Molto rigore per nulla.

Un antico proverbio orientale recita: contro chi rema con la pagaia non occorrono coccodrilli più intelligenti. Poiché l’economia, ovvero una tecnica, si mostra ancora incapace di spiegare le proprie degenerazioni e di porvi rimedio, proviamo ad affrontare il problema su un piano culturale più ampio ponendoci dal punto di vista della coscienza: quello che (non) ho. Ma per procedere occorre fare un passo indietro.

L’etica protestante e lo spirito del capitalismo è un saggio dell’economista, sociologo, filosofo e storico tedesco Max Weber (1864 – 1920) in cui si identifica nel lavoro come valore in sé l’essenza del capitalismo e riconduce all’etica della religione protestante, in particolare calvinista, lo spirito del capitalismo.  In realtà Weber non intende sostenere che un fenomeno economico possa essere causato direttamente da un fenomeno religioso. Mette invece in relazione due fenomeni omogenei: la mentalità religiosa calvinista e la mentalità capitalista, affermando che la prima fu una pre-condizione culturale insita nella popolazione europea assai utile al formarsi della seconda.  Ma Weber infatti, come chiarisce lo stesso titolo dell’opera, si riferisce allo “spirito” capitalistico, a quella disposizione socio-culturale che, correggendo la spontanea sete di guadagno, induce il calvinista a reinvestire i frutti della propria attività per generare nuove iniziative economiche.  Si chiedeva quindi: se il capitalismo genuino è caratterizzato essenzialmente dal profitto e dalla volontà di reinvestire incessantemente quanto guadagnato, questo atteggiamento ha una relazione con la mentalità calvinista?  Questo potrebbe spiegare il ritardato avvento del capitalismo nei paesi rimasti cattolici, rispetto a quelli in cui si diffuse la Riforma?

Sostiene Weber: “In tutte le società pre-capitalistiche l’economia è intesa come il modo per produrre risorse da impiegare per fini non economici (produttivi): consolidare il potere od ottenere maggiore influenza politica, coltivare la bellezza proteggendo letterati ed artisti (mecenatismo), soddisfare i propri bisogni (consumi) od ostentare tramite il lusso il proprio status sociale. Nello spirito capitalistico invece il conseguimento di questi fini legati a valori extra economici sono del tutto secondari e trascurabili: ciò che importa è che il profitto sia investito e sempre crescente. Il capitalista vero è colui che ottiene la massima soddisfazione dal conseguimento del profitto in sé, non dai piaceri che il guadagno può procurare. Ma per consolidare una tale mentalità, contraria alle tendenze “naturali”, è stata necessaria, osserva Weber, una grande rivoluzione socio-culturale: la Riforma protestante, la quale iniziò per finalità religiose ma che involontariamente favorì il diffondersi della secolarizzazione”.

La mediazione della Chiesa tra il fedele e Dio presente nel cattolicesimo, nel luteranesimo era cancellata. Ogni credente diveniva sacerdote di se stesso. Nessun uomo, sosteneva Lutero, con le sue corte braccia può pensare di arrivare fino a Dio. Con Calvino c’è una soluzione: il segno della grazia divina diventa visibile e sicuro: è la ricchezza, il benessere generato dal lavoro.  Di conseguenza il povero è colui che è fuori dalla grazia di Dio.  Chi sa quali colpe egli ha commesso per essere stato punito con la povertà.  Questa giustificazione della ricchezza serve ovviamente a lavare la coscienza.  Rimane che il valore dato al lavoro come merito individuale è la spinta per un nuovo ordine sociale. Questa concezione calvinista del valore del lavoro per il lavoro stesso trova riscontro per Max Weber in alcune caratteristiche che differenziano le due religioni: mentre il cattolico celebra la messa o prega per ottenere qualcosa, il protestante ringrazia Dio per quello che ha già ottenuto, la sua preghiera onora Dio, ha un valore in se stessa non serve per ottenere qualcosa. Si prega per chiedere, cattolico, o per ringraziare, protestante. Mentre il cattolico aspetta la manna dal cielo, che cosa fa lo stato per me?  Il protestante opera in primis per lo Stato. Mentre le chiese cattoliche manifestano nell’oro e nella ricchezza dei loro edifici e delle cerimonie la gloria di Dio, al contrario quelle calviniste hanno il senso di sé in se stesse, sono severi luoghi di culto costruiti soltanto per pregare. Ostentazione  versus  raccoglimento.  Infine come la fede nel protestantesimo vale per se stessa, è del tutto separata dalle opere così nello spirito capitalistico il lavoro e la produzione sono valori morali in sé separati da ogni risultato esterno: il profitto va reinvestito perché il beruf (professione, mestiere) ha un valore in se stesso e non per i godimenti che possa procurare.

Possiamo ora azzardare una  prima e parziale conclusione. Pare ovvio che siamo sempre di fronte ad una degenerazione, come anche accolta l’ideologia capitalista.  L’accumulo di denaro che non porta alcun beneficio, anzi danneggia pesantemente l’economia succhiando sempre più e in crescendo linfa all’impresa fa del turbo capitalismo neoliberista il figlio degenere della morale calvinista e anche dell’ideologia capitalista.  La necessità di accumulare ricchezza per produrre è incontestabile e tuttavia come affermato nella morale calvinista lo spirito capitalista “correggendo la spontanea sete di guadagno, induce il calvinista a reinvestire i frutti della propria attività per generare nuove iniziative economiche”.  La sete di guadagno ha diversamente messo in modo crescente il profitto fuori dal mercato della produzione. Questa il motivo della crisi. Ed ecco perché solo la cultura ci potrà salvare.

 




Miseria e nobiltà

Madrid, 2012

Nulla distrugge lo spirito come la miseria. Ci si può permettere di essere ricchi laddove esiste benessere, non dove  esiste miseria. Quando le condizioni sociali non consentono la sopravvivenza anche solo in parte della popolazione, essere ricchi non è più un lusso, ancorché la condizione sia raggiunta per meriti, ma diviene un affronto, un’offesa, un oltraggio, un sopruso, uno sgarbo, un’insolenza.

Dove esiste miseria e disperazione (suicidi) le diseguaglianze si rendono intollerabili e la lotta contro la plutocrazia prende il nome di giustizia, non già d’invidia.

Una sottile linea rossa divide l’invidia dall’odio, l’odio nasce quando si offende la dignità.  Non siamo a questo punto, ma siamo su una rapida china e se la giustizia non verrà a breve frequentata dalla legge si aprirà un vuoto esistenziale che sarà riempito prima dal rancore e poi dall’odio, un odio di classe. Nuove sanguinose avventure potrebbero allora occupare la prima pagina dei giornali, avventure di cui   la dissennata politica del turbocapitalismo neoliberista si renderebbe moralmente responsabile.

Restituire sovranità agli Stati nazionali con un’alleanza di tutti i partiti e di tutti gli Stati contro l’ internazionale finanziaria è quanto mai al più presto indispensabile.  Solo la cultura ci salverà.




Il modello tedesco

Un adagio tedesco recita: “l’ordine è metà della vita, ma l’altra metà è più bella”. Fino a poche settimane fa era  all’ordine del giorno la critica  al rigore tedesco nella concezione del debito pubblico (conti in ordine in casa propria)  e ossessionati dall’incubo dello spread  ci si arrovellava sulle misure economiche e finanziarie più idonee.  Oggi, distolti dal rigore applicato dal nostro stesso governo, al quale si inizia a rivolgere le prime severe critiche,  abbiamo messo in evidenza con un’enfasi teutologica il confronto con il “modello tedesco”, sebbene limitato alla legislazione sul lavoro con riferimento in particolare al famigerato art.18. Amore e odio tra i nostri due popoli?

Il fatto è che il rapporto tra il popolo italiano e quelli di lingua tedesca ha un’origine bi-millenaria senza quasi soluzione di continuità  e dimentichiamo che  è stato spesso conflittuale, come lo sono inevitabilmente i rapporti con gli invasori. Prima i barbari per gli antichi Romani, poi gli Ostrogoti di Teodorico,  i Longobardi, Federico Barbarossa, Federico II, gli Austriaci ed infine l’occupazione del III° Reich.  Con le devastazioni di Roma, il dominio di intere  regioni, due guerre mondiali e la Resistenza c’è da supporre che qualche cosa sia rimasto nel  ‘comune sentire’  degli italiani. Nessuna nostalgia o giustificazione né alcuna benevolenza, ma consapevolezza del nostro passato sì.

Nei dibattiti televisivi sulla crisi economica e finanziaria ad alcuni commentatori è piaciuto osservare la coincidenza nella parola tedesca Schuld del duplice significato di debito e colpa, mostrando una meraviglia per altro mai sufficientemente spiegata.  Che in questa coincidenza linguistica si potesse riconoscere una profonda diversità culturale riconducibile  alla  etica protestante è una ipotesi che non sfiora le menti degli  ‘uomini del fare’.  Questi, siano essi appartenenti ad  aziende  o sindacati, posti di fronte alle differenze salariali tra gli operai della Fiat e quelli della VW, non  vedono le reali e profonde cause culturali che  spiegano tali risultati, tanto ne sono inconsapevoli vittime e portatori sani. Questa volta non vale il riconoscimento consolatorio del “così fan tutti”.

Ed eccoci di nuovo a considerare il “modello tedesco”, ma cosa veramente lo caratterizza?  Per alcuni la legislazione sul lavoro,   per altri la legge elettorale, il welfare state,  la qualità dei prodotti.  Si sostiene e ragione che un modello  non  possa essere esportato,copiato in un altro contesto, ma eventualmente innestato  con la  necessaria considerazione delle diversità dei fattori culturali in gioco. Ebbene, quali sono queste diversità culturali?  La cultura, senz’altro.  Non il lavoro, ma la cultura rende liberi:  die Kultur macht frei.




Anche Bossi tiene famiglia

Di fronte alla dissoluzione forse non della Lega ma sicuramente  della verginità dei  leghisti puri e duri, per anni osteggiata dal popolo padano di fronte agli scandali della ‘Romaladrona’, non vale più l’adagio ipocrita e consolatorio del così fan tutti. Si percepisce molta  acrimonia  negli articoli di questi giorni che riempiono i quotidiani e gli interventi nei socialnetwork: prima Berlusconi, poi Formigoni e adesso anche Bossi, il “terrone padano”!  Se ancora  qualcuno  volesse scandalizzarsi dovrebbe farlo non per gli eventi ma per la sorpresa e meraviglia che ancora si mostrano di fronte a simili eventi.  Sarebbe invece più utile e intelligente cogliere l’occasione (l’ennesima) per comprendere in quale ‘brodo di cultura’ stiamo annegando, che riguarda non soltanto i partiti e  i politici corrotti e corruttibili, ma ogni  aspetto della vita sociale e individuale.

Un velo caduto? Forse.  Temo tuttavia che ancora non ci siamo liberati dalla malattia del nicodemismo che tanto ha  influenzato i fondamenti stessi della politica,  dai  fasti rinascimentali ai nefasti inquisitori.  Diceva Torquato Accetto nella Dissimulazione onesta che “Il vero non si scompagna dal bene, ed avendo il suo proprio luogo nell’intelletto, corrisponde al bene ch’è riposto nelle cose; né può la mente dirizzarsi altrove per trovar il suo fine, e se ‘l vulgo si reputa felice in quello che appartiene al senso, ed i politici nella virtú o nell’onore, i contemplativi mettono il loro sommo bene in considerar l’Idee che son nel primo grado della verità, la qual in tutte le cose è la proprietà dell’essere a quelle stabilito, perché in tanto son vere in quanto son conformi al divino intelletto”.

Politici e opinionisti sono già pronti ad incantarsi su ciò che accadrà fuori dal ‘cerchio magico’: chi sarà l’Ulisse e chi l’Aiace Telamonio a disputarsi l’armatura di Achille (chiedo perdono ad Omero per l’oltraggioso paragone)? Cosa faranno, o meglio cosa diranno i partiti sopravvissuti per  accogliere tra le proprie fila le pecorelle smarrite?  Più federalismo, meno tasse, eccetera …

Siamo pronti per il prossimo scandalo?  La colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi. Buonanotte, e buona fortuna.




Newpro: i nuovi protestanti per una scelta etica nella destinazione dell’otto per mille

La divisione tra cattolici, laici e non credenti rappresentata  nel nostro Paese è una falsità ideologica: la divisione non sta nella fede, ma nell’etica. Siamo di fronte alla presenza di un tabu nazionale ancora infrangibile  che si manifesta come lapsus verbale: identificare  il concetto  di “cattolicesimo” con quello di “cristianesimo”.  Teologi, sacerdoti, intellettuali sembrano non avvertire  la necessità di distinguere tra ‘cattolico’ e ‘cristiano’ nelle loro argomentazioni, sebbene questi due termini rimandino a concezioni profondamente diverse, che oggi spiegano alcune nostre differenze culturali con altri paesi.  Come se cinque secoli fa nel continente europeo non fosse avvenuta quella Riforma Protestante che ha così fortemente contribuito a costituire una  svolta  selettiva culturale, inducendo una vera e propria mutazione  nell’evoluzione  del mondo occidentale. Dalla fede nell’autorità alla autorità della fede.

A 150 anni dall’Unità d’Italia il nostro Paese risulta ancora incompiuto.  Se  allora i Piemontesi  si imbatterono nella “questione meridionale” e  in un conflitto con lo Stato Vaticano, oggi lo Stato Italiano deve affrontare la criminalità organizzata, la corruzione e  contenere l’ingerenza della Chiesa cattolica nelle vicende politiche e istituzionali. Ma la storia non  ripropone le stesse occasioni e dunque non  possiamo avere il  rimpianto per la mancata riforma protestante in Italia, né tantomeno  vogliamo  una riedizione della presa di Porta Pia. Dobbiamo però prendere però che noi siamo cattolici (apostolici-romani) prima ancora di essere cristiani.

Quando trattiamo di una nostra disfunzione nazionale, e invero sono molte le occasioni per farlo, ci piace paragonarci  ad altri paesi europei o agli Stati Uniti  al fine assai poco nobile di trovare conforto quando possiamo riscontrare che “così fan tutti”.  Non ci rendiamo conto però che a parità dei valori di riferimento,  per esempio i valori della libertà e della democrazia, il  comportamento degli italiani  risulta ben diversamente fondato  da quello francese, piuttosto che  tedesco,  anglosassone ,  scandinavo o  americano.  Un esempio per tutti è  il rapporto del cittadino con lo Stato e la gestione della cosa pubblica, la cui differenza è così  profonda  da non sfuggire nemmeno all’attenzione di un distratto turista.  Si tratta della  mentalità, della cultura di un popolo o, per meglio dire, della cultura che fa degli uomini un popolo. E se è vero che il cristianesimo costituisce uno dei fondamenti della nostra cultura-identità occidentale è  però vero anche che il rapporto con l’autorità si presenta a noi italiani in modo perverso.

Consideriamo alcuni tratti  caratteristici della etica protestante: da una parte una cultura che pone l’ individuo in rapporto diretto con Dio (l’autorità della fede) e in rapporto con i propri simili attraverso l’identificazione e il riconoscimento nello Stato (il Diritto), dall’altra una cultura dove l’individuo si relaziona con Dio attraverso i Dogmi della Chiesa (la fede nell’autorità)  concependo una società come somma non d’individui ma di ‘famiglie’, monadi che vivono lo Stato come un’entità estranea ed ostile. Da una parte  persone in rapporto diretto con Dio e  tramite il diritto  con il proprio simile,  le quali,  avendo consapevolezza in quanto religiose di essere peccatori, sanno che si salveranno per sola grazia e quindi saranno condotte ad assumere un personale impegno nel mondo vissuto nella libertà e nella responsabilità.   Un impegno che si deve poter esprimere pienamente nella quotidianità della vita e nel lavoro, tanto per i religiosi che per i laici.

in occasione della denuncia dei redditi 2011 ci presentiamo come  nuovi protestanti (newpro) che intendono manifestare con un atto di protesta rivolto alla Chiesa di Roma la maturità raggiunta di persone consapevoli e responsabili, padroni della propria esistenza,  esprimendo al di qua delle nostre fedi religiose e convinzioni politiche la scelta dell‘ otto per mille a favore della Chiesa Valdese o della Chiesa Evangelica Luterana.

Ci rivolgiamo con il seguente appello alla buona volontà di tutti i cristiani, dei laici, dei non credenti, di tutti coloro che  vogliono essere e i loro figli  crescere come le persone che desiderano incontrare: sono un cittadino onesto e pago le tasse, scelgo di destinare l’otto per mille alla Chiesa Valdese o alla Chiesa Evangelica Luterana.




Perché abbiamo bisogno di un J.E. Hoover per combattere l’illegalità in Italia.

In una intervista al Wall Street Journal nel giugno 2010 il dirigente dell’ FBI di New York James Trainor, nel commentare i risultati ottenuti nella lotta ai reati commessi dalla criminalità dei colletti bianchi, dichiara: “stiamo applicando a questo tipo di reati gli stessi principi in vigore per la sicurezza nazionale”. Dunque, per il pragmatismo americano nessuna differenza di trattamento tra terroristi e i finanzieri truffaldini. E sempre a proposito di pragmatismo ricordiamo tutti la vicenda di Al Capone e il sorgere stesso della FBI con J.E.Hoover come esempi di determinazione e severità dell’azione di contrasto contro la criminalità in generale e gli evasori fiscali in particolare.

Ora, per quanto riguarda il reato dell’evasione fiscale di cui il nostro Paese vanta un primato tra le società occidentali, è bene   avere sempre presente come  esso procuri alla collettività un duplice danno economico e morale,  in quanto  sottrae  risorse allo Stato e  alimenta  la disuguaglianza tra i suoi membri.  Il sottrarsi, particolarmente in un regime di democrazia, dal dovere primario verso la comunità di “pagare le tasse” pone  l’individuo al di fuori  del diritto stesso di cittadinanza, in quanto il suo agire egoistico fuori e contro le regole tende a sovvertire i principi stessi su cui  la convivenza civile si fonda. L’evasore commette un crimine di gravità paragonabile a quella di  un attentato allo Stato e alle Istituzioni.

E’ da questa semplice considerazione che dovrebbe derivare la convinzione che la lotta all’evasione fiscale, come alla corruzione, deve essere concepita come una questione di difesa della Costituzione e dell’ordine pubblico, da trattarsi alla pari della lotta che lo Stato dichiara al terrorismo e alla criminalità organizzata, o dichiarerebbe a qualsiasi altro aggressore che minacciasse l’esistenza stessa dello Stato.

In Soldi rubati di Nunzia Penelope, libro inchiesta a carattere divulgativo che sebbene  di minor respiro letterario di Gomorra di Sergio Saviano  dovrebbe far parte a pieno diritto  della bibliografia formativa  minima delle persone per bene,  viene rappresentata e denunciata  la fenomenologia dell’illegalità presente in Italia, sottolineando in particolare i suoi alti ed insostenibili costi economici. Tuttavia, tra gli innumerevoli dati economici e finanziari e autorevoli citazioni riportate nel testo ve n’è una di particolare significatività, tratta da un rapporto della Corte dei Conti  ad opera di Massimo Romano, già capo dell’Agenzia dell’entrate col governo Prodi fino al 2008. Dopo aver ricordato come la nostra economia sia stata costruita su un modello di sottosviluppo, l’autrice riporta di Romano il seguente passaggio: ” In Italia si evade come forma di resistenza , come assicurazione sulla vita, o anche solo per rabbia. Non siamo in Germania, da noi manca l’etica calvinista e, dunque, anche la riprovazione sociale nei confronti degli evasori; c’è invece una solida sfiducia nei confronti dei politici, un generale disprezzo per la cosa pubblica che, unito ad un irriducibile individualismo, convince gli italiani a tenersi i soldi piuttosto che ‘darli a certa gente’ “. 




Avere un’ikea giusta contro l’orrore

Ci  è voluta un’azienda privata per dare una lezione etica ai politici nostrani, ma si tratta di un’azienda svedese, l’Ikea. E’ accaduto in Abruzzo dove,  opponendosi  alle  oltre tremila raccomandazioni pervenute da  politici per le assunzioni in un centro di prossima apertura, la direzione di Ikea così ha risposto per lettera ad una in particolare inviata da un Assessore (rimasto anonimo): “Gentile Assessore, per sua etica professionale Ikea non rilascia informazioni a terzi in merito a candidati ad opportunità occupazionali, e ragioni di privacy ci portano a comunicare solo ai diretti interessati il risultato delle selezioni. Il processo di selezione è da sempre impostato sulla base di criteri professionali attinenti alla competenza, alla motivazione e all’esperienza di chi si propone. Siamo certi che questo nostro atteggiamento, improntato alla valorizzazione del merito e a correttezza deontologica, sia ampiamente apprezzato sia dai nostri collaboratori che dai nostri clienti”.

Vi è da aggiungere un particolare che aggrava il giudizio su siffatti politici nostrani, se mai fosse possibile aggravarne il giudizio. Si tratta dell’arroganza che traspare dai modi con cui le raccomandazioni vengono fatte: richieste su carta intestata dell’Ente sugli esiti della selezione di alcuni candidati di cui si allega l’elenco. Una pratica che rivela  una mentalità tribale basata esclusivamente sul comando e sulla forza, quindi la violenza. Uno stato d’inciviltà che  concepisce  la carica politica come un mezzo per esercitare il proprio potere, per l’interesse proprio e degli affiliati subalterni.

Non esiste un ‘modello tedesco’ o ‘svedese’. Ricordo una trasmissione di  Report di Milena Gabanelli sul tema dell’energia  in cui venivano mostrate alcune esperienze  di risparmio energetico nei supermercati realizzate all’estero. Una direttrice di un supermercato tedesco in un paese del centro Germania dopo aver illustrato le modifiche eseguite nella struttura e i benefici ottenuti concludeva con il seguente commento: “(…) abbiamo raggiunto notevoli risultati, man non siamo ancora ai livelli raggiunti al Nord”.

Già, tutto il mondo è paese, ma cambia il livello. Solo la Cultura potrà salvarci.




Lacrime nella pioggia

Andiamo a rileggere l’ultima pagina della sentenza della Corte d’Appello di Palermo del 2 maggio 2003 (poi confermata in Cassazione) che, a quanto pare, in pochissimi hanno letto e moltissimi non hanno mai voluto o potuto conoscere:

“I fatti che la Corte ha ritenuto provati in relazione al periodo precedente la primavera ’80 dicono che il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha quindi coltivato, a sua volta, amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunziati; ha omesso di denunziare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza. […] Dovendo esprimere una valutazione giuridica sugli stessi fatti, la Corte ritiene che essi non possano interpretarsi come una semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante, ma indicano una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo. […] Si deve concludere che ricorrono le condizioni per ribaltare, sia pure nei limiti del periodo in considerazione [cioè prima della primavera del 1980, nda], il giudizio negativo espresso dal tribunale in ordine alla sussistenza del reato e che, conseguentemente, siano nel merito fondate le censure dei pubblici ministeri appellanti. Non resta, allora, che […] emettere, pertanto, la statuizione di non luogo a procedere per essere il reato concretamente ravvisabile a carico del sen. Andreotti estinto per prescrizione”.

L’Italia è un paese da sempre malato. L’ignavia è un vizio capitale che affligge da sempre gli umili, i poveri di spirito, come i potenti che dal popolo democraticamente vengono eletti e in animo diversamente non computano.

La verità non viene percepita, poi viene negata. La verità è fatta a brandelli.

E la sinistra non è stata da meno. Una forza politica che ha sempre fatto della «questione morale» un punto fondante, non dico che della vicenda dovesse farne una bandiera, ma quanto meno discuterne. Invece l’ha a dir poco rimossa. Anna Finocchiaro, ad esempio, ha liquidato come «inutile perdita di tempo la discussione sulle vicissitudini giudiziarie del senatore Andreotti».

Clemente Mastella, ineffabile ministro della Giustizia, ha dichiarato che «invece di parlare della sentenza di Palermo, ad Andreotti bisognerebbe fare un monumento». In questo Mastella è stato ampiamente soddisfatto. Sulla vicenda processuale si è innestato un processo di santificazione mediatica con la sapiente e sottile tessitura dello stesso Andreotti. Grazie alla connivenza di molta politica e di molta informazione egli è riuscito a far passare in secondo piano i gravi fatti evidenziati dal processo, fino a cancellarli.

Dice Cesare Zavattini che dopo “Sciuscià” (1946) di Vittorio de Sica, film epocale di cui Zavattini fu sceneggiatore, lui e Vittorio si aspettavano una indignazione popolare sulla condizione del carcere giovanile, una presa di posizione dei politici, dei giornali e dell’opinione pubblica. “Non accadde nulla” è il suo sgomento commento.

“La luna e i falò” di Cesare Pavese Paesino del cuneese in cui l’eroe fa ritorno dopo la guerra. Non ci si è accorti di nulla, 60 milioni di morti non hanno turbato le coscienze del villaggio, non c’è stato né un prima né un poi: gatti.

Più indietro ancora. “Sapevo che c’era la guerra, ma me ne sono accorta quando le bombe mi sono cascate sulla testa”, commenta una signora le bombe a Milano durante la seconda guerra mondiale.

Gian Carlo Caselli ancora si indigna di tutto il male che viene dimenticato e ancora lotta per la legalità. Ma nessuna legalità è possibile senza cultura, tra gente che non legge, non si interessa e vota. Sub lege libertas.

Gherardo Colombo invitato a “Che tempo che fa” riassumeva un lungo pensiero dicendo che “pagare le tasse è un obbligo”.  Mi permetto di dissentire “pagare le tasse è un dovere”.  A profani parrà cosa da nulla, ma tra la costrizione e la volontà passano millenni di storia dello spirito. Tra l’imposizione della legge e l’assunzione in proprio di un dovere ha luogo la “coscienza sociale”, un’abissale distanza: dalla dittatura alla democrazia.

La legge obbedisce alla giustizia che deve servire la verità. Non bisogna mai cessare di cercare la verità. La mancanza dei presupposti filosofici di temi come quello della legalità mette il figlio sul trono al posto del padre e la legalità alla verità è solo nipote. Si confonde così la mente di tutti su termini come legalità e democrazia non discriminando  tra obbligo e morale. Gli stolti penseranno a questo come a sofismi, le persone di ingegno ben sanno che su questi temi si gioca il futuro dell’umanità.

Se Dio è morto quale il nuovo mito?




Niente di personale.

C’è una battuta ricorrente nei film americani: un personaggio dialoga con un altro o anche compie un’azione  violenta a suo danno (magari lo sta uccidendo, sic!)  mentre pronuncia  la frase: niente di personale.  Soave distacco o puro cinismo? Niente di tutto questo, si tratta della concezione della professionalità  che connota  la struttura formativa degli americani, per altro riconducibile  alla più ampia cultura anglo-sassone, così come  quella scandinava.

Si parla spesso in Italia di meritocrazia come di una mancanza che ha limitato lo sviluppo del paese, ma per regolare i rapporti di lavoro sul merito occorre che le persone possiedano  professionalità.  E dunque cos’è la professionalità?

Essa non si limita al saper fare un lavoro o all’abilità di relazionarsi con gli altri.  Essa è piuttosto il frutto di un processo educativo e formativo che si manifesta  in una persona come la capacità di far coesistere la propria individualità in equilibrio con il ruolo sociale. Mentre nell’individualità possiamo riconoscere il talento e le abilità acquisite, nel ruolo  si possono riconoscere l’insieme dei modelli di comportamento attesi, degli obblighi e delle aspettative che convergono su un individuo che ricopre una determinata posizione sociale. Essere professionali (non professionisti!) significa, dunque, fare bene il proprio lavoro    con la consapevolezza dell’impatto  che il risultato  del proprio lavoro ha nell’ambiente e rispetto agli altri. Ancora una volta c’entra l’etica: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me.

Il termine ruolo deriva dal teatro antico, dove gli attori, sul palco, leggevano le proprie battute da un foglio di carta arrotolato denominato in latino rotulus.   Il termine rende bene l’idea della parte che ciascuno recita sulla scena della società, conformandosi alle aspettative ed alle regole stabilite.

Ma torniamo all’esempio americano per comprendere la cultura in gioco.  Ora, al di là dell’apparente franchezza nei modi e nel linguaggio con cui gli americani amano presentarsi,  si può osservare   nel loro impianto formativo il modello di una persona caratterizzata da una forte individualità accompagnata all’assunzione altrettanto forte del ruolo sociale.  E’ interessante riconoscere qui i tratti  caratteristici della etica protestante: se l’uomo è in rapporto diretto con Dio a maggior ragione lo sarà con il proprio simile.  Inoltre, sapendo di essere peccatore sa che si salverà per sola grazia e quindi sarà condotto ad assumere un personale impegno nel mondo, vissuto nella libertà e nella responsabilità.  Questo impegno  si deve poter esprimere pienamente nella quotidianità della vita e nel lavoro, sia per i religiosi che per i laici.

Niente di personale … ma per il bene comune.





I limiti dello sviluppo culturale.

Al termine di una analisi sulle misure anti crisi  adottate dall’attuale governo italiano, esposta da un economista professore universitario in  occasione di un corso di formazione di cultura politica, ho  domandato come si potesse spiegare il caso della Svezia, Paese che ad un elevato ed efficiente welfare state  associa una robusta crescita economica in termini di PIL. La risposta è stata immediata: “Eh, ma quelli sono protestanti … hanno un altro rapporto con il denaro!”.

In una recente intervista televisiva un noto ed autorevole esponente parlamentare del Pdl  si affannava a difendere il vincolo del matrimonio, da lui  considerato naturale, contro l’accettazione delle coppie di fatto, da lui tollerate ma considerate non meritevoli di tutela legale, e per supportare la propria convinzione, che senza  dubbi etici non esita come legislatore a voler far valere per tutti, portava l’esempio della Gran Bretagna, Paese dove secondo lui  “alla diffusione delle coppie di fatto, con conseguente crisi della famiglia, sarebbe correlata la diffusione  del disagio giovanile”.

Ho citato queste due esternazioni per indicare i due limiti culturali, superiore ed inferiore, che delineano lo spazio  evolutivo al cui interno si  distribuiscono le differenti mentalità  con le quali si  interpreta la realtà.

Il primo, quello dell’economista, rappresenta il limite superiore ed è interessante perché rispetto al comune sentire  ci appare ‘anomalo’, in quanto pur partendo da premesse tecniche-economiche, approda con un balzo ad un livello culturale più ampio, ponendosi quindi al di fuori  del sistema per poterlo spiegare.

Il secondo, quello del politico, costituisce invece il limite inferiore ed è interessante perché ci conferma la ‘normalità’ del pensiero ideologico, che comprende e interpreta la realtà solo se e nella misura in cui riesce a farla rientrare nel proprio convincimento, nel suo caso  il  cattolicesimo.