ci sarà. Un fatto marginale, un parassita indebellabile. Inutile preoccuparsene , vano occuparsene. Perdita di tempo e di energie: ci pensi la magistratura. Gli scandali servono solo al giornalismo per pubblicare. E poi … cos’è questa balla che le tangenti le pagano i contribuenti, anzi anche i contribuenti alla fine fruiscono benefici dalle tangenti. Pensiamo alle cose serie, ai ponti alle autostrade”  alla rassegnazione realistica del  ” Non riusciremo mai a sconfiggerla (la corruzione, ndr.) del tutto perché nessuno degli stati moderni ne è indenne” di Raffaele Cantone, il male, perché del male si tratta, viene considerato una patologia-fisiologica, e su questa grande verità si fonda il loro pensiero e l’azione che si limita ad accettarne una modica quantità. Inconsapevoli e insipienti predicano e agiscono a partire dalla povertà filosofica del loro grande e profondo sapere.

Ma quello che più ancora dovrebbe indignare è che nessuno da nessuna parte sollevi obiezioni. Sarebbe interessante ascoltare nel merito i commenti dei cavalieri della società civile, quelli che “i principi non sono negoziabili“. La verità è che nel nostro Paese non si ascoltano le parole della predica, ma solo il pulpito che la promana e si accetta il pensiero per adesione emotiva e di parte in ossequio alla simpatia per il personaggio affidandosi non al verbo, ma all’autorità. Appartengo dunque sono. La rivoluzione luterana deve ancora avvenire nella laicità del nostro paese. Solo la cultura ci salverà.




Un cecchino che vede oltre

imagesAmerican sniper. IL FILM. Un’ingenua, pulita, commovente visione. Clint tratta sempre della vicenda umana cercando di far intendere alti ideali. Cristo ha detto che bisogna essere disposti a lasciare la famiglia e l’eroe deve essere disposto a questo, a rinunciare ad avere una vita. L’io devo kantiano è ben espresso. Nel film ben si evidenzia questa lotta interiore. Magistralmente, con grande pulizia si porta a confronto modi diversi di esserci, in pace e in guerra, e come diversi valori parimenti stimabili e desiderabili entrino in gioco. La condizione dell’esserci è paurosamente differente, tanto che i reduci sono spaesati, non riescono più a comprendere il mondo in cui hanno vissuto così come chi vive in pace non ha alcuna avvisaglia del proprio essere.

L’idealità proposta è indubbiamente alta e sconfessa un pacifismo che si rintana nella quotidianità dicendo di democrazia ma non appoggiando chi la difende. Si può essere vili in pace come in guerra. L’eroe umano proposto è sicuramente un modello non criticabile. Una bella persona. Come sempre solo di fronte a scelte tragiche. Va da sé che la distinzione tra buoni e cattivi, agnelli e lupi, non è così didascalica e che il valore in battaglia dovrebbe essere tradotto nel coraggio sociale. Fatto si è che gli uomini non sono eroi e vanno in battaglia solo perché ci sono costretti con la forza, dalla miseria o entusiasti di falsi idoli. Tutto si fa grigio, sporco, informe. Il teorema proposto non è per questo meno valido, fa ben comprendere ai pochi in grado di capirlo come certe posizioni assunte per principio se non rimangono aperte a nuovi sviluppi cadano inevitabilmente nell’ideologia, un sistema chiuso di pensiero per parte presa: smidollati pacifisti o sadici guerrafondai.

OLTRE IL FILM . Si apre un nuovo punto di vista, l’esserci. Il sentimento di sé in una situazione di guerra. Bisogna riallacciarsi a questo per comprendere come l’io-sento possa modificarsi, come la relazione col mondo possa mutare. Con l’avvertimento che l’esserci anche considerato come sentimento di sé non è ancora coscienza. Manca la riflessione. E infatti i diversi modi di esserci hanno possibilità di essere visti se non ci si pone davanti a uno specchio. Neppure gli altri sono uno specchio se noi negli altri ritroviamo sempre solo noi stessi e ciò che ci piace. Lo Sheraton è uguale in tutto il mondo. Un ripetere sempre se stessi per tutta la vita.

Possiamo pensare che le condizioni materiali di esistenza sprofondino lo spirito in un baratro così come avviene durante una guerra o lo gratifichino in un accoppiamento. Eppure esistono condizioni in cui lo spirito dispera anche quando le condizioni oggettive sono le migliori: è il non essere. Un punto da cui pochi sono tornati, il punto in cui ogni legame emotivo viene assolutamente perduto e solo il corpo per inerzia rimane vivo. “Io non morì, e no rimasi vivo” dantesco o “l’esperienza anticipatrice della morte” heideggeriano, ritenuto entro il niente, il niente che nientifica, chiudere gli occhi dietro gli occhi. Languida quiete.

Di contro esistono condizioni materiali infime in cui lo spirito può dirsi libero e felice. Valori di alta idealità mantengono più che mai vivo l’eroe e parlano dell’Essere. Valori cui l’eroe è disposto a sacrificare la vita. Per gli agnelli ancorché armati lo spirito muore col corpo. È pur vero che lo spirito muore prima del corpo. Le Valchirie trasportano in cielo solo le anime degli eroi. L’uomo si distingue dagli animali per il coraggio. Coraggio è la mazza che vince la morte.

Tra L’Essere che esprime attraverso la Verità un esserci di più nobile sentire e il Non Essere che sprofonda lo spirito nel nichilismo: un abisso. Un abisso all’interno del quale ognuno si colloca puntualmente come parte di un discorso tutt’altro che terminato.

Clint Eastwood finemente analizza una realtà che ben conosce e su cui sa esprimere alta idealità, ma vale anche per lui il modo di Platone. “Dici bene Alcibiade incoronato di edera e di viole, hai parlato ottimamente e io te ne sono grato tuttavia forse non hai considerato che…”. In parallasse dobbiamo aggiungere tutti quei punti di vista che non si sono considerati finché le parallele non si incontreranno all’infinito. Bello come buono. Il Discorso sedimenta verità sempre più corroborate ma deve comunque rimanere aperto.

Cristo, Gandhi, l’eroe muoiono tutti per mano di chi volevano salvare: gli agnelli. Come nel poker dove la scala reale minima batte la massima e il cerchio si chiude. Le vittime abbracceranno carnefici, dice Cristo. Il terribile riposerà nella pace. “Cessate dunque e per sempre il compianto nella Verità dell’Essere, tutto ormai sarà compiuto”. Tutte queste aporie esprimono un anelito di eternità.




Furbizia di Stato

images-7Dai personaggi della Commedia all’italiana interpretati tra altri da Alberto Sordi e da Vittorio Gassman a quelli che popolano “La Grande bellezza”  la figura del furbo, il simpatico mascalzone che sa come vivere, avrebbe dovuto denunciare il mal costume nazionale, invece è finito  con l’essere assunta come modello da imitare. Rimane nella testa dei più che la furbizia sia un valore assimilabile all’intelligenza, mentre l’altruismo riconducibile alla “coglioneria”. Furbo è colui che approfitta di una situazione per avvantaggiare sé a discapito di altri. Chiaramente il sociale non si avvantaggia della furbizia, ne soffre. Cambiare questa mentalità non è certo facile, occorre come ha detto recentemente un magistrato un intervento a breve con le leggi e uno a lungo termine con l’educazione. Quello che non ha detto è che bisogna partire subito, perché stiamo rapidamente regredendo sotto la soglia della civiltà.

Orbene, il governo Renzi dopo avere annunciato “mai più condoni” ha varato di recente una legge per il rientro di capitali che di fatto è un condono, ma per raggirare l’ostacolo ha coperto l’operazione con un divieto, il divieto di chiamare la legge un condono. Per due anni ci hanno raggirato facendoci pensare all’Imu come un problema di vitale importanza, mentre nascostamente aumentavano le tariffe, poi dal nulla è apparsa la Tasi, tassa servizi indivisibili, che di fatto si basa sul reddito della casa. Questo e molto altro.

Non vogliamo discutere di queste questioni, ma solo spostare l’attenzione dai fatti al comportamento. Comportamento non solo di questo governo ma per inveterata abitudine anche di tutti i governi che hanno preceduto che non hanno mai perso occasione in una costante logica dell’emergenza di taglieggiare indebitamente gli Italiani ora con nuove tasse laddove potevano colpire e con nuovi condoni laddove non riuscivano a colpire. Fare cassa, questo è il realismo degli uomini del fare, in barba a qualsiasi morale. Come definire il comportamento di chi agisce costantemente a raggirare, eludere premiando la disonestà e colpendo chi non può fuggire, occupandosi nel mentre dei propri interessi privati? I Governi sono dunque governi di “furbi”, che portano a esempio la “furbizia” come metodo di vita: questo l’insegnamento pratico, questo l’insegnamento che più incide sulla mentalità dei cittadini.

Vessando i cittadini in ossequio ad una malintesa realpolitik, agita sempre sulla base della sola emergenza, si giustifica il senso di sfiducia nei confronti dello Stato e l’orgoglio di essere Italiani confligge con lo sfiduciato interesse che i cittadini hanno per la propria Nazione e le sue istituzioni. Governi che non hanno neppure la nozione della “correttezza”, della sua fondamentale importanza per l’immagine, senza dare all’immagine l’importanza dovuta così come avviene diversamente per esempio nei paesi “nordici” e che per questo si distinguono e differenziano in civiltà e aggiungiamo noi in ricchezza perché alla lunga solo la morale paga.

Di contro alla continua vessazione perpetrata attraverso una cattiva morale i cittadini cercano privatamente di vendicarsi facendosi a loro volta “furbi” e, stante la confusione imperante nella testa di tutti tra Governo e Stato, cercando di “fottere” lo Stato in ogni occasione. In pratica un Governo che in nome del realismo e dell’emergenza non si attiene a principi di correttezza e moralità, ma educa piuttosto i cittadini alla disonestà. Questo piano inclinato scivola inevitabilmente verso la corruzione e il disseto economico. Il destino della furbizia è inevitabilmente la corruzione. Un domino che spinge dal basso. Inutile tagliare la testa, ricrescerà velocemente.

Non si tratta solo di osservare le leggi, ma di educare alla moralità. Onestà e correttezza da parte di tutti sono il prerequisito della convivenza civile, quel minima moralia per cui si possa dire sa va sans dire. La moralità dei governi nordici dista da noi come noi distiamo dall’equatore e quanto ci vorrà perché gli Italiani lo comprendano? Senza diagnosi giusta, magari implacabile, nessuna terapia sarà efficace. Hermes nel Prometeo incatenato dice “bada non c’è confine al tormento”, se non invertiamo la rotta riprendendoci la nostra dignità, magari facendo tesoro degli insegnamenti di Aristotele che anteponeva l’Etica alla Politica e alla Economia la crisi si aprirà sotto di noi come un abisso. Bisognerebbe denunciare il Governo per vilipendio all’immagine dello Stato. La furbizia non rende liberi, solo la cultura ci salverà.




Il principio cultura

emergenza culturaCultura è un termine polisemico ovvero un termine astratto cui si possono riferire molteplici significati. In termini generali si può definire cultura ciò che è sedimentato in un soggetto vivente attraverso l’apprendimento dall’ambiente esterno.
Di cultura possiamo parlare quindi anche a proposito degli animali e in un certo senso
anche dei vegetali dal momento che anche le piante apprendono. Tuttavia l’apprendimento riguarda massimamente l’uomo e la cultura umana è l’espressione evolutiva più alta. Per cultura umana bisogna dunque intendere quanto va a depositarsi nell’individuo e nella collettività degli insegnamenti ricevuti dall’ambiente. Da qui la convinzione certa che la cultura inerisca la relazione soggetto oggetto, individuo ambiente, sé e altro da sé. Una convinzione certa non si attua in sede di opinione, ma si determina come fatto ovvero si struttura logicamente.

Per cultura si deve pertanto intendere quanto l’ambiente nella relazione ha depositato nell’individuo e nella collettività. Esiste infatti una cultura individuale e una cultura collettiva, di specie o di gruppo. La dinamica evolutiva pretende che il positum (ciò che si va a depositare) non rimanga mai identico ma sia soggetto a continue trasformazioni secondo modo e quantità delle informazioni ricevute, la cui velocità di apprendimento dipende dalla capacità dell’individuo e del sociale di accogliere nuove istanze (emergenze) che riguardano sia contingenze esterne (quelle sociali) che contingenze interne (quelle individuali) nella relazione.

La dinamica interno-esterno porta alla crescita culturale. Il gruppo non è un individuo, solo l’individuo pensa. Ovvero sia filogeneticamente che ontogeneticamente la cultura è in continuo progresso. Il positum nell’individuo come nel sociale è dunque soggetto a continui rimaneggiamenti.

Il processo tuttavia non è lineare e soggetto a subire battute d’arresto e anche a regressione. L’appreso necessita all’interno dell’individuo come nel sociale di sistematizzazione che porta inevitabilmente a una strutturazione fissa utile alla comprensione pratica della realtà. Convinzioni e regole stanno alla base della pratica sociale. Non sono inamovibili, ma la loro amovibilità sta tutta all’interno degli individui, unico soggetto pensante.

A questa strutturazione fissa che corrisponde a quella che possiamo definire una visione di vita possiamo dare ora il nome di mentalità. La mentalità degli individui é il soggetto della pratica sociale. Da qui la sua importanza. La mentalità può a sua volta essere definita come la visione di vita che il sociale in cui si è nati ha dato all’individuo nella sua particolare accezione, sociale che si definisce come cultura di gruppo o di popolo.

La variabilità individuale rispetto alle regole stabilite dal sociale o dal gruppo soggiace alle stesse e gode all’interno di una limitata libertà a causa dell’ignoranza che l’individuo ha di trovarsi all’interno delle stesse. Una maggiore libertà può essere goduta solo con un avanzamento dello spirito. Questo equivale a dire che si nasce già parlati dalla lingua, ovvero un ambiente che pre-determina la postura mentale dell’individuo, la sua mentalità.

In termini ancora generali possiamo ora definire la cultura come l’insieme degli insegnamenti ricevuti dall’ambiente attraverso il tentativo dell’ambiente di maturare individualmente lo spirito prima all’interno del gruppo e poi per il suo superamento. Questo processo è ciò che noi chiamiamo educazione.

Da ultimo rimane quindi che per cultura bisogna intendere l’educazione dello spirito per la sua maturazione. Una civiltà più progredita sarà di conseguenza una civiltà in cui lo spirito di tutti è più maturo. Il riferimento alla maturità dello spirito separa nettamente la cultura dall’erudizione, rimanendo l’erudizione se presa a se stante solo un accumulo amorfo di nozioni. La maturazione dello spirito non accumula passivamente nozioni, ma ordina attivamente l’appreso secondo direttive etiche ed estetiche. Si deve imparare e insegnare a riflettere passando dal contingente all’estensivo. In definitiva cultura significa educazione al bello e al buono.

Nel 1816 il socialista Robert Owen fece costruire nel villaggio di New Lanark (Scozia) per i lavoratori della azienda da lui diretta che ivi risiedevano e lavoravano, oltre ad una Scuola per l’infanzia e un Nursery Buildings già realizzato nel 1809, l’ Istituto per la Formazione del Carattere, dove : “Le tre stanze al piano inferiore saranno lasciate aperte all’utilizzo degli adulti del paese, i quali devono poter disporre di ogni utilità per poter leggere, scrivere, far di conto, cucire o giocare, discorrere o passeggiare. Due serate per settimana saranno dedicate alla danza ed alla musica, ma in queste occasioni, ogni comodità  sarà predisposta per coloro che preferiranno studiare o continuare qualunque delle occupazioni seguite nelle altre sere.” 

L’educazione spirituale è il pilastro su cui si fonda la civiltà, un’attività dello spirito necessaria e doverosa da parte sia dell’individuo che del sociale. La cultura è vivente o non è cultura. Molto diversamente da questa impostazione si dà importanza più all’erudizione che all’educazione confondendo la cultura con le arti, lo spettacolo e le scienze”, attività culturali che hanno senso solo se educative dello spirito per la sua maturazione, ma che diversamente rimangono solo epifenomeni etichettati. È questo il paradosso della politica: non comprendere l’importanza dell’educazione dello spirito non avendola ancora pienamente intesa o nella migliore delle ipotesi ritenendola erroneamente sotto-intesa. Ancora non si intende spirito, alla politica neppure sfiora l’idea.

Solo la cultura, la cultura vivente, ci salverà.




L’importanza di chiamarsi…onesto.

In una ragnatela di fatti quotidiani ci siam forse dimenticati di essere compagni?  A chi si chiede che cosa si debba intendere per cultura è bene   richiamare un concetto fondamentale.  La cultura non si esprime solo attraverso la scienza, l’arte o lo spettacolo, ma nel concreto della vita quotidiana, nelle relazioni sociali tra individuo e individuo e individuo e istituzioni.

Il legame che unisce ogni singolo individuo con il prossimo è di natura morale e si fonda su determinati valori, valori che sono stati vessati nel nostro paese in modo ignominioso negli ultimi vent’anni da una parte politica e trascurati colpevolmente dall’altra.

Il recupero di questi valori è fondamentale per la rinascita.  Con fratellanza e amicizia, da un punto di vista oggettivo, si indica un tipo di legame sociale accompagnato da un sentimento di affetto vivo e reciproco tra due o più persone caratterizzato da una rilevante carica emotiva e fondante la vita sociale, un rapporto alla pari basato sul rispetto, la stima, e la disponibilità.

Tracciando un profilo del valore e della natura dell’amicizia ci si deve opporre alla creazione di relazioni personali a scopo di sostegno politico per un legame interessato, ma diversamente si deve porre alle fondamenta valori come virtus e probita, onestà intellettuale, al di là  di ogni “cerchia” ristretta, della nobilitas o della casta, in una disperata necessità di rapporti sinceri.

Ricordiamo la Dichiarazione dei diritti e doveri del cittadino, parte integrante e iniziale della Costituzione francese dell’anno III (1795), dove la Fraternité, terzo elemento del motto repubblicano, è definita così: «Non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi; fate costantemente agli altri il bene che vorreste ricevere».




L’deologia meritocratica.

 L’ultimo mito della società turbo capitalista relativamente a ciò che deve essere inteso come valore è “il merito”.  Questo nuovo totem è il nuovo tabù. Divenuto ormai bipartisan e se si preferisce trasversale. L’affermarsi di criteri meritocratici è ormai principio accettato dalle parti.  Adesso basta con i somari!  Riflessione profonda e decisiva.Per mia intelligenza, differentemente, i somari esistono ancora e sono proprio tra le persone che dicono basta e inneggiano alla meritocrazia. Usando un linguaggio platonico evidenzio che una cosa è l’intelligenza, una cosa è lo spirito. Per spirito intendo la maturazione dell’anima attraverso la morale, la rinuncia all’interesse personale per amore del bene comune; amore per l’onestà unitamente all’amore per la verità: onestà intellettuale.

Spirito e morale sono necessariamente collegati; diversamente, in nulla con la morale relaziona l’intelligenza, il cui uso può essere fatto in ogni direzione a qualsiasi scopo, ad di là del bene e del male. Per realismo dice qualcuno. A nulla serve avere gente preparata nelle università se il prodotto finale è un centodieci e lode in assenza di spirito. Può essere anzi controproducente, o anche molto controproducente: una persona preparata o molto preparata, può essere immatura o anche molto immatura, e avida o anche molto avida. Pronta a vendersi l’anima e anche a servire il demonio. Non per nuoce al prossimo ma solo per interesse personale, senza malanimo né offesa per alcuno.

Come si usa dire: “niente di personale”.  Una coscienza autoripulente.  Lava, asciuga, stende e stira.  Sempre come nuova.

L’idea di laureati centodieci lode asserviti che competono sgomitando o si arrampicano come le scimmie che si arrampicano lasciando la plebe nel fango da cui desiderano e disperano di emergere, intelligentissimi arrivisti che socialmente acquisiscono meriti solo per interesse personale personalmente mi sgomenta e dovrebbe allarmare tutti.  Gli studenti non devono solo pensare a studiare ma anche a formarsi una coscienza sociale, entrambe le condizioni sono indispensabili.  Un “voto” anche in quel senso si renderebbe indispensabile, ma in quel senso non esiste nessuna disciplina e nessuna preparazione. Neppure per la formazione morale e politica di dirigenti in qualità di servitori dello Stato. L’educazione morale è cessata con Platone e le scuole platoniche.

Non è chi è più preparato che più merita, preparazione e merito sono concetti distinti. Merita di più più si rende socialmente utile secondo il concetto del servire sia con la preparazione che con la conoscenza del sociale nel senso del “servire”.

Un buon medico dice Platone non è chi conosce la cura, ci mancherebbe altro, ma chi si prende cura del paziente. Il paziente è la coinè, la cosa pubblica. Meritevoli sono solo i servitori della cosa pubblica, della res publica, i servitori dello Stato. Qualsiasi sia la posizione sociale occupata è interesse di tutti occuparsi di tutti. Chi si sottrae a questo dovere deve essere inteso come nemico della cosa pubblica e indipendentemente dalle capacità personali non gli deve essere riconosciuto alcun merito. Diversamente da quanto affermato da Sgarbi citando il Croce “l’unico uomo onesto è un uomo capace”, Platone evidenzia molto più profondamente che “L’unico uomo onesto è l’uomo che si prende cura del prossimo secondo le proprie capacità”. E ci mancherebbe altro per Platone che  non si avessero capacità. Si tratta di  una condizione necessaria, ma non sufficiente.

Un buon governante trova la cura adatta, ma il suo fine è la felicità del popolo nella sua totalità cosa di cui mai e poi mai si deve scordare. Aziende e produzione sono utili solo se e nella misura in cui la loro attività si svolge e contribuisce alla collettività nel superiore interesse della collettività, solo se l’azienda e la produzione servono il Paese, solo se e nella misura in cui l’azienda e la produzione contribuiscono al bene comune, se agiscono all’interno di questa unica morale, nell’assunzione di questa responsabilità. Il “privato” deve esistere solo per concessione dello Stato ed è concesso dallo Stato solo se lo Stato riconosce nel privato un modo migliore di contribuire all’interesse pubblico. solo se lo Stato nel proprio interesse “appalta” al privato. Diversamente il privato non ha ragione di esistere. Il pubblico interesse, il bene comune, sono concetti che devono superare ogni possibile ideologia. Qualsiasi ideologia che veda nel privato una contrapposizione al pubblico è senz’altro per definizione da condannare come nemica della Res Pubblica.

Chi più merita dunque abbia di più ma il merito deve essere riconosciuto, socialmente riconosciuto dai chi governa, solo nell’ambito di chi si assume anche attraverso attività private responsabilità sociali, a chi agisce con onestà intellettuale qualsiasi sia la sua collocazione, a chi ritiene con coscienza politica che il suo primo dovere è il dovere verso il prossimo e la cura del sociale, un prius entro il quale e solo per merito del quale gli è concesso il profitto. Nessun merito può essere socialmente riconosciuto a chi ritiene che il proprio impegno si esaurisca nella propria realizzazione, nella fedeltà all’azienda o all’amministrazione di appartenenza, privato o pubblico che sia senza tener conto del debito contratto alla nascita verso il sociale.

Forse per la nostra nascita non dobbiamo essere grati a Dio, ma sicuramente dobbiamo esserlo alla nazione. “Fare il proprio dovere non è obbedire (in guerra come in fabbrica) ma essere responsabili” Ditrich Bonhoeffer. Questa responsabilità deve essere prioritariamente intesa come rivolta agli altri, al pubblico, al sociale, anche in un azienda privata.

Diversamente, chi si cura del privato dei propri interessi in opposizione o anche solo in disparte al bene pubblico offende la moralità civile dell’intero paese e non merita di essere né lodato né riconosciuto, né tantomeno premiato con remunerazioni miliardarie.  Non merita di essere lodato chi si disinteressa di politica, chi si disinteressa del sociale, chi si disinteressa in definitiva della  polis. Noi abbiamo avuto per Presidente del Consiglio un rappresentante del Popolo che ha affermato “Chi non fa il proprio interesse è un coglione”, a testimonianza anche della volgarità della persona che dal  “popolo” viene, che al  popolo appartiene e che dal  popolo viene votata.

Meriti scolastici, intellettuali e altro impiegati in intendimenti diversi dal servire la collettività, dal servire il bene pubblico, intendimenti che nuocciono al bene pubblico vanno senz’altro e in ogni modo ostacolati. Chi “genialmente” inventa prodotti come i “derivati strutturati” dopo una laurea e un master negli Stati Uniti non va premiato per merito, ma meritatamente “decapitato”.

L’idea di una meritocrazia che premia manager istruiti e asserviti a tutti i livelli alla sola Produzione al solo Mercato in un Nuovo Ordine Mondiale “mi fa tremar le vene e i polsi”. Un interesse diretto diversamente dal bene comune dovrebbe comunque essere inteso dai laici di buona volontà come simonia. Soprattutto da quelli se dicenti di sinistra, ai quali si ricorda che alla fin fine meritare significa letteralmente essere degni di avere qualcosa.

 

 

 




Molto rigore per nulla.

Un antico proverbio orientale recita: contro chi rema con la pagaia non occorrono coccodrilli più intelligenti. Poiché l’economia, ovvero una tecnica, si mostra ancora incapace di spiegare le proprie degenerazioni e di porvi rimedio, proviamo ad affrontare il problema su un piano culturale più ampio ponendoci dal punto di vista della coscienza: quello che (non) ho. Ma per procedere occorre fare un passo indietro.

L’etica protestante e lo spirito del capitalismo è un saggio dell’economista, sociologo, filosofo e storico tedesco Max Weber (1864 – 1920) in cui si identifica nel lavoro come valore in sé l’essenza del capitalismo e riconduce all’etica della religione protestante, in particolare calvinista, lo spirito del capitalismo.  In realtà Weber non intende sostenere che un fenomeno economico possa essere causato direttamente da un fenomeno religioso. Mette invece in relazione due fenomeni omogenei: la mentalità religiosa calvinista e la mentalità capitalista, affermando che la prima fu una pre-condizione culturale insita nella popolazione europea assai utile al formarsi della seconda.  Ma Weber infatti, come chiarisce lo stesso titolo dell’opera, si riferisce allo “spirito” capitalistico, a quella disposizione socio-culturale che, correggendo la spontanea sete di guadagno, induce il calvinista a reinvestire i frutti della propria attività per generare nuove iniziative economiche.  Si chiedeva quindi: se il capitalismo genuino è caratterizzato essenzialmente dal profitto e dalla volontà di reinvestire incessantemente quanto guadagnato, questo atteggiamento ha una relazione con la mentalità calvinista?  Questo potrebbe spiegare il ritardato avvento del capitalismo nei paesi rimasti cattolici, rispetto a quelli in cui si diffuse la Riforma?

Sostiene Weber: “In tutte le società pre-capitalistiche l’economia è intesa come il modo per produrre risorse da impiegare per fini non economici (produttivi): consolidare il potere od ottenere maggiore influenza politica, coltivare la bellezza proteggendo letterati ed artisti (mecenatismo), soddisfare i propri bisogni (consumi) od ostentare tramite il lusso il proprio status sociale. Nello spirito capitalistico invece il conseguimento di questi fini legati a valori extra economici sono del tutto secondari e trascurabili: ciò che importa è che il profitto sia investito e sempre crescente. Il capitalista vero è colui che ottiene la massima soddisfazione dal conseguimento del profitto in sé, non dai piaceri che il guadagno può procurare. Ma per consolidare una tale mentalità, contraria alle tendenze “naturali”, è stata necessaria, osserva Weber, una grande rivoluzione socio-culturale: la Riforma protestante, la quale iniziò per finalità religiose ma che involontariamente favorì il diffondersi della secolarizzazione”.

La mediazione della Chiesa tra il fedele e Dio presente nel cattolicesimo, nel luteranesimo era cancellata. Ogni credente diveniva sacerdote di se stesso. Nessun uomo, sosteneva Lutero, con le sue corte braccia può pensare di arrivare fino a Dio. Con Calvino c’è una soluzione: il segno della grazia divina diventa visibile e sicuro: è la ricchezza, il benessere generato dal lavoro.  Di conseguenza il povero è colui che è fuori dalla grazia di Dio.  Chi sa quali colpe egli ha commesso per essere stato punito con la povertà.  Questa giustificazione della ricchezza serve ovviamente a lavare la coscienza.  Rimane che il valore dato al lavoro come merito individuale è la spinta per un nuovo ordine sociale. Questa concezione calvinista del valore del lavoro per il lavoro stesso trova riscontro per Max Weber in alcune caratteristiche che differenziano le due religioni: mentre il cattolico celebra la messa o prega per ottenere qualcosa, il protestante ringrazia Dio per quello che ha già ottenuto, la sua preghiera onora Dio, ha un valore in se stessa non serve per ottenere qualcosa. Si prega per chiedere, cattolico, o per ringraziare, protestante. Mentre il cattolico aspetta la manna dal cielo, che cosa fa lo stato per me?  Il protestante opera in primis per lo Stato. Mentre le chiese cattoliche manifestano nell’oro e nella ricchezza dei loro edifici e delle cerimonie la gloria di Dio, al contrario quelle calviniste hanno il senso di sé in se stesse, sono severi luoghi di culto costruiti soltanto per pregare. Ostentazione  versus  raccoglimento.  Infine come la fede nel protestantesimo vale per se stessa, è del tutto separata dalle opere così nello spirito capitalistico il lavoro e la produzione sono valori morali in sé separati da ogni risultato esterno: il profitto va reinvestito perché il beruf (professione, mestiere) ha un valore in se stesso e non per i godimenti che possa procurare.

Possiamo ora azzardare una  prima e parziale conclusione. Pare ovvio che siamo sempre di fronte ad una degenerazione, come anche accolta l’ideologia capitalista.  L’accumulo di denaro che non porta alcun beneficio, anzi danneggia pesantemente l’economia succhiando sempre più e in crescendo linfa all’impresa fa del turbo capitalismo neoliberista il figlio degenere della morale calvinista e anche dell’ideologia capitalista.  La necessità di accumulare ricchezza per produrre è incontestabile e tuttavia come affermato nella morale calvinista lo spirito capitalista “correggendo la spontanea sete di guadagno, induce il calvinista a reinvestire i frutti della propria attività per generare nuove iniziative economiche”.  La sete di guadagno ha diversamente messo in modo crescente il profitto fuori dal mercato della produzione. Questa il motivo della crisi. Ed ecco perché solo la cultura ci potrà salvare.

 




Un Augurio per l’Italia: Viva la IIIª Repubblica !

Nel primo trimestre del Nuovo Anno si potrà valutare la “fase 2” della manovra economica di risanamento della nostra economia e quindi la stabilità stessa del Governo Monti.  Intanto qui rivolgiamo al Paese gli auguri per un ingresso nella IIIª Repubblica, ricordando il discorso del 4 marzo 1933  di Franklin Delano Roosevelt, pronunciato per l’insediamento alla carica di Presidente degli Stati Uniti d’America (poco prima, il 30 gennaio 1933, Hitler divenne Cancelliere del Reich).

Il discorso è una prova di come la politica e l’economia possono diventare strumenti efficaci per le grandi trasformazioni dei popoli solo quando si poggiano sulla cultura.

Prima di lui Herbert Clark Hoover, Presidente  degli Stati Uniti d’America  dal 1929 al 1933, affrontò la grande depressione proponendo l’austerità, ma fallì miseramente.  F.D.Roosevelt, Presidente dal 1933 fino al 1945, invece risolverà la crisi  redistribuendo il reddito e aumentando i salari.

f-d-roosevelt

Presidente Hoover, signor Giudice Supremo, amici.


Questo è un giorno di solennità nazionale, e sono certo che in questo giorno i miei connazionali si aspettano che, nell’assumere la presidenza, mi rivolga a loro con la franchezza e la fermezza che l’attuale situazione del nostro popolo esige. 

Questo è decisamente il tempo di dire la verità, tutta la verità con franchezza e coraggio.
 Né abbiamo bisogno di evitare di affrontare onestamente le condizioni del nostro paese, oggi. 

Questa grande nazione resisterà come ha resistito, risorgerà e prospererà.  Quindi, innanzitutto, desidero affermare la mia sicura convinzione che non abbiamo niente di cui aver paura, salvo la paura stessa, la paura anonima, irrazionale, ingiustificata che paralizza gli sforzi necessari per trasformare il regresso in progresso.


In ogni ora oscura della nostra vita nazionale, una leadership franca e vigorosa si è incontrata con la comprensione e il supporto del popolo stesso, che è essenziale per la vittoria.  Sono convinto che darete ancora quel supporto alla leadership, in questi giorni critici.
 Con questo spirito, per quanto è nella mia e nella vostra parte, affrontiamo le nostre difficoltà comuni. Queste riguardano, grazie a Dio, soltanto aspetti materiali.

I titoli sono precipitati a livelli irrisori; si è verificato un incremento delle tasse; il nostro potere d’acquisto è caduto; ogni ramo dell’amministrazione è minacciato da una seria riduzione delle entrate; le foglie secche delle imprese industriali si accumulano ovunque attorno a noi; i contadini non trovano mercato per ciò che producono; i risparmi di molti anni in molte migliaia di famiglie sono scomparsi.
Inoltre, ed è ancora più importante, molti cittadini disoccupati affrontano il severo problema dell’esistenza, e un numero ugualmente elevato si affatica al lavoro con scarsissimo profitto. Solo un pazzo ottimista può negare le lugubri realtà di questo momento.

Tuttavia i nostri problemi non provengono da alcun fallimento sostanziale. Non siamo perseguitati dalla piaga delle cavallette. In confronto ai pericoli che i nostri progenitori superarono perché avevano fede e non avevano paura, abbiamo ancora molto da essere grati. 
La natura continua a offrirci i suoi doni, e gli sforzi dell’uomo li hanno moltiplicati.

L’abbondanza è dietro la porta, ma languiamo nel bisogno. Questo accade, in primo luogo, perché chi regola lo scambio dei beni ha fallito per la sua testardaggine e incompetenza, ha ammesso il fallimento, e ha abdicato.


Le pratiche degli operatori economici senza scrupoli sostengono ora l’accusa dell’opinione pubblica, e sono respinte dal cuore e dalla mente degli uomini.
 In verità, hanno provato, ma i loro sforzi sono caduti nel modello di una tradizione già superata.

Davanti alla crisi del credito, hanno proposto solo il prestito di più denaro. Mancando l’esca dei profitti con i quali indurre la gente a seguire la loro falsa leadership, hanno fatto ricorso alle implorazioni, supplicando lacrimosamente di ridar loro fiducia. Conoscono solo le regole di una generazione di egoisti. Non hanno una visione, un progetto per il futuro, e quando non ci sono progetti, il paese perisce.


I cambiavalute sono fuggiti, hanno abbandonato i loro seggi eretti nel tempio della nostra civiltà. Noi possiamo ora restituire questo tempio al culto delle antiche verità. La misura di questa restituzione sarà lo sforzo di considerare i valori sociali più nobili dei profitti monetari.


La felicità non consiste nel semplice possesso di denaro: consiste nella gioia della ricerca, nel brivido dello sforzo creativo. La gioia e lo stimolo morale del lavoro non devono essere ancora dimenticati nella folle caccia a profitti illusori.

Questi giorni oscuri ci costano molto, ma avranno molto valore se ci insegneranno che il nostro destino non è di essere serviti, ma di servire noi stessi e i nostri concittadini.


Il riconoscimento della falsità della ricchezza materiale come standard di successo va di pari passo con l’abbandono della falsa credenza che gli uffici pubblici e le alte posizioni politiche debbano essere valutate solo con l’orgoglio delle cariche o con il profitto personale; e deve finire la condotta nell’attività bancaria e negli affari che troppo spesso ha dato a un’attività importantissima l’aspetto di un comportamento negativo, insensibile ed egoista. 


C’é poco da meravigliarsi che la fiducia manchi, perché si basa solo sull’onestà, sull’onore, sulla giustizia dei contratti, sulla leale protezione, sul comportamento non egoista; senza queste basi, non sopravvive.


La ricostruzione richiede, comunque, non solo un cambiamento etico.  Questa nazione chiede fatti, e fatti immediati.
 Il nostro più importante compito è di rimettere la gente al lavoro.  Non è un problema irrisolvibile, se lo affrontiamo con saggezza e coraggio.

Potrà essere risolto da un lato tramite un reclutamento diretto da parte del governo stesso, trattando la questione come tratteremmo l’emergenza di una guerra, ma nello stesso tempo, attraverso questo impiego, portando a termine progetti estremamente necessari per stimolare e riorganizzare l’uso delle risorse naturali. 


Ci sono molti modi in cui il compito può essere agevolato, ma la soluzione non sarà mai resa più agevole semplicemente parlandone.  Dobbiamo agire, e subito.


Infine, nel nostro procedere verso la ripresa del lavoro, abbiamo bisogno di due salvaguardie contro il ritorno dei mali del vecchio ordinamento: ci deve essere una stretta supervisione sull’attività bancaria, il credito e gli investimenti, così che verrà posta fine alla speculazione con il denaro altrui; e deve essere prevista un’adeguata e sana circolazione monetaria.


Ricambierò la fiducia in me riposta con il coraggio e la dedizione che si addicono a questo momento.  E’ il meno che possa fare.  Chiediamo umilmente la benedizione di Dio.  Possa proteggere ciascuno di noi, possa guidarmi nei giorni che verranno.