Perchè dobbiamo essere a favore di una patrimoniale.

Unknownll volume globale del sistema bancario ‘ombra’ alla fine del 2011 è cresciuto fino a 67 trilioni di dollari (un trilione vale un milione di miliardi). Si tratta di dati ufficiali, peraltro fermi al 2011, dati da tutti acquisiti, accettati e ribaditi, pari a 8 volte il Pil mondiale. Significa che per ogni dollaro prodotto dal lavoro ve ne sono otto inventati dai meccanismi della finanza creativa.

Questa è oggi la misura della speculazione. Quale il risultato?  Le banche sono senza liquidità e rischiano di fallire e noi ancor più delle banche.  Possibile che non ci sia un cane che si chieda dove finiscono i soldi?

Eppure è molto semplice: in tasca ai capitalisti. Gente ricca oltre ogni tollerabile misura che fa fruttare, per definizione senza scrupoli, denaro dal denaro. Pecunia non olet.  Non sono contro i capitali, sono contro i capitalisti. Questa distinzione ormai si impone. Che i capitali servano alla finanza e che la finanza serva alla produzione non ci piove, ma che incalcolabili ricchezze finiscano nelle mani di una oligarchia di burattinai è per usare eufemismi intollerabile.

La redistribuzione del reddito e della ricchezza è la prima necessità per uscire dalla crisi. A livello mondiale. Come?  Con tasse di successione che non consentano di lasciare patrimoni in grado di condizionare la finanza e l’economia degli Stati sovrani. Poche migliaia di persone controllano l’economia e la politica di intere nazioni.  Il loro numero è destinato a ridursi e la loro ricchezza ad aumentare. Con tasse di successione che rendano gli uomini uguali alla nascita per censo e per ricchezza, qualcosa che conferisca un senso concreto a ciò che si vuole intendere quando si afferma che “tutti gli uomini nascono uguali”.

Siamo tutti complici, chi per interesse e chi, cosa forse ancora più grave, per mentalità. Non è certo una colpa essere ricchi, ma solo se la ricchezza viene impiegata a scopi sociali e non per finire a puttane. La saggezza del non res sed modus in rebus  è prorpio una verità il modo e la misura sono tutto.

Pensare globalmente e agire localmente,  la stella polare ci indica la direzione ma poi dobbiamo agire sulla terra. Non si tratta di un tutto e subito, ma di un qui e ora, di muoversi in modo determinato e univoco verso una direzione e questa direzione non può che essere l’uguaglianza patrimoniale. Di considerare buona ogni misura presa da qualsiasi governo solo se si muove nel senso di diminuire la forbice distributiva, in termini non solo di reddito ma anche di ricchezza, di ridurre l’indicibile disparità cui la follia turbo-capitalista ci ha consegnati.

Non lasciamo che si confondano l’equità e la giustizia con l’invidia. La sete di potere da parte della cosidetta ‘economia ombra’ non cesserà mai di tormentare il mondo fino a compromettere irreversibilmente  il destino di tutti noi e dell’intero pianeta. Se tutti noi non ci opporremo con risolutezza sarà la catastrofe. Altro che tramonto dell’occidente, dopo crisi e default dovremo abituarci anche ad ascoltare questa parola.  Solo la cultura ci salverà.




Molto rigore per nulla.

Un antico proverbio orientale recita: contro chi rema con la pagaia non occorrono coccodrilli più intelligenti. Poiché l’economia, ovvero una tecnica, si mostra ancora incapace di spiegare le proprie degenerazioni e di porvi rimedio, proviamo ad affrontare il problema su un piano culturale più ampio ponendoci dal punto di vista della coscienza: quello che (non) ho. Ma per procedere occorre fare un passo indietro.

L’etica protestante e lo spirito del capitalismo è un saggio dell’economista, sociologo, filosofo e storico tedesco Max Weber (1864 – 1920) in cui si identifica nel lavoro come valore in sé l’essenza del capitalismo e riconduce all’etica della religione protestante, in particolare calvinista, lo spirito del capitalismo.  In realtà Weber non intende sostenere che un fenomeno economico possa essere causato direttamente da un fenomeno religioso. Mette invece in relazione due fenomeni omogenei: la mentalità religiosa calvinista e la mentalità capitalista, affermando che la prima fu una pre-condizione culturale insita nella popolazione europea assai utile al formarsi della seconda.  Ma Weber infatti, come chiarisce lo stesso titolo dell’opera, si riferisce allo “spirito” capitalistico, a quella disposizione socio-culturale che, correggendo la spontanea sete di guadagno, induce il calvinista a reinvestire i frutti della propria attività per generare nuove iniziative economiche.  Si chiedeva quindi: se il capitalismo genuino è caratterizzato essenzialmente dal profitto e dalla volontà di reinvestire incessantemente quanto guadagnato, questo atteggiamento ha una relazione con la mentalità calvinista?  Questo potrebbe spiegare il ritardato avvento del capitalismo nei paesi rimasti cattolici, rispetto a quelli in cui si diffuse la Riforma?

Sostiene Weber: “In tutte le società pre-capitalistiche l’economia è intesa come il modo per produrre risorse da impiegare per fini non economici (produttivi): consolidare il potere od ottenere maggiore influenza politica, coltivare la bellezza proteggendo letterati ed artisti (mecenatismo), soddisfare i propri bisogni (consumi) od ostentare tramite il lusso il proprio status sociale. Nello spirito capitalistico invece il conseguimento di questi fini legati a valori extra economici sono del tutto secondari e trascurabili: ciò che importa è che il profitto sia investito e sempre crescente. Il capitalista vero è colui che ottiene la massima soddisfazione dal conseguimento del profitto in sé, non dai piaceri che il guadagno può procurare. Ma per consolidare una tale mentalità, contraria alle tendenze “naturali”, è stata necessaria, osserva Weber, una grande rivoluzione socio-culturale: la Riforma protestante, la quale iniziò per finalità religiose ma che involontariamente favorì il diffondersi della secolarizzazione”.

La mediazione della Chiesa tra il fedele e Dio presente nel cattolicesimo, nel luteranesimo era cancellata. Ogni credente diveniva sacerdote di se stesso. Nessun uomo, sosteneva Lutero, con le sue corte braccia può pensare di arrivare fino a Dio. Con Calvino c’è una soluzione: il segno della grazia divina diventa visibile e sicuro: è la ricchezza, il benessere generato dal lavoro.  Di conseguenza il povero è colui che è fuori dalla grazia di Dio.  Chi sa quali colpe egli ha commesso per essere stato punito con la povertà.  Questa giustificazione della ricchezza serve ovviamente a lavare la coscienza.  Rimane che il valore dato al lavoro come merito individuale è la spinta per un nuovo ordine sociale. Questa concezione calvinista del valore del lavoro per il lavoro stesso trova riscontro per Max Weber in alcune caratteristiche che differenziano le due religioni: mentre il cattolico celebra la messa o prega per ottenere qualcosa, il protestante ringrazia Dio per quello che ha già ottenuto, la sua preghiera onora Dio, ha un valore in se stessa non serve per ottenere qualcosa. Si prega per chiedere, cattolico, o per ringraziare, protestante. Mentre il cattolico aspetta la manna dal cielo, che cosa fa lo stato per me?  Il protestante opera in primis per lo Stato. Mentre le chiese cattoliche manifestano nell’oro e nella ricchezza dei loro edifici e delle cerimonie la gloria di Dio, al contrario quelle calviniste hanno il senso di sé in se stesse, sono severi luoghi di culto costruiti soltanto per pregare. Ostentazione  versus  raccoglimento.  Infine come la fede nel protestantesimo vale per se stessa, è del tutto separata dalle opere così nello spirito capitalistico il lavoro e la produzione sono valori morali in sé separati da ogni risultato esterno: il profitto va reinvestito perché il beruf (professione, mestiere) ha un valore in se stesso e non per i godimenti che possa procurare.

Possiamo ora azzardare una  prima e parziale conclusione. Pare ovvio che siamo sempre di fronte ad una degenerazione, come anche accolta l’ideologia capitalista.  L’accumulo di denaro che non porta alcun beneficio, anzi danneggia pesantemente l’economia succhiando sempre più e in crescendo linfa all’impresa fa del turbo capitalismo neoliberista il figlio degenere della morale calvinista e anche dell’ideologia capitalista.  La necessità di accumulare ricchezza per produrre è incontestabile e tuttavia come affermato nella morale calvinista lo spirito capitalista “correggendo la spontanea sete di guadagno, induce il calvinista a reinvestire i frutti della propria attività per generare nuove iniziative economiche”.  La sete di guadagno ha diversamente messo in modo crescente il profitto fuori dal mercato della produzione. Questa il motivo della crisi. Ed ecco perché solo la cultura ci potrà salvare.

 




Miseria e nobiltà

Madrid, 2012

Nulla distrugge lo spirito come la miseria. Ci si può permettere di essere ricchi laddove esiste benessere, non dove  esiste miseria. Quando le condizioni sociali non consentono la sopravvivenza anche solo in parte della popolazione, essere ricchi non è più un lusso, ancorché la condizione sia raggiunta per meriti, ma diviene un affronto, un’offesa, un oltraggio, un sopruso, uno sgarbo, un’insolenza.

Dove esiste miseria e disperazione (suicidi) le diseguaglianze si rendono intollerabili e la lotta contro la plutocrazia prende il nome di giustizia, non già d’invidia.

Una sottile linea rossa divide l’invidia dall’odio, l’odio nasce quando si offende la dignità.  Non siamo a questo punto, ma siamo su una rapida china e se la giustizia non verrà a breve frequentata dalla legge si aprirà un vuoto esistenziale che sarà riempito prima dal rancore e poi dall’odio, un odio di classe. Nuove sanguinose avventure potrebbero allora occupare la prima pagina dei giornali, avventure di cui   la dissennata politica del turbocapitalismo neoliberista si renderebbe moralmente responsabile.

Restituire sovranità agli Stati nazionali con un’alleanza di tutti i partiti e di tutti gli Stati contro l’ internazionale finanziaria è quanto mai al più presto indispensabile.  Solo la cultura ci salverà.




Il modello tedesco

Un adagio tedesco recita: “l’ordine è metà della vita, ma l’altra metà è più bella”. Fino a poche settimane fa era  all’ordine del giorno la critica  al rigore tedesco nella concezione del debito pubblico (conti in ordine in casa propria)  e ossessionati dall’incubo dello spread  ci si arrovellava sulle misure economiche e finanziarie più idonee.  Oggi, distolti dal rigore applicato dal nostro stesso governo, al quale si inizia a rivolgere le prime severe critiche,  abbiamo messo in evidenza con un’enfasi teutologica il confronto con il “modello tedesco”, sebbene limitato alla legislazione sul lavoro con riferimento in particolare al famigerato art.18. Amore e odio tra i nostri due popoli?

Il fatto è che il rapporto tra il popolo italiano e quelli di lingua tedesca ha un’origine bi-millenaria senza quasi soluzione di continuità  e dimentichiamo che  è stato spesso conflittuale, come lo sono inevitabilmente i rapporti con gli invasori. Prima i barbari per gli antichi Romani, poi gli Ostrogoti di Teodorico,  i Longobardi, Federico Barbarossa, Federico II, gli Austriaci ed infine l’occupazione del III° Reich.  Con le devastazioni di Roma, il dominio di intere  regioni, due guerre mondiali e la Resistenza c’è da supporre che qualche cosa sia rimasto nel  ‘comune sentire’  degli italiani. Nessuna nostalgia o giustificazione né alcuna benevolenza, ma consapevolezza del nostro passato sì.

Nei dibattiti televisivi sulla crisi economica e finanziaria ad alcuni commentatori è piaciuto osservare la coincidenza nella parola tedesca Schuld del duplice significato di debito e colpa, mostrando una meraviglia per altro mai sufficientemente spiegata.  Che in questa coincidenza linguistica si potesse riconoscere una profonda diversità culturale riconducibile  alla  etica protestante è una ipotesi che non sfiora le menti degli  ‘uomini del fare’.  Questi, siano essi appartenenti ad  aziende  o sindacati, posti di fronte alle differenze salariali tra gli operai della Fiat e quelli della VW, non  vedono le reali e profonde cause culturali che  spiegano tali risultati, tanto ne sono inconsapevoli vittime e portatori sani. Questa volta non vale il riconoscimento consolatorio del “così fan tutti”.

Ed eccoci di nuovo a considerare il “modello tedesco”, ma cosa veramente lo caratterizza?  Per alcuni la legislazione sul lavoro,   per altri la legge elettorale, il welfare state,  la qualità dei prodotti.  Si sostiene e ragione che un modello  non  possa essere esportato,copiato in un altro contesto, ma eventualmente innestato  con la  necessaria considerazione delle diversità dei fattori culturali in gioco. Ebbene, quali sono queste diversità culturali?  La cultura, senz’altro.  Non il lavoro, ma la cultura rende liberi:  die Kultur macht frei.




Perché abbiamo bisogno di un J.E. Hoover per combattere l’illegalità in Italia.

In una intervista al Wall Street Journal nel giugno 2010 il dirigente dell’ FBI di New York James Trainor, nel commentare i risultati ottenuti nella lotta ai reati commessi dalla criminalità dei colletti bianchi, dichiara: “stiamo applicando a questo tipo di reati gli stessi principi in vigore per la sicurezza nazionale”. Dunque, per il pragmatismo americano nessuna differenza di trattamento tra terroristi e i finanzieri truffaldini. E sempre a proposito di pragmatismo ricordiamo tutti la vicenda di Al Capone e il sorgere stesso della FBI con J.E.Hoover come esempi di determinazione e severità dell’azione di contrasto contro la criminalità in generale e gli evasori fiscali in particolare.

Ora, per quanto riguarda il reato dell’evasione fiscale di cui il nostro Paese vanta un primato tra le società occidentali, è bene   avere sempre presente come  esso procuri alla collettività un duplice danno economico e morale,  in quanto  sottrae  risorse allo Stato e  alimenta  la disuguaglianza tra i suoi membri.  Il sottrarsi, particolarmente in un regime di democrazia, dal dovere primario verso la comunità di “pagare le tasse” pone  l’individuo al di fuori  del diritto stesso di cittadinanza, in quanto il suo agire egoistico fuori e contro le regole tende a sovvertire i principi stessi su cui  la convivenza civile si fonda. L’evasore commette un crimine di gravità paragonabile a quella di  un attentato allo Stato e alle Istituzioni.

E’ da questa semplice considerazione che dovrebbe derivare la convinzione che la lotta all’evasione fiscale, come alla corruzione, deve essere concepita come una questione di difesa della Costituzione e dell’ordine pubblico, da trattarsi alla pari della lotta che lo Stato dichiara al terrorismo e alla criminalità organizzata, o dichiarerebbe a qualsiasi altro aggressore che minacciasse l’esistenza stessa dello Stato.

In Soldi rubati di Nunzia Penelope, libro inchiesta a carattere divulgativo che sebbene  di minor respiro letterario di Gomorra di Sergio Saviano  dovrebbe far parte a pieno diritto  della bibliografia formativa  minima delle persone per bene,  viene rappresentata e denunciata  la fenomenologia dell’illegalità presente in Italia, sottolineando in particolare i suoi alti ed insostenibili costi economici. Tuttavia, tra gli innumerevoli dati economici e finanziari e autorevoli citazioni riportate nel testo ve n’è una di particolare significatività, tratta da un rapporto della Corte dei Conti  ad opera di Massimo Romano, già capo dell’Agenzia dell’entrate col governo Prodi fino al 2008. Dopo aver ricordato come la nostra economia sia stata costruita su un modello di sottosviluppo, l’autrice riporta di Romano il seguente passaggio: ” In Italia si evade come forma di resistenza , come assicurazione sulla vita, o anche solo per rabbia. Non siamo in Germania, da noi manca l’etica calvinista e, dunque, anche la riprovazione sociale nei confronti degli evasori; c’è invece una solida sfiducia nei confronti dei politici, un generale disprezzo per la cosa pubblica che, unito ad un irriducibile individualismo, convince gli italiani a tenersi i soldi piuttosto che ‘darli a certa gente’ “. 




Art.18: sfruttati sul lavoro e socialmente poveri. I moderni schiavi.

Il Governo tecnico lancia un siluro “no-art.18 cruiser” contro PD e Sindacati, un siluro che colpisce nel mezzo le navi e le spacca a metà: due piccioni con una fava. Ora il dilemma: sono loro così idioti da non saperlo o siamo noi così idioti da accettarlo?

Sbaglia la Cgil  temendo un diluvio di licenziamenti, i licenziamenti, se pur ci saranno, saranno limitati, non è questo il punto. Quello che aumenterà sarà invece il ricatto sul lavoro. Ancora una volta il lavoro  concepito come ricatto sulla sopravvivenza: si lavorerà sotto pressione peggiorando il clima e la qualità della vita, dentro e fuori dell’ambiente lavorativo, con aumento del disagio e della conflittualità sociale. Sfruttati sul lavoro e socialmente poveri.

Far lavorare sotto pressione per aumentare la produzione, questo è il vero obiettivo. L’obiettivo non cambia e si chiama sfruttamento. Parola antica che non esce dalla testa dalla ”ideologia neo turbo liberista” che così continuando manderà senza dubbio in rovina il pianeta. Stanno procedendo mondialmente a tappe forzate.

Bersani, scuro in volto, gira la frittata sul solito ritrito cliché: “Pensiamo all’Italia”, pronto e rassegnato alla prossima batosta elettorale (amministrative). La battaglia in Parlamento sarà persa perchè la legge che introduce il ricatto sul lavoro si fonda essa stessa come ricatto politico sulla tenuta del Governo e dunque passerà, con il minor numero di consensi mai avuto fin qui, ma passerà. L’idea di far cadere il governo oggi è impraticabile dato il prestigio con cui Monti ha accreditato il nostro paese all’estero, di fronte allo ”imperialismo del mercato”, ma il prezzo è altissimo: accettare di essere i moderni schiavi. Solo la Cultura ci potrà salvare.




Per una repubblica fondata sul lavoro.

Quando penso alle differenze culturali e di mentalità. Mentre in Germania, paese tanto criticato per la sua ostinata e forse cinica difesa del rigore nei conti pubblici, l’AD del gruppo Volkswagen afferma che(…) E non dimentichiamoci che per vincere nel mondo dell’auto non contano solo i numeri delle auto prodotte e vendute, bensì anche la qualità del prodotto e la concertazione col sindacato“, nel Bel Paese Italia l’AD di Fiat dichiara: “L’unica cosa che conta sono gli stabilimenti e i lavoratori che abbiamo e se le macchine vengono vendute. Siamo una multinazionale. Andiamo dove si fanno affari, siamo nomadi“.

Siamo in piena decrescita, con la disoccupazione salita al 9,2%, le esportazioni ferme, gli investimenti fissi lordi scesi del 2,4% e i consumi arretrati ai livelli di 30 anni fa, e i Sindacati, vengono messi all’angolo dal Governo e costretti alla strenua difesa dello “articolo 18” come emblema di un diritto acquisito e alla rivendicazione del “posto fisso”, come fossero simulacri di una realtà perduta.

Al di là degli esiti del confronto in atto tra Governo e Sindacati sulla riforma del lavoro, lancio un appello alla sig.ra Camusso e sig. Landini, così articolato:

i) voi avrete pure le ragioni delle armi della critica, ma siete vittime della vostra stessa critica delle armi; a ottanta anni dalla Rivoluzione d’Ottobre liberatevi e liberate i lavoratori dall’ossessione del padrone concepito come nemico di classe;

ii) prendete atto che lo “scontro di classe” nell’era della globalizzazione dei mercati non  paga perché aumenta la conflittualità interna nel Paese, già caratterizzato da una debole economia, a fronte della crescente conflittualità  tra i mercati internazionali;

iii) i tempi richiedono che sindacati maturi siedano nei consigli di amministrazione, o di sorveglianza, per prendere parte attiva e responsabile nel governo dell’economia: dalla concertazione alla cogestione, perché il bene è comune.




La Nuova Frontiera

Ha fatto notizia la stima di Cisco secondo la quale nel 2012 i dispositivi mobili connessi al web saranno più numerosi degli abitanti della terra e nel 2016, solo fra quattro anni, saranno 10 miliardi contro 7,2 miliardi di abitanti: 1,4 apparecchi digitali per ogni abitante. Le previsioni per il 2016 indicano inoltre l’Asia come il continente che produrrà la metà del traffico dati nel mondo, con la Cina che ne produrrà il 10% e il Giappone quasi il 30%.

La notizia fa senso, ma ha anche un senso?

La risposta è sì, a condizione però di porre l’accento non tanto sul dato commerciale circa la diffusione del mercato di tali  apparecchi, quanto su quello demografico relativo alla crescita della popolazione mondiale: le proiezioni sulla popolazione mondiale prevedono che  nel 2045 saremo 9 miliardi!

Cosa dire di questa tendenza?  Come valutare un’altra previsione, assai più inquietante, circa la diffusione per esempio del mercato dell’automobile nel mondo nei prossimi decenni? Oggi vi sono 800 milioni di veicoli circolanti in tutto il mondo (11,4 auto ogni 100 abitanti) e diventeranno 2 miliardi nel 2030 (28,5 auto  ogni 100 abitanti).  Tra l’altro notiamo come l’Italia abbia oggi l’ indice di motorizzazione più alto del mondo: 61 veicoli ogni 100 abitanti.

Ora, quale politico o economista avrà mai il coraggio di dire che lo sviluppo dei beni materiali cui siamo abituati e con i quali continuiamo a misurare la crescita e il rilancio dell’economia, non è più sostenibile nei nostri paesi e ancor meno è estensibile a quelle aree del mondo come l’Asia, l’America Latina e anche l’Africa che in misura diversa presentano sviluppi quasi  accellerati di crescita economica e demografica?  Se applicassimo il tasso di motorizzazione italiano alla sola Cina (il sogno proibito delle case automobilistiche) avremmo, con la popolazione cinese oggi  vivente, 732 milioni di veicoli circolanti!

Quando si esternano le proprie analisi o visioni politiche bisognerebbe avere presente, quanto meglio possibile, quel che  accade nel mondo mentre si pensa.  Una delle complicazioni che la information tecnology comporta, con la sua vastità e velocità,  è che ci risulta sempre più difficile poter esprimere la propria opinione con sufficiente sicurezza.  Perciò, suggerisco di dare ogni tanto una sbirciatina, per esempio, al sito  worldometers.  Forse accrescerà un senso di vertigine di fronte alla vastità  dell’informazione, con relativa nausea per la velocità con cui si accresce e diffonde, ma una volta acclimatati in questa realtà virtuale, saremo affascinati da questa nuova frontiera della cultura.

La numerosità dei dispositivi digitali connessi al web non  rappresenta dunque  il sorpasso dell’intelligenza artificiale rispetto a quella umana, come titola un articolo  su un quotidiano, almeno fino a quando qualcuno non inventerà un’applicazione capace di connettere i processori di tutti i dispositivi come fossero un unico computer.

Essa ci fornisce piuttosto un indicatore di come e in quale direzione si sta evolvendo la cultura umana, ponendoci nuove e più sostenibili prospettive di sviluppo per le relazioni umane future.  L’alternativa al disastro è la realizzazione dell’Utopia, dove per esempio sarà meglio che circolino informazioni piuttosto che automobili e, fin quando avremo bisogno di status symbol,  sarà meglio  possedere un computer quantico che un’auto sportiva elettrica.

Diceva Oscar Wilde che “Una carta del mondo che non contiene il Paese dell’Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo, perché non contempla il solo Paese al quale l’Umanità approda di continuo. E quando vi getta l’ ancora, la vedetta scorge un Paese migliore e l’Umanità di nuovo fa vela.”

 




Più mi avvicino alla economia e più aumenta la paura.

Una cosa è chiara: la democrazia è in crisi. Scelte coraggiose sono impopolari, in caso di elezioni il popolo non voterà chi appoggia tali scelte.  L’uscita strategica della Lega serve da raccoglitore esterno. Rimane tuttavia che qualunque sia il governo che sostituirà Monti, di sinistra o di destra che sia, avrà brutte gatte da pelare.

È per questo che Berlusconi ha gettato la spugna lasciando fare ad altri il  “lavoro sporco”  in attesa del ritorno.  Osta solo l’età. Il suo opportunismo politico è ineccepibile, un fiuto da caimano.
Berlusconi probabilmente non lo rivedremo a meno che Monti non risani l’economia e si faccia poi da parte. Possiamo contare sulla seconda opportunità ma non certo sulla prima.

Le elezioni di aprile in Grecia, qualunque sia l’esito, vedranno espressa la volontà popolare e il fallimento da criptato come oggi appare, diverrà inevitabilmente palese.  Quello che accadrà dopo è difficilmente prevedibile. Ma povertà e disordini sociali di ogni tipo sono certi. Per certo inoltre si inasprirà quello che già sta accadendo in tutti i paesi dell’est, nonché in Portogallo, in Spagna e in Italia, il default è dietro l’angolo per tutti. E se Sparta piange Atene certo non ride, anche Francia, Germania e Inghilterra dovranno dire ai loro popoli “noi non siamo il Sud o l’Est dell’Europa”, come il nostro benamato Presidente ingenerosamente ha detto della Grecia.

Ce ne laviamo le mani e abbandoniamo tutti al loro destino con un “in fondo se la sono voluta” per lavare un po’ la coscienza. Quello che è certo è che è in atto un efferato piano turbo capitalista per mettere in ginocchio tutti i popoli da quello greco financo quello tedesco anche se ad accorgersene i paesi più ricchi tarderanno in proporzione alla ricchezza posseduta.

In conseguenza di tutto ciò solo un fronte internazionale di tutti i popoli potrà mettere fine al turbo capitalismo e alla carneficina.
La situazione è gravissima e bisogna stare attentissimi a non alimentare spinte nazionaliste mascherate da patriottismo e piuttosto spingere in tutti i modi alla formazione di un governo europeo che sappia mettere mano alla speculazione: un’internazionale socialista, naturalmente senza nessun richiamo al passato, si impone.

Occorre riflettere su quella che viene definita “volontà popolare” e comprendere fino in fondo che un popolo senza cultura porta al potere la mediocrità eleggendo avventurieri senza scrupoli che da sempre portano la nazione alla rovina. Essere dalla parte del popolo significa che non bisogna fare la volontà popolare. Questo ormai dovrebbe essere chiaro a tutti.  Al popolo si deve chiedere la fiducia, meritandola, ma mai fare quello che il popolo vuole sia fatto.  Bisogna avere Il coraggio della responsabilità.

Volere e sapere qual è il bene della nazione e convincere il popolo per il bene della nazione: questa è la politica. Il rischio ora è che in ogni singola nazione grazie al fallimentare sistema democratico arrivino al potere populisti di ogni sorta che irresponsabilmente guidino la nazione in avventure senza ritorno.

Vivo in una nazione in cui non è ancora chiaro a nessuno la differenza tra politica e partitica, tra chi difende con responsabilità il bene comune e chi difende senza scrupoli solo interessi di parte, in cui sono questi ultimi a essere maggioranza e ad essere eletti. Ancora non esiste l’idea né di bene comune, koinè culturale , né di Stato. Il deficit culturale in Italia è abissale, ancor più del debito, e solo con la cultura si potrà rimediare alla crisi.

Nessuno oggi può ragionevolmente pensare di sollevare Monti, il suo mandato deve arrivare a scadenza e probabilmente il suo stile e metodo dovranno proseguire, togliere la credibilità al paese oggi è un suicidio. Monti è un rospo che va digerito. Tuttavia nel contempo bisogna da subito lavorare per un’ internazionale socialista.  Appoggiare tutti gli stati che favoriscono questa idea.

Nel frattempo rimane che se non si aumenta la domanda aumentando i salari la produzione è inevitabilmente destinata a rallentare e la recessione e il default  sicuri. La redistribuzione del reddito è indispensabile, indispensabile un controllo della speculazione, indispensabile un aumento dell’occupazione. Indispensabile la cancellazione delle mafie dal territorio, indispensabile la lotta all’evasione fiscale, indispensabile la lotta alla corruzione, indispensabile il riequilibrio dei posti pubblici. Indispensabile industrializzare il sud per cambiarne radicalmente la mentalità senza creare contrapposizioni.

Indispensabile invertire gradualmente la tendenza: nazionalizzare anziché privatizzare assumendo nello stato personale altamente qualificato secondo merito che si fondi sulla preparazione quanto sull’onestà. Un problema quest’ultimo alquanto trascurato dalla politica, la questione morale non è un problema è il problema.

Analisi per bontà dicibili grossolane dibattono da secoli se sia meglio nazionalizzare o privatizzare prendendo ad esempio la ex Unione Sovietica e glui Stati Uniti d’America. Non ho parole per tale insipienza. Su inesprimibili insipienze si è fondata da sempre la scelta di campo. L’idea è sempre la stessa “se ci credono in tanti allora esiste”.

Diversamente, molto diversamente, rimane chiaro che se nello Stato vengono assunte persone che si fanno servitori dello stato, ovvero lavorano non per sé, ma per il bene comune, statalizzare è la soluzione ideale. Se contrariamente, come avviene di fatto, vengono assunti parenti, amici, conoscenti o vengono assegnati posti per voto di scambio e comunque persone che dello stato e di servire stato non hanno mai avuto idea né intenzione, non hanno mai avuto neppure idea dello Stato, dico della sua esistenza, o peggio lo vedono come un avversario, uno che porta via loro i soldi con le tasse, in una tale mentalità privatizzare rimane per certo l’unica via d’uscita.

Dato il basso livello di coscienza, privatizzare nel passato è sempre stata la soluzione in tutti i paesi della terra. Tanto più bassa è la coscienza tanto più si rende necessario privatizzare, lasciare ai mercati la guida mondiale. L’idea di togliere potere ai mercati senza far crescere la coscienza popolare, senza aumentare la cultura, statalizzando è da sempre a dir poco perdente e fallimentare. La cultura, la coscienza popolare rimane in entrambi i casi il problema.

Anche i privati non pensino di non far parte della comunità, di avere lo Stato come terzo se non come controparte. Mi tocca sentire discorsi del tipo” io pago la scuola privata, vado dal medico privatamente perché devo pagare le tasse?”. Al privato è concesso di arricchirsi solo se ha chiaro in mente di far parte di una collettività e di dovere alla comunità e alla sua storia la sua ricchezza. Nessuno si è fatto da solo, tutti dobbiamo tutto ai padri. Non a nostro padre, ma a quanto tutti si sono sacrificati per garantire a noi il nostro benessere a partire da Adamo ed Eva.

Solo per concessione della collettività il privato può ottenere il permesso di vivere e anche di arricchirsi e alla collettività deve comunque contribuire e alla collettività deve comunque rendere conto. E non solo pagando le tasse. Siamo tutti servitori dello Stato. Questa morale, per inciso “protestante”, è entrata a far parte del mondo anglosassone, sa va sans dire, e non a caso gli anglosassoni sono i paesi più avanzati non solo economicamente ma anche in civiltà. Questa morale deve entrare nella testa di Confindustria e di tutti gli associati, messa nello Statuto. Anche qui per chi ha inteso serve  cultura: il più grave deficit per ogni paese è la cultura e dunque senza cultura non usciremo dalla crisi.




Buon Anno ai giovani italiani.

Guardateli bene, ci guardano da fuori, da lontano e sembrano ricordarci cosa siamo in grado di fare in un ambiente diverso. Provo uno strano sentimento di orgoglio misto a vergogna.

Un gruppo di ricerca dell’Università di Bristol ha sviluppato il primo processore programmabile basato sulla fisica dei quanti. Un traguardo che potrebbe facilitare il decollo del nuovo paradigma computazionale.  La scoperta raccontata da tre italiani coinvolti nel progetto.