La cultura rende liberi.
Tra i dati sullo stato della istruzione e quindi della cultura italiana si è aggiunto il recente aggiornamento ISTAT sull’abbandono scolastico: il 18,8% degli studenti del biennio delle scuole superiori statali non prosegue gli studi, sebbene l’obbligo scolastico sia fissato a 16 anni. Il fenomeno (sottostimato perché non comprende i dati relativi alla Formazione Professionale) ci pone al primo posto tra i Paesi europei, con picchi oltre il 22% nel Mezzogiorno.
All’abbandono scolastico si aggiunge il fenomeno dell’ analfabetismo di ritorno, che in Italia, secondo i dati di una recente indagine, ha raggiunto le seguenti dimensioni:
“Il 71% della popolazione – ha detto De Mauro – si trova al di sotto del livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficolta’: il 5% non e’ neppure in grado di decifrare lettere e cifre, un altro 33% sa leggere, ma riesce a decifrare solo testi di primo livello su una scala di cinque ed e’ a forte rischio di regressione nell’analfabetismo, un ulteriore 33% si ferma a testi di secondo livello. Non piu’ del 20% possiede le competenze minime per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana.”
Del resto, pare che la conoscenza delle strutture grammaticali e sintattiche sia pressoché assente persino presso i nostri studenti universitari, che per quanto riguarda le competenze linguistiche si collocano ai gradini più bassi delle classifiche europee (come per altro avviene per le nozioni matematiche).
Lo sconforto di fronte a tali risultati fallimentari, grazie anche alle scarse attenzioni in termini d’investimento rivolte alla scuola da parte dei governi italiani, ci potrebbe autorizzare a vedere la nostra scuola come un campo di concentramento dell’ignoranza sulla cui porta d’ingresso potremmo scrivere “Kultur macht frei”.
Come è possibile ignorare questo stato di cose, che costituisce un vero allarme sociale, e continuare a parlare di futuro per i giovani, di rilancio del paese, di credibilità? Come è stato possibile che a rappresentarci economicamente nel mondo ci sia stato un Ministro che tanto ignorava e disprezzava la cultura da invitare i suoi sostenitori in tempo di crisi a farsene un panino?
Avevo già scritto che se con la cultura non si mangia, certamente con l’ignoranza si muore. Ma oggi, con l’economia in declino, pardon in recessione, con provvedimenti anti crisi ispirati alle teorie economiche neoclassiche che si concentrano sui tagli della spesa pubblica, con la perdita di credibilità dei partiti, l’allontanamento progressivo dei cittadini dalla politica, con una corruzione dilagata a tutti i livelli della convivenza civile (che crea danni economici per 6o miliardi all’anno, corrispondente alla metà della intera corruzione stimata per i Paesi europei) e con il deficit di democrazia delle Istituzioni la questione che si pone ormai con forza è su cosa fare leva per avviare il risanamento?
Per gli economisti l’economia si modifica con gli strumenti economici, per i politici la si guida e governa con la politica. Tautologie? No, sono espressioni della limitatezza del pensiero ideologico: una parziale verità che per convenienza di potere diventa assoluta. Per risolvere il problema si deve ragionare ed agire avendo presente una verità della logica: non possiamo risolvere i nostri problemi con lo stesso modo di ragionare che abbiamo usato per crearli.
L’economia, dunque, si può corregge solo superandola, considerandola non più come un fine, ma come un mezzo, uno strumento dell’uomo per regolare la propria esistenza avendo come fine il bene comune … sotto il cielo stellato, con la morale dentro di sé. La cultura è vivente e rende liberi.
Avviso di pubblicazione
Si prosegue su questo sito la pubblicazione di parti dell’opera inedita La Filogenesi culturale, di Walter Bocelli. Dopo l’ Introduzione un secondo capitolo dal titolo Fondamenti per una teoria della Filogenesi culturale. Come in un libro giallo letto al contrario: si comincia conoscendo l’assassino per scoprire poi il percorso che porta a smascherarlo.
Solo la cultura ci salverà.
Per gli antichi romani la virtus era il valore in battaglia, la virtus era il modello da imitare. Con un respiro “storico” più ampio mi sono chiesto quali fossero i modelli da imitare.
La forza fisica è stato il primo modello in uso sul pianeta. Dominare significava essere più grandi e con questo anche più forti. Per centinaia di milioni di anni il pesce più grosso ha divorato il più piccolo.
Ma già in natura una nuova virtus emergente faceva capolino: l’astuzia. Nell’uomo l’astuzia è presto divenuta sinonimo di intelligenza e tale è rimasta per centinaia di migliaia di anni fino ai giorni nostri.
Diversamente, qualche millennio fa, una nuova emergenza ha sancito che collaborare è meglio che competere. Si tratta della compassione, una nuova forza che riconosce nell’altro la persona e ne porta la responsabilità per un destino comune nella coesistenza.
È un emergenza che ha rivoluzionato lo spirito dell’umanità e a cui sola spetterebbe il nome di intelligenza. Nel tempo ha portato a dire “gli uomini nascono liberi”, poche parole che hanno sconvolto l’assetto politico, sociale ed economico del pianeta.
Portiamo dentro di noi tutto il passato: centinaia di milioni di anni di natura contro poche centinaia di migliaia di cultura e contro poche migliaia di storia. Eppure queste emergenze si sono mostrate vittoriose. Tuttavia, il passato non è ancora stato superato e cova dentro ciascuno sotto le ceneri. L’amore per il prossimo non ha visto ancora piena luce.
Ancora viene scambiata dai più la furbizia con la “intelligenza”, ancora resiste questa pesante eredità nella cultura. In tutte le culture, comprese quelle democratiche.
Il sesso, il possesso e l’astuzia (furbizia) rimangono spesso i soli valori sociali, soprattutto presso il “popolo” e la “cultura del popolo”, che costituiscono il fondamento di ogni regime e di ogni democrazia. Solo la cultura ci salverà.
C’era una volta una grave crisi economica …
Cose che sanno anche i bambini. C’era una volta …
… una grave crisi economica che rischiava di far perdere il futuro a tutta l’umanità
Socrate decise di recarsi dal governatore della BME. Il Governatore quando gli fu annunciata la sua visita si mostrò un po’ contrariato: “Che ci fa qui questo seccatore -pensò- che c’entro io con la filosofia?”. Tuttavia si trattava pur di Socrate e non riceverlo non sarebbe stato gradito ai Mercati. Tant’è.
S- Caro Governatore, mi scuso per apparire inopportuno, chissà quante cose hai da fare, ma prometto che non ti ruberò molto tempo. Sono qui per farti semplici domande e poiché come sai io mi occupo di filosofia e sono digiuno di economia ti prego di avere pazienza e risolvermi alcuni semplici quesiti.
G- Dì pure Socrate ti ascolto.
S- Tutto, se ho ben inteso, dipende dalla produzione mondiale, se la produzione aumenta tutti stanno meglio se diminuisce peggio.
G- magari fosse così semplice Socrate. Bisogna considerare la popolazione, il territorio, le risorse, la finanza …
S- Fermati G. te ne prego, forse mi sono espresso male, la mia domanda era semplice e pretende una semplice risposta, a tutte le cose che tu stai dicendo arriveremo un passo per volta. La mia testa è debole, non avvezza alla materia come la tua e se tu introduci troppe cose va in confusione. Riformulerò la domanda in modo che tu non abbia a rispondere che con un no o con un sì o se vuoi con un non so. In nome di Giove, la produzione mondiale deve aumentare o no?
G – Non saprei Socrate non mi sono mai posto questa domanda. Del resto io sono una figura che ancora non esiste.
S- Fai finta di esistere e rispondi.
G- Direi che deve aumentare.
S- Sei matto G. ma non pensi che aumentando la produzione le risorse di questo pianeta presto si esauriranno e che danneggerai così facendo non solo l’umanità ma l’intero pianeta che ci ospita?
G- Hai ragione Socrate a questo non avevo ancora pensato. Ma del resto noi viviamo qui ed ora e se la produzione non aumenta come sosterremo l’economia?
S- Qui sta il punto G. Che è questa economia?
G- Ma lo sanno tutti Socrate, è il mezzo per sfamare miliardi e miliardi di persone, che permette la sopravvivenza dell’umanità, è il cuore, il motore, ne va della nostra stessa esistenza.
S- Se permetti una piccola obbiezione non è solo il mezzo per sfamare ma anche quello per arricchire, arricchire pochi nei confronti dei molti, ma di questo ti chiederò in seguito. Ora vorrei farti un’altra domanda. La ricchezza è in proporzione al numero delle persone o no?
G- Ovviamente Socrate ma capisco dove vuoi arrivare e ti precedo. Il numero non è controllabile.
S- Non è questo che intendevo, intendevo solo dire chiederti se pensi che le risorse siano in funzione del numero.
G- Che domanda mi fai questo è ovvio.
S- Non parrà ragionevole quindi porre come obbiettivi arrestare la produzione e la crescita economica così come il numero delle nascite?
G- Si, ma come? questo è impossibile e fuori controllo.
S- Se permetti sul come parleremo in seguito per ora è sufficiente che concordiamo che questi sono gli obiettivi da raggiungere. Per utopici che siano o possano sembrare indicano pur una direzione, una direzione verso cui muoverci e muovere l’economia. Ne convieni?
G- Senz’altro.
S – Quindi potremo definire buona ogni iniziativa che va verso questa direzione e cattiva ogni iniziativa che ce ne allontana sei d’accordo?
G. Si Socrate. Ma dove vuoi arrivare?
S- Concludendo se la produzione non deve complessivamente aumentare perché si chiede ad ogni singolo stato di aumentare la crescita economica? Queste indicazioni vanno verso i nostri obiettivi o nella direzione contraria?
G. Nella direzione contraria ovviamente. Del resto …
S- Capisco che cosa mi vuoi dire G. del resto per ora dobbiamo risolvere la crisi e senza aumentare la crescita non sappiamo come uscirne. Del resto G. anche se riuscissimo a uscirne aumentando la crescita finiremmo col bruciare tutte le risorse e distruggere il pianeta. Capisco i tuoi dubbi e anche il tuo imbarazzo. Io stesso se pensassi anziché alla filosofia all’economia non saprei cosa fare. Ma io come sai mi intendo un po’ di filosofia e magari con la filosofia ti posso un po’ aiutare?
G- Che dici Socrate che cosa centra l’economia con la filosofia, in questo momento poi, un momento di crisi mondiale in cui tutti dobbiamo venirne fuori risolvendo problemi economici tu te ne vieni fuori con la tua filosofia? (Mancava poco lo cacciasse in malo modo)
S- Non ti adirare G. Se avrai pazienza ti dimostrerò che la filosofia è cosa per cui le cose sono e anche l’economia è?
G. Ti ascolto, ma ho poco tempo.
S. Non ti preoccupare non ci vorrà molto. Tu come Governatore della BME devi pensare per il bene del pianeta o per il bene di ogni singolo stato?
G- Non mi fare domande sciocche.
S- Scusami, ma se ovviamente dovrai pensare al bene di tutti dovrai ammettere due cose, una che pensi al bene, e due che pensi al bene di tutti ovvero non più a quello dell’uno che a quello di una altro e questa è la giustizia e che pensare al bene dell’uno piuttosto che al bene dell’altro è disonesto e questa è la disonestà.
Che dovrei pensare di te se per un tuo personale tornaconto favorissi uno stato piuttosto che un altro?
G- Che sono un disonesto. Queste sono banalità che si direbbero a un bambino.
S- Non ne sarei così sicuro. Ma dato che a te sembrano banalità sappi che queste banalità sono all’interno della morale della giustizia e non dell’economia, fanno parte cioè della filosofia.
Di queste banalità e di questo bambino tutti sembrerebbero essersene dimenticati. Ora ti faccio un’altra domanda. Se come riconosci queste banalità sono guida di tutta l’economia , tu ritieni che l’economia debba seguire giustizia e morale o che giustizia e morale debbano seguire l’economia?
G- Socrate io ho altro a cui pensare che alla tua filosofia.
S- Capisco bene G. quando si centra il problema e il problema è sempre la distribuzione, tu fuggi e chiami in dispregio giustizia, morale e filosofia. Ben sapendo che la soluzione di tutti i problemi è semplicissima e sempre la stessa togliere ai ricchi per dare ai poveri affinché tutti gli uomini siano uguali in ricchezza e dignità. In questa direzione tu non vorrai mai marciare e riempirai la testa di società di Rate, di Spread, di disavanzo pubblico, di debito pubblico, produzione, ricchezza, mercati, borsa, cloud e quant’altro. Intendiamoci G, tutte cose reali ma verso le quali tu hai un’unica posizione non perdere il tuo e non farlo perdere alla gente come te.
G- Stupido utopista pensi che espropriando i ricchi di tutta la loro ricchezza risolverai la crisi?
S- Si lo penso, penso che quella sia la direzione e che ogni iniziativa che vada in quella direzione sia buona mentre le altre che conservano ai ricchi la loro ricchezza siano cattive …
… Socrate fu messo alla porta. Il Governatore era di malumore. Un pedante filosofo gli aveva guastata la giornata con la sua filosofia. Era ora di tornare a pensare alle cose serie: finanziare le banche o lasciare che qualcuna fallisse?…Ma sono tutte collegate … rischio l’effetto domino … Intanto una folla si era radunata in attesa di Socrate e Socrate come promesso riferì il colloquio. Si levarono applausi. E come al solito Socrate concluse: “Non è me che dovete applaudire ma la verità”. Sospirò e aggiunse: “Ma anche voi non abbiate in amore il consumo amate la povertà, cercate la gente e non la merce”.
L’usuraio disprezza la filosofia e vive dei frutti del suo denaro.
In fondo le cose sono semplici. Si potrebbe sintetizzare dicendo che il mondo dell’economia deve lottare contro il mondo della finanza per limitarne o impedirne gli eccessi. Parafrasando, la finanza è fatta per l’economia non l’economia per la finanza.
Lavoratori e imprenditori dovrebbero allearsi per impedire alla finanza il default, ovvero impedire di rovinare sia i lavoratori nella persona che l’economia nelle istituzioni.
Bisognerebbe impedire alla finanza di far lavorare il denaro, l’arricchimento in assenza di lavoro; di permettere la “libera” speculazione. Opporre il libero mercato alla speculazione. Libero mercato e speculazione non sono la stessa cosa. “Libero mercato” è un concetto liberista povero e da rivedere.
Barare.1
È noto a tutti che per vincere a qualsiasi gioco c’è un metodo infallibile: “barare”. Barare al gioco consente di arrivare ai risultati meglio e prima di altri.
Questo sistema di vita, di sistema di vita si tratta, si chiama disonestà ma storicamente prima di giungere a intendimenti morali si chiamava “astuzia”. Molti, moltissimi, disonesti (che c’entra la morale con l’economia) ancora lo chiamano realismo, l’affarista è un uomo pratico.
Disonestà e realismo stanno spesso a confine. Senza il sostegno di una morale sono, come anticamente sono stati, intercambiabili.
Anche sul termine “realismo” si dovrebbe molto discutere, ma qui mi preme di analizzare un altro termine: l’astuzia. L’astuzia non è un valore come tutti gli altri.
Ulisse vinse le armi di Achille superando nell’agone il più possente Aiace, grazie all’astuzia. L’astuzia nel tempo ha prevalso sulla forza fisica e in luogo della forza fisica si è fatta virtù. Dalla notte dei tempi, la furbizia ha fatto dell’uomo il re degli animali.
L’astuzia ci ha differenziato dalle bestie e fatto di noi un nuovo regno. “Callidus” (astuto) è stato per millenni e millenni, non secoli ma millenni, sinonimo di intelligenza e ancora come tale è tenuta dai più, dai patrizi come dal popolo. Pensando “astuto, furbo” un malizioso sorriso si dipinge agli angoli della bocca e gli occhi si fanno più sottili.
È talmente connaturata alla nostra cultura che la furbizia è entrata per così dire a far parte del patrimonio genetico. Un valore trasversale, posseduto e tenuto in stima da tutti; un esistenziale entrato a far parte del sentimento comune e che per questo permette la comunicazione.
Nel bene o nel male al simpatia per questa malcelata virtù con la nostra complicità avvantaggia il potere. Il capo non è altro che il più furbo tra i furbi. Il più furbo di tutti. Stima, ammirazione, riconoscimento o in misura inversamente proporzionale invidia.
Vince chi più è astuto, tutti i mezzi sono leciti per millenni e millenni barare è norma, regola di vita, dal signore al servo.
Importante è non venire scoperti e se si è scoperti: negare, mentire, comprare, corrompere. O anche uccidere. Quanto di del tutto e di ogni cosa secondo epoca e costume.
La morale? Un’impicciona. “Lo fanno tutti”. “Chi al posto suo non lo farebbe”, “Fossi io al suo posto …” sono adagio popolari; le giustificazioni di tutti. Certo non lo farebbero Cristo e santi, ma appunto … l’imitatio Christi non è cosa.
In tutte le epoche quindi mentire, comprare, corrompere e se il caso anche uccidere fa parte del gioco. È stata la norma per tempi così lunghi che si sono tutti abituati e assuefatti a parlare della corruzione come a parlare del clima, del vento. Molti neppure ti ascolano. Gli scandali? Talmente tanti e tali da indurre la noia. Del resto c’è sempre stata e non solo ora e non solo qui. “Radio 24” se parli di corruzione, neppure ti ascolta. La corruzione non interessa a chi parla di economia. “… corruzione, sì vabbé, poi …”. Parliamo di cose serie. Arroganza.
La disonestà è una malattia endemica, non una variabile interveniente considerata da tutti una costante su cui si deve ma è difficile se non impossibile agire. Fatalismo.
Chi parla di malcostume, di conflitto di interessi, di corruzione sono piagnoni, Savonarola di contorno. Magari da fare all’occasione arrosto. L’astuzia e le sue disoneste conseguenze sono dunque da sempre. Sono un positum storico. Prendiamone atto.
Ma dovremmo ugualmente prendere atto che strada facendo l’astuzia, fatta ormai anche dal popolo virtù, trova nemici. Si fa luce nella storia una novità. Così come la forza fisica ha dovuto fare posto all’astuzia (milioni di anni per questo) ora l’astuzia si trova di fronte un nuovo più avanzato avversario. Ciò che costituisce emergenza, la novità, è ora un diverso intendimento dell’ intelligenza che vede nella collaborazione anziché nella competizione la possibilità della coesistenza, nasce la morale.
Difficile darle un nome perché ancora oggi stenta ad essere riconosciuta. Tuttavia è un faro che illumina e fa di un popolo quel popolo e per di più definisce di quel popolo i grado di civiltà, un valore storico assoluto. Tanto più un popolo è civile più possiede questo nuovo ingrediente. Un nuovo alimento per lo Spirito. La civiltà di un popolo da questo nuovo ingrediente per intero dipende. Forse è sulla punta della lingua di tutti ma di certo è nella testa di pochi, pochissimi. Oggi degenerato e per certo non in uso.
Rappresenta nel singolo come nelle istituzioni quella che si definisce coscienza politica, la convivialità, l’essere nella coesistenza. Un discorso che pretende un non indifferente impegno filosofico. Questa coscienza definibile comunque come coscienza politica, rappresenta il saper essere da parte dell’individuo nel sociale; un elemento costitutivo della cultura della nazione, il suo patrimonio. La considerazione del prossimo, dell’altro da sé, diviene fondamentale.
Pensate or per voi se avere fior di ingegno che cosa possa significare in questa prospettiva essere guidati da un presidente del consiglio che afferma tra i denti “Chi non fa il proprio interesse è un coglione”. Opinione e sentimento peraltro condiviso dai più, anche dal popolo. Vedi undicesimo comandamento: “fatti i cazzi tuoi”. Risatine d’obbligo. La volgarità spinge sempre al riso.
La Coscienza, quella politica, implica diversamente un fare per gli altri, un “amore per il prossimo”. La compassione cui la coscienza politica si ispira fonda la morale, implica di contro all’individualismo un fare per gli altri, rendere un servizio nell’interesse di tutti. Un sentimento in essere nella storia solo di recente, poco sentito da se dicenti cristiani che vestono i simboli non occupandosi della cosa (la res, la quiditate, l’essenza).
L’intelligenza politica che dovrebbe essere legata all’intendimento del bene comune, viene declassata ad arte per produrre il consenso, arte per incastrare i gonzi. Confusione tra polis e parte, tra politica e partitica. L’intelligenza politica rimane pertanto defraudata dal linguaggio e dalla prassi, del suo intendimento; rimane pressoché sconosciuta e quanto mai bistrattata nel nostro bel paese soprattutto da parte di chi sta al potere: una casta che offre modelli di vita, nelle persone che rappresentano il potere come le istituzioni, che depistano verso bassi ideali, assolutamente egoistici, al di fuori di qualsiasi morale.
Il massimo della vita: andare a puttane. Una pornopolitica senza alcun riferimento al sesso o di cui il sesso rappresenta l’aspetto meno interessante è più marginale, se nonché su questi bassi ideali rischia di andare a puttane l’intera nazione. Ancora una volta si confonde moralismo con morale.
Rimane ovvio che chi è al potere deve proporre una strada, una condotta di vita, una strada che sia per tutti e condivisibile da tutti su valori i più alti possibili. La persona conta, conta la sua credibilità.
Di contro la polis, la coinè, il bene comune, la civiltà, si nutre solo ed unicamente di questa emergenza, di questa luce, la compassione, una nuova forma di intelligenza che in sostituzione dell’astuzia e della competitività, vede nella collaborazione il suo ideale. Si tratta della “Cura”, l’Essere per il mondo.
Questa la Coscienza, questo lo Spirito, questa la Cultura.
Per inciso, il termine da me usato, compassione, nulla a che vedere con la religione anche se posso dirmi felice che sulla compassione le religioni anche se con intendimenti diversi in parte concordino. Dalla sua nascita, lontana ma di certo storicamente più recente, astuzia e compassione entrano in competizione segnando attraverso il prevalere ora dell’una ora dell’altra la civiltà di un popolo.
Furbizia e intelligenza dello spirito, onestà intellettuale, entrano in conflitto. Quello che c’è ancora da rilevare è che questa battaglia è battaglia interiore, di ciascuno di noi, di ogni coscienza. I termini, furbizia e intelligenza, si confondono nella quotidianità in tutti, una chiara distinzione non è ancora neppure nei dizionari. Tutti utilizzano ora l’una ora l’altra con un solo fine: la convenienza, per farsi belli o brutti secondo le circostanze. I più mentono a se stessi. “L’occasione fa l’uomo ladro”. Risatine d’intesa. Tutti. E chi non ride non è di spirito. Siamo tutti complici.
Ebbene, la menzogna e la falsa coscienza sono il cibo preferito da poteri forti e autoritari, quelli che cercano il consenso ai livelli più bassi dello spirito. Disonestà intellettuale, pensiero debole e basso sentire sono il principale nutrimento di poteri disonesti.
Per questo la cultura, la cultura data al popolo è rivoluzionaria.
Se non ci convinceremo di questo ogni movimento progressista che tratti il sociale solo in funzione dell’economia (economicismo = economia senza cultura) è destinato a fallire.
Si dovranno imporre provvedimenti impopolari per risanare i bilanci per un tempo così lungo da scontentare il popolo che in assenza di cultura tornerà a rieleggere “il venditore” alle successive elezioni. Il nuovo Mida non esiterà a trasformare in merda l’oro dello Stato per accontentantare il popolo e così sia nei secoli dei secoli … un gioco senza fine. Alternanza di potere? Democrazia? Solo la cultura può porre fine.
Barare.2
Il gioco è barare. Chi non sa barare è fesso. O coglione, a scelta. Bari siamo tutti e qualcuno barone, più bravo, migliore nel gioco di altri. Mida il più bravo, riconosciamoglielo. Chi non sta al gioco sono solo gli invidiosi.
Perché il gioco funzioni si gioca al ribasso. Più grande è l’ignoranza, i valori dello spirito sono bassi meglio si riesce a barare. Lo stupido e il complice. Tra i passati valori riemerge la furbizia.
Grazie alla condivisione di questo basso sentimento il grande comunicatore vende i suoi prodotti: soldi, sport e gnocca, i “nuovi” valori. L’ultimo poi è talmente radicato da appartenere anche alle bestie è per certo anche nel DNA. A chi non piacciono?
Chi dice di no è un ipocrita, recita l’uomo del fare o è un intellettuale, una genia ai margini, in genere non pericolosa ma da tenere d’occhio. Spiacente sconfessarlo, piace anche a noi. Ma nessuna illusione: neppure sotto, sotto ci intendiamo.
Finché il popolo li avrà in odio e con essi avrà in odio la cultura per il potere nessun problema. Nessun problema se anche e finché partiti politici e sindacati guarderanno con sospetto la cultura. Finché della cultura non avranno inteso la risolutiva sostanza.
Mida è un uomo del popolo che bene conosce il popolo e che del popolo fa parte. Sale al potere e trova a sostegno il popolo, la sua complicità, il suo maggior alleato. È stato democraticamente eletto dal popolo. Questo è accaduto e sempre accadrà finché il popolo non capirà Cultura e la sua importanza.
Essere furbo è la maggior calamità che oggi possa colpire un uomo! Il raggiungimento dell’onestà intellettuale è un obiettivo imprescindibile per ogni società che voglia chiamarsi civile, non è un soprammobile per il soggiorno è un pilastro per le fondamenta! Questo lo Spirito, questa la Cultura.
La dignità e la distribuzione del reddito da questo dipendono.
Fare una scelte politica non significa quindi di schierarsi, non si tratta di un appartenenza ideologica, ma di ritrovarsi insieme a persone che la pensano tutte nello stesso modo, e questo modo riguarda un sentire, un sentimento comune che si può attestare su diversi gradi di civiltà. Elevare il sentimento popolare corrisponde a maturare il progresso sociale ed anche economico della nazione.
L’uomo pratico penserà ora che personalmente sia contro i soldi, lo sport e la gnocca, mentre ciò che desidero è solo che questi valori trovino la loro giusta dimensione per lasciare spazio a idealità più alte come la coscienza, la compassione e l’amore e che i predetti valori da queste idealità vengano tutt’altro che annullati ma rivisitati.
La cultura popolare ferma emotivamente all’astuzia non arriva alla polis, vede nella politica solo il marcio che colpisce le istituzioni come il marcio delle istituzioni, e se ne un alibi: “la politica è una cosa sporca”, per votarsi al disimpegno. Il livello è tanto basso che si confonde il fare politica con il mettersi in politica. Avviene così che il “sentimento popolare” si rende nell’ignoranza complice dei carnefici; costoro sono in genere gente inesperta di politica che porta in politica mentalità affaristiche che affascinano l’uomo della strada, l’uomo pratico, come loro l’uomo del fare.
Non da ultimo ma da sempre le vittime abbracciano i carnefici. Saltano sul carro del vincitore. Meno si dice, più i valori comunicati sono bassi e più gente si incontra. Sul sesso poi ci incontriamo tutti. Sulla via del fare solo “viva la gnocca” può sconfiggere “forza Italia”. Non la domenica.
Le banche
Per realismo l’uomo del fare mira ai risultati, ovvero al profitto e per realismo ad un particolare profitto: il proprio. La logica è elementare: “se le cose vanno bene … bene per tutti; e se vanno male io di certo non ci rimetto”. Termometri di massima.
Questa grande astuzia regge i business men, le banche e regge il mondo.
Il risultato è che un flusso continuo di capitali viene sottratto alla circolazione, al bene comune, alla comunità per finire nelle tasche di privati cittadini che si arricchiscono a dismisura fino a possedere la stragrande maggioranza della ricchezza e come utopia il mondo. Aneurismi che sottraggono linfa in circolo che impediscono la libera circolazione e a volte rompendosi provocano emorragie interne.
L’uomo del fare, non sopporta regole che limitino il profitto. Tutto ciò che è contro il mercato (di mercato parla anche per la finanza) è filosofia. Il mondo del resto è palesemente nostro. Tutti lo possono vedere. L’economia è al struttura il resto è filosofia.
“Libertà di guadagnare, e di guadagnare senza limiti” un assioma in essere da sempre: “ un imperativo categorico nella mentalità di ogni uomo del fare. Dal capitalista al servo. L’dea della rinuncia un’eresia. L’uomo del fare ha un’unica dimensione, un’unica scala, quella economica. Unica variante: una diversa distribuzione, ma anche questa con la condivisione e la complicità di tutti. Intendiamoci l’uomo del fare non ha una grande intelligenza, ovvero coscienza politica, ha un’intelligenza pratica e la pratica, lo sanno tutti, vale più della grammatica.
“Una cosa o si può fare o non si può fare se si può fare quanto costa”. “Importante” diranno altri “non è se si può o non si può fare, ma se si riesce o non si riesce a fare”.
Queste alte filosofie reggono il mondo della finanza e le sorti dell’umanità. La morale, le regole, intralci, non computano. Deregulation, liberalizzazione. Che sia la morale quella coscienza politica che ha permesso la civiltà neppure lo sfiora. Tutto per loro è stato fatto da loro, dall’economia.
La morale non sanno cosa sia, la morale è un fatto privato: “Se vado a puttane sono cazzi miei”, economia e puttane ecco tutto. Volgarità che il volgo ama e condivide. Chi si sente chiamato in causa imputet sibi.
Della politica l’uomo del fare si occupa solo se rende, rende a lui personalmente. Per il profitto è disposto, suo malgrado, a mettersi anche in politica e far vedere ai politici quelle mummie, come lui, il grande comunicatore, raggiunge in breve il popolo, la maggioranza. E ci riesce. Questa la mentalità, questa la cultura. È la nuova cultura, la cultura vincente.
Dante non fa audience, e Sgarbi paladino della cultura si fa complice dell’ignoranza di gente che pensa a fare panini della Divina Commedia. La cultura ci parla con la bellezza e con l’amore. Di poteri ignoranti i più grandi alleati sono la disonestà, il pensiero debole e un basso sentire, valori o disvalori, indispensabili da condividere con il popolo per la vittoria.
Di contro combattere l’ignoranza, la disonestà, il pensiero debole e un basso sentire, devono essere prima e al di sopra di qualsiasi necessaria manovra economica, nel programma di ogni movimento progressista. Non vedo nulla di tutto questo in nessun programma, non vedo l’alba. Non vedo il sol dell’avvenir. In fondo è semplice, ogni volta che ci alziamo dal letto basta chiedersi per ogni azione, è conveniente o è la cosa giusta. La cultura contro il capitalismo.
L’uomo del fare
Per l’uomo del fare misero o ricco che sia, gli “eccessi” della finanza sono il suo profitto. Considera lecito, legittimo far lavorare il denaro. Tutti concordano. Nessuno pensa che se c’è stato un guadagno in borsa, in una compravendita, in una speculazione finanziaria, i soldi “guadagnati” qualcuno deve aver lavorato per produrli. Che c’è stato qualcuno che materialmente con il proprio lavoro quel guadagno ha prodotto e che per produrlo ha dovuto lavorare, che tutta, tutta la ricchezza, si tratti di beni o di servizi, viene dal lavoro. E se dal lavoro non viene al lavoro sottrae, ruba.
Ma se si può far lavorare il denaro, se far lavorare il denaro è lecito, per quale motivo dovrebbe rinunziarvi? Quanti anni alla Bocconi per fare un broker, perché un “derivato strutturato” mandasse a gambe all’aria un intero pianeta?. Un’ottima annata, o uno tsunami economico che farà per certo a conti fatti più vittime di quello naturale.
L’avidità guida la finanza, guida ogni suo pensiero prima ancora di ogni sua azione. In morale è agnostica. Realismo è la parola chiave. L’azione precede il pensiero, come nella borsa sventolii di braccia tese, nessuna riflessione. Degli altri di filosofia non vuole sapere.
La filosofia è per tutti una materia letteraria per studi all’università. Una materia scelta da un numero sempre minore di sfigati per questioni di gusto: “mi piace”. Appassionante, profonda. Nessuno ne capisce il senso, l’importanza. Le università che insegnano filosofia insegnano una materia il cui scopo non né le è in nulla chiaro. Non entra nell’economia, non crea posti di lavoro, per i più un parassita, per gli economisti senz’altro da eliminare o al più da tenere come reliquia, vestigia del passato.
Un incomprensibile insegnamento che ha ostacolato in passato la strada all’economia e alla finanza e che ancora oggi rischia di mettere grilli nella testa agli studenti. Per fortuna ora grazie ai docenti la filosofia si è ridotta a “storia della filosofia” e la filosofia è definitivamente morta. L’idea di educare lo spirito neppure li sfiora. Né loro né chi la studia.
Contano solo i fatti
“Fatti e non parole” è mentalità radicata in tutti, un basso valore trasversale, dai potenti ai servitori, da destra a sinistra. Una mentalità che permette logiche di potere e al potere di essere logico. La logica si lega allo spirito e lo spirito al mondo, da ultimo un basso sentire trova tutti concordi.
Tra l’altro “fatti e non parole” sono solo parole. In tutti nessuna riflessione. Ciò che accomuna tutti è l’odio per le parole. L’odio per la cultura.
Suona nelle orecchie del popolo un altro adagio “troppo spesso gli intellettuali hanno tradito il popolo”. Hitler, Stalin, Pol Pot e così via erano intellettuali o piuttosto gente del popolo che odiava la cultura? Tutti i dittatori vengono e sono amati dal popolo e odiano la cultura.
Avete mai sentito che uomini di cultura appartenessero in maggioranza alla destra? Gli uomini di cultura a destra sono una rarità ma a sparlare degli intellettuali non sono le destre ma le sinistre. E ancora ne diffidano.
Odio per gli intellettuali, per tutti coloro che nella riflessione vorrebbero la coscienza, a cultura va ben solo se è spettacolo; della cultura bisogna solo godere. Vedere bei quadri, bei film, leggere bei libri. La cultura degli “oh bei o bei”.
Che cultura significhi mentalità, critica e autocritica, avanzamento dello spirito nessuno lo pensa. Faticoso. Fatti dunque e non parole. Barare, usare l’astuzia per emergere, è indubbiamente un fatto. Ma un fatto tanto incancrenito nella cultura popolare da essere entrato a far parte della sua filosofia, filosofia di vita: “che ce vo’fa’, guagliò”; un malcostume tollerato quando non compiaciuto e condiviso. Il paraculo è per molti un ideale, per altri un simpatico mascalzone.
L’inadempienza alle regole non viene solo tollerata ma volte premiata (anche dai governi: condoni) senza che nessuno se ne scandalizzi. Tremonti, un uomo del fare viene tacciato di moralismo. “Che c’entra la morale con la politica? Non facciamo i moralisti”. Confusione, ignoranza abissale : si confonde la morale, la Dea, con moralismo, la degenerazione, l’idolo.
Molto, molto sarebbe da aggiungere, ma qui mi fermo. In fondo le cose sono semplici, ma la semplicità non è un punto di partenza ma un punto d’arrivo quando lo spirito è maturo.
In definitiva per arrestare gli eccessi della finanza, il turbo capitalismo, è indispensabile la cultura. Dare cultura al popolo deve essere il programma delle sinistre. Portare al popolo la Coscienza politica l’obiettivo.
La miseria del popolo non è solo economica e se la Cultura non interverrà anche la miseria economica in strettissima dipendenza sarà inevitabile. Finché in democrazia saranno eletti dal popolo poteri che il popolo rispecchiano nei sentimenti più bassi e che al popolo ancora appartengono non potremo vedere l’alba.
Beceri populismi da ogni parte hanno affossato e ancora impediscono la storia.
“Anche noi” dice Bersani ”siamo capaci di misure impopolari”. Bravo asino. Misure impopolari non sono misure economiche che diminuiscono i soldi in tasca alla gente, misure che la gente percepisce come impopolari, misure contro il popolo sono misure che ne offendono la dignità.
Tutti siamo pronti a collaborare se la nave affonda, non è stringere la cinghia che spaventa, spaventa la paura del futuro la mancanza di sicurezza, spaventano la precarietà, i licenziamenti, spaventa essere lasciati fuori. Spaventa la Necessità a cui la finanza si appella per decidere i nostri destini. Inorridisce sapere che chi ha provocato il disastro sta e starà sempre a piedi caldi, sgomenta sapere che ci sarà anche chi dalla crisi ci guadagnerà.
Che si chieda a noi e solo a noi di rimediare a guai che altri hanno procurato. Ma neppure lo si chiede, lo si impone, lo si impone a dispetto di conquiste secolari con grave sofferenza del “patto sociale”. Non è il welfare state che vogliamo, non siamo insensibili alle sofferenze del pianeta, volgiamo sia rispettato il Patto sociale. Rivedere il patto sociale al ribasso non è solo demenziale, è criminale. Saranno inevitabili i conseguenti disordini sociali le cui cause non sono certo da ricercare in innocenti disperati attori pestati a sangue dalla polizia.
Uguaglianza sociale. Equa distribuzione dei sacrifici. Sicurezza del lavoro, consenso, collaborazione, e soprattutto dignità, sono parole d’ordine imprescindibili. Chi ha più sbagliato più paghi. I colpevoli responsabili della crisi devono essere esautorati e puniti. Licenziare i banchieri. Licenziare i brokers. Licenziare la borsa. Licenziare tutti coloro che fanno lavorare il denaro.
Chi dovrebbe farlo? Ovviamente chi ne ha il potere: i governi sovrani. Sovrani di che? Non solo i responsabili non vengono puniti, non solo quasi tutti conservano il loro posto, ma continuano imperterriti sulla vecchia strada, continuano a speculare, chiedendo al popolo di sopportare per intero la crisi togliendo al popolo non solo il welfare state ma anche i patti sociali, regole che i lavoratori hanno realizzato in anni con sacrifici e lotte. Questa la “modernità” richiesta dei mercati.
L’ obbiettivo è destabilizzare il Patto sociale, la crisi pur reale diviene un alibi per riconquistarsi il terreno perduto, un alibi mascherato dalla necessità dell’economia, della finanza, del capitalismo. Liberalizzare? … privatizzare … Certo con un governo come questo … prima tolgono la spina e poi dicono che non funziona.
“ … e perché l’usurier altra via tene,
per sé natura, e per la sua seguace
dispregia, poi ch’in altro pon la spene”.
(Dante, Inferno, XI, vv. 109,111)
Il pulpito e la predica
Senti da che pulpito viene la predica… questo adagio popolare è nella testa di tutti e costituisce uno dei principali criteri di analisi, in molti casi l’unico, col quale molti esponenti della attuale politica che si avvicendano nei dibattici dei talkshow televisivi si difendono dalle accuse loro rivolte (ma osservate anche quei giornalisti e opinionisti che si definiscono ‘terzisti’…). In base a tale modalità tutti si sentono scusati delle proprie malefatte dal pulpito se il pulpito è ritenuto colpevole, e in particolare più colpevole.
Leggendo i “Promessi Sposi” si sarebbe dovuto far tesoro delle così dette scuse di don Abbondio: “Si io, ma loro …”
Voglio qui solo ricordare una semplice verità: “il pulpito non cancella la colpa”, né la nostra, né quella di altri. Il pulpito può costituire al più attenuante, ma mai essere assolutorio: la colpa continua a sussistere indipendentemente dal pulpito e dalle circostanze. Pulpito e circostanze della colpa costituiscono solo connotazioni e non denotano in alcun modo la cosa, la sostanza, attributi questi che non possono sostituirsi al nome.
“Il pulpito non cancella la colpa” non è un’opinione, è una verità, le sue prerogative sono l’ovvio e l’incontrovertibilità. Ne consegue che “non ci si può scusare dei propri peccati con i peccati altrui”, un’altra verità che fa da corollario alla prima. Ed ancora: “Che le proprie colpe vanno assolte con se stessi prima di trovare giustificazione negli altri”…
Quello che è tuttavia importante qui rilevare è l’appartenenza di queste verità: che verità sono?
In prima istanza dirò che sono verità logiche, ma di una logica che fugge l’epistema (di esse non troverete traccia in nessun trattato di logica) per appartenere allo spirito. E questo è il punto. Dello spirito manca una grammatica.
Lo spirito non si sa neppure che cosa sia, dello spirito manca una definizione, dello spirito neppure si parla. Quello della merce (Materialismo) e quello Santo sono gli unici conosciuti.
Ho affermato che queste verità sono ovvie e apodittiche, incontrovertibili, ma sono ovvie solo a chi possiede spirito. Nell’educazione una grammatica dello spirito si rende indispensabile. Ebbene una grammatica dello spirito non esiste ancora.
Una grammatica dello spirito non solo non viene insegnata ma della stessa non si conosce neppure l’esistenza e questo perché ancora non esiste, ancora non esiste come conosciuto “spirito”.
Riprendo quello che ora si comprende essere solo un esempio: “il pulpito non cancella la colpa”, questo asserito può divenire un assioma, una regola, che deve entrare nella testa di tutti e dovrebbe essere segnalato come errore, errore logico, l’uso improprio del pulpito come esimente.
“Cerca prima dentro di te”, dovrebbe rientrare negli imperativi morali. La mancanza di questa semplice regola grammaticale permette all’ignoranza di rivolgersi in modo ignorante agli ignoranti e ottenerne il consenso.
“Si io o lui, ma loro …” è un errore grammaticale logico che essendo nella testa di tutti permette a cattivi poteri di abbindolare il popolo. La mancata educazione del popolo è per certo una colpa dei governanti, a volte strumentale ma di fatto anche un fatto dovuto all’ignoranza delle stesse persone che ci governano: ci sono e ci fanno. Una falsa coscienza fa loro da alibi.
Quello che è sconfortante è che tutt’oggi non venga avvertita la necessità di trovare per il linguaggio una grammatica dello spirito e di insegnarla nelle scuole. Mondialmente. Uno studio organico che compendi verità grammaticali dello spirito mirato ad innalzare la cultura popolare e non solo popolare si rende sempre più necessario come freno ad un turbocapitalimo che trascina i valori in basso, a soddisfare gli istinti, rivendicando in questa soddisfazione la libertà.
Cliché, adagi popolari, opinioni ignoranti ammorbano lo spirito e finiscono con l’ammalare l’anima. La degradazione del linguaggio è degradazione dello spirito, del singolo come di una nazione.
Una grammatica dello spirito, un compendio quanto più possibile organico delle regole e degli errori in cui più comunemente la logica può incappare deve essere scritta ed essere materia di insegnamento scolastico. È incredibile che ancor oggi nel primo mondo non si sia avvertita la necessità di questo insegnamento culturale.
L’interlocutore che cita il pulito a discolpa dovrebbe essere immediatamente bloccato sottolineando come errore grammaticale la logica usata. Possibile solo se e nella misura in cui la grammatica è da tutti conosciuta.
Allo stato attuale delle cose questo percorso è solo individuale, non ha regole scritte, e non permette all’eccellenza di emergere, anzi chi ha lavorato su se stesso non tanto per emergere quanto per migliorarsi viene accusato di essere un intellettuale e come tale, secondo un altro adagio trasversalmente condiviso, inviso al popolo e a chi sta al potere. Non ho parole … (lavoro in corso) …