Il principio cultura

emergenza culturaCultura è un termine polisemico ovvero un termine astratto cui si possono riferire molteplici significati. In termini generali si può definire cultura ciò che è sedimentato in un soggetto vivente attraverso l’apprendimento dall’ambiente esterno.
Di cultura possiamo parlare quindi anche a proposito degli animali e in un certo senso
anche dei vegetali dal momento che anche le piante apprendono. Tuttavia l’apprendimento riguarda massimamente l’uomo e la cultura umana è l’espressione evolutiva più alta. Per cultura umana bisogna dunque intendere quanto va a depositarsi nell’individuo e nella collettività degli insegnamenti ricevuti dall’ambiente. Da qui la convinzione certa che la cultura inerisca la relazione soggetto oggetto, individuo ambiente, sé e altro da sé. Una convinzione certa non si attua in sede di opinione, ma si determina come fatto ovvero si struttura logicamente.

Per cultura si deve pertanto intendere quanto l’ambiente nella relazione ha depositato nell’individuo e nella collettività. Esiste infatti una cultura individuale e una cultura collettiva, di specie o di gruppo. La dinamica evolutiva pretende che il positum (ciò che si va a depositare) non rimanga mai identico ma sia soggetto a continue trasformazioni secondo modo e quantità delle informazioni ricevute, la cui velocità di apprendimento dipende dalla capacità dell’individuo e del sociale di accogliere nuove istanze (emergenze) che riguardano sia contingenze esterne (quelle sociali) che contingenze interne (quelle individuali) nella relazione.

La dinamica interno-esterno porta alla crescita culturale. Il gruppo non è un individuo, solo l’individuo pensa. Ovvero sia filogeneticamente che ontogeneticamente la cultura è in continuo progresso. Il positum nell’individuo come nel sociale è dunque soggetto a continui rimaneggiamenti.

Il processo tuttavia non è lineare e soggetto a subire battute d’arresto e anche a regressione. L’appreso necessita all’interno dell’individuo come nel sociale di sistematizzazione che porta inevitabilmente a una strutturazione fissa utile alla comprensione pratica della realtà. Convinzioni e regole stanno alla base della pratica sociale. Non sono inamovibili, ma la loro amovibilità sta tutta all’interno degli individui, unico soggetto pensante.

A questa strutturazione fissa che corrisponde a quella che possiamo definire una visione di vita possiamo dare ora il nome di mentalità. La mentalità degli individui é il soggetto della pratica sociale. Da qui la sua importanza. La mentalità può a sua volta essere definita come la visione di vita che il sociale in cui si è nati ha dato all’individuo nella sua particolare accezione, sociale che si definisce come cultura di gruppo o di popolo.

La variabilità individuale rispetto alle regole stabilite dal sociale o dal gruppo soggiace alle stesse e gode all’interno di una limitata libertà a causa dell’ignoranza che l’individuo ha di trovarsi all’interno delle stesse. Una maggiore libertà può essere goduta solo con un avanzamento dello spirito. Questo equivale a dire che si nasce già parlati dalla lingua, ovvero un ambiente che pre-determina la postura mentale dell’individuo, la sua mentalità.

In termini ancora generali possiamo ora definire la cultura come l’insieme degli insegnamenti ricevuti dall’ambiente attraverso il tentativo dell’ambiente di maturare individualmente lo spirito prima all’interno del gruppo e poi per il suo superamento. Questo processo è ciò che noi chiamiamo educazione.

Da ultimo rimane quindi che per cultura bisogna intendere l’educazione dello spirito per la sua maturazione. Una civiltà più progredita sarà di conseguenza una civiltà in cui lo spirito di tutti è più maturo. Il riferimento alla maturità dello spirito separa nettamente la cultura dall’erudizione, rimanendo l’erudizione se presa a se stante solo un accumulo amorfo di nozioni. La maturazione dello spirito non accumula passivamente nozioni, ma ordina attivamente l’appreso secondo direttive etiche ed estetiche. Si deve imparare e insegnare a riflettere passando dal contingente all’estensivo. In definitiva cultura significa educazione al bello e al buono.

Nel 1816 il socialista Robert Owen fece costruire nel villaggio di New Lanark (Scozia) per i lavoratori della azienda da lui diretta che ivi risiedevano e lavoravano, oltre ad una Scuola per l’infanzia e un Nursery Buildings già realizzato nel 1809, l’ Istituto per la Formazione del Carattere, dove : “Le tre stanze al piano inferiore saranno lasciate aperte all’utilizzo degli adulti del paese, i quali devono poter disporre di ogni utilità per poter leggere, scrivere, far di conto, cucire o giocare, discorrere o passeggiare. Due serate per settimana saranno dedicate alla danza ed alla musica, ma in queste occasioni, ogni comodità  sarà predisposta per coloro che preferiranno studiare o continuare qualunque delle occupazioni seguite nelle altre sere.” 

L’educazione spirituale è il pilastro su cui si fonda la civiltà, un’attività dello spirito necessaria e doverosa da parte sia dell’individuo che del sociale. La cultura è vivente o non è cultura. Molto diversamente da questa impostazione si dà importanza più all’erudizione che all’educazione confondendo la cultura con le arti, lo spettacolo e le scienze”, attività culturali che hanno senso solo se educative dello spirito per la sua maturazione, ma che diversamente rimangono solo epifenomeni etichettati. È questo il paradosso della politica: non comprendere l’importanza dell’educazione dello spirito non avendola ancora pienamente intesa o nella migliore delle ipotesi ritenendola erroneamente sotto-intesa. Ancora non si intende spirito, alla politica neppure sfiora l’idea.

Solo la cultura, la cultura vivente, ci salverà.




La cultura rende liberi.

Tra i dati sullo stato della istruzione e quindi della cultura italiana  si è aggiunto il recente  aggiornamento ISTAT sull’abbandono scolastico: il 18,8% degli studenti del biennio delle scuole superiori statali non prosegue gli studi, sebbene l’obbligo scolastico sia fissato a 16 anni.  Il fenomeno (sottostimato perché non comprende i dati relativi alla Formazione Professionale)  ci pone al primo posto tra i Paesi europei, con picchi oltre il 22% nel Mezzogiorno.

All’abbandono scolastico si aggiunge il fenomeno dell’ analfabetismo di ritorno, che in Italia, secondo i dati di una recente indagine, ha raggiunto le  seguenti  dimensioni:

“Il 71% della popolazione – ha detto De Mauro – si trova al di sotto del livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficolta’: il 5% non e’ neppure in grado di decifrare lettere e cifre, un altro 33% sa leggere, ma riesce a decifrare solo testi di primo livello su una scala di cinque ed e’ a forte rischio di regressione nell’analfabetismo, un ulteriore 33% si ferma a testi di secondo livello. Non piu’ del 20% possiede le competenze minime per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana.”

Del resto, pare che la conoscenza delle strutture grammaticali e sintattiche sia pressoché assente persino presso i nostri studenti universitari, che per quanto riguarda le competenze linguistiche si collocano ai gradini più bassi delle classifiche europee (come per altro avviene per le nozioni matematiche).

Lo sconforto di fronte a tali risultati fallimentari,  grazie anche alle scarse attenzioni in termini d’investimento rivolte alla scuola da parte dei governi italiani, ci  potrebbe autorizzare a vedere la nostra scuola come  un  campo di concentramento dell’ignoranza sulla cui porta d’ingresso potremmo scrivere “Kultur macht frei”.

Come è possibile ignorare questo stato di cose,  che costituisce un vero allarme sociale, e continuare a parlare di futuro per i giovani, di rilancio del paese, di credibilità? Come è stato possibile che a rappresentarci economicamente nel mondo ci sia stato un Ministro che  tanto ignorava e disprezzava la cultura da invitare i suoi sostenitori in tempo di crisi a farsene un panino?

Avevo già scritto che se con la cultura non si mangia, certamente con l’ignoranza si muore.  Ma oggi, con l’economia in declino, pardon in recessione, con provvedimenti anti crisi ispirati alle teorie economiche neoclassiche che si concentrano sui tagli della spesa pubblica,  con la  perdita di credibilità dei partiti, l’allontanamento progressivo dei cittadini dalla politica, con una corruzione dilagata a tutti i livelli della convivenza civile (che crea danni economici per 6o miliardi all’anno, corrispondente alla metà della intera corruzione stimata  per i Paesi europei)  e con il deficit di democrazia delle Istituzioni la questione che si pone ormai con forza è su cosa fare leva per avviare il risanamento?

Per gli economisti l’economia si modifica con gli strumenti economici, per i politici la si guida e governa con la politica. Tautologie? No, sono espressioni della limitatezza del pensiero ideologico: una parziale verità che per convenienza di potere diventa assoluta. Per risolvere il problema si deve ragionare ed agire avendo presente una verità della logica:  non possiamo risolvere i nostri problemi con lo stesso modo di ragionare che abbiamo usato per crearli.

L’economia, dunque, si può corregge solo superandola, considerandola non più come un fine, ma come un mezzo, uno strumento  dell’uomo  per  regolare la propria esistenza avendo come fine il bene comune … sotto il cielo stellato, con la morale dentro di sé. La cultura è vivente e rende liberi.




Solo la cultura ci salverà.

Per gli antichi romani la virtus era il valore in battaglia, la virtus era il modello da imitare. Con un respiro “storico” più ampio mi sono chiesto quali fossero i modelli da imitare.

La forza fisica è stato il primo modello in uso sul pianeta. Dominare significava essere più grandi e con questo anche più forti. Per centinaia di milioni di anni il pesce più grosso ha divorato il più piccolo.

Ma già in natura una nuova virtus emergente faceva capolino: l’astuzia. Nell’uomo l’astuzia è presto divenuta sinonimo di intelligenza e tale è rimasta per centinaia di migliaia di anni fino ai giorni nostri.

Diversamente, qualche millennio fa, una nuova emergenza ha sancito che collaborare è meglio che competere. Si tratta della compassione, una nuova forza che riconosce nell’altro la persona e ne porta la responsabilità per un destino comune nella coesistenza.

È un emergenza che ha rivoluzionato lo spirito dell’umanità e a cui sola spetterebbe il nome di intelligenza. Nel tempo ha portato a dire “gli uomini nascono liberi”, poche parole che hanno sconvolto l’assetto politico, sociale ed economico del pianeta.

Portiamo dentro di noi tutto il passato: centinaia di milioni di anni di natura contro poche centinaia di migliaia di cultura e contro poche migliaia di storia. Eppure queste emergenze si sono mostrate vittoriose. Tuttavia, il passato non è ancora stato superato e cova dentro ciascuno sotto le ceneri. L’amore per il prossimo non ha visto ancora piena luce.

Ancora viene  scambiata dai più la furbizia con la “intelligenza”, ancora resiste questa pesante eredità nella cultura. In tutte le culture,  comprese quelle democratiche.

Il sesso, il possesso e l’astuzia (furbizia) rimangono spesso i soli valori sociali, soprattutto presso il “popolo” e la “cultura del popolo”, che  costituiscono il fondamento di ogni regime e di ogni democrazia.  Solo la cultura ci salverà.




C’era una volta una grave crisi economica …

Cose che sanno anche i bambini. C’era una volta …

… una grave crisi economica che rischiava di far perdere il futuro a tutta l’umanità Socrate decise di recarsi dal governatore della BME.  Il Governatore quando gli fu annunciata la sua visita si mostrò un po’ contrariato: “Che ci fa qui questo seccatore -pensò- che c’entro io con la filosofia?”. Tuttavia si trattava pur di Socrate e non riceverlo non sarebbe stato gradito ai Mercati. Tant’è.

socrate S- Caro Governatore, mi scuso per apparire inopportuno, chissà quante cose hai da fare, ma prometto che non ti ruberò molto tempo. Sono qui per farti semplici domande e poiché come sai io mi occupo di filosofia e sono digiuno di economia ti prego di avere pazienza e risolvermi alcuni semplici quesiti.

G- Dì pure Socrate ti ascolto.

S- Tutto, se ho ben inteso, dipende dalla produzione mondiale, se la produzione aumenta tutti stanno meglio se diminuisce peggio.

G- magari fosse così semplice Socrate. Bisogna considerare la popolazione, il territorio, le risorse, la finanza …

S- Fermati G. te ne prego, forse mi sono espresso male, la mia domanda era semplice e pretende una semplice risposta,  a tutte le cose che tu stai dicendo arriveremo un passo per volta. La mia testa è debole, non avvezza alla materia come la tua e se tu introduci troppe cose va in confusione. Riformulerò la domanda in modo che tu non abbia a rispondere che con un no o con un sì o se vuoi con un non so. In nome di Giove, la produzione mondiale deve aumentare o no?

G – Non saprei Socrate non mi sono mai posto questa domanda. Del resto io sono una figura che ancora non esiste.

S- Fai finta di esistere e rispondi.

G- Direi che deve aumentare.

S- Sei matto G. ma non pensi che aumentando la produzione le risorse di questo pianeta presto si esauriranno e che danneggerai così facendo non solo l’umanità ma l’intero pianeta che ci ospita?

G- Hai ragione Socrate a questo non avevo ancora pensato. Ma del resto noi viviamo qui ed ora e se la produzione non aumenta come sosterremo l’economia?

S- Qui sta il punto G. Che è questa economia?

G- Ma lo sanno tutti Socrate, è il mezzo per sfamare miliardi  e miliardi di persone, che permette la sopravvivenza dell’umanità, è il cuore, il motore, ne va della nostra stessa esistenza.

S- Se permetti una piccola obbiezione non è solo il mezzo per sfamare ma anche quello per arricchire, arricchire pochi nei confronti dei molti, ma di questo ti chiederò in seguito. Ora vorrei farti un’altra domanda. La ricchezza è in proporzione al numero delle persone o no?

G- Ovviamente Socrate ma capisco dove vuoi arrivare e ti precedo. Il numero non è controllabile.

S- Non è questo che intendevo, intendevo solo dire chiederti se pensi che le risorse siano in funzione del numero.

G- Che domanda mi fai questo è ovvio.

S- Non parrà ragionevole quindi porre come obbiettivi arrestare la produzione e la crescita economica così come il numero delle nascite?

G- Si, ma come? questo è impossibile e fuori controllo.

S- Se permetti sul come parleremo in seguito per ora è sufficiente che concordiamo che questi sono gli obiettivi da raggiungere. Per utopici che siano o possano sembrare indicano pur una direzione, una direzione verso cui muoverci e muovere l’economia. Ne convieni?

G- Senz’altro.

S – Quindi potremo definire buona ogni iniziativa che va verso questa direzione e cattiva ogni iniziativa che ce ne allontana sei d’accordo?

G. Si Socrate. Ma dove vuoi arrivare?

S- Concludendo se la produzione non deve complessivamente aumentare perché si chiede ad ogni singolo stato di aumentare la crescita economica? Queste indicazioni vanno verso i nostri obiettivi o nella direzione contraria?

G. Nella direzione contraria ovviamente. Del resto …

S- Capisco che cosa mi vuoi dire G. del resto per ora dobbiamo risolvere la crisi e senza aumentare la crescita non sappiamo come uscirne. Del resto G. anche se riuscissimo a uscirne aumentando la crescita finiremmo col bruciare tutte le risorse e distruggere il pianeta. Capisco i tuoi dubbi e anche il tuo imbarazzo. Io stesso se pensassi anziché alla filosofia all’economia non saprei cosa fare. Ma io come sai mi intendo un po’ di filosofia e magari con la filosofia ti posso un po’ aiutare?

G- Che dici Socrate che cosa centra l’economia con la filosofia, in questo momento poi, un momento di crisi mondiale in cui tutti dobbiamo venirne fuori risolvendo problemi economici tu te ne vieni fuori con la tua filosofia? (Mancava poco lo  cacciasse in malo modo)

S- Non ti adirare G. Se avrai pazienza ti dimostrerò che la filosofia è cosa per cui le cose sono e anche l’economia è?

G. Ti ascolto, ma ho poco tempo.

S. Non ti preoccupare non ci vorrà molto. Tu come Governatore della BME devi pensare per il bene del pianeta o per il bene di ogni singolo stato?

G- Non mi fare domande sciocche.

S- Scusami, ma se ovviamente dovrai pensare al bene di tutti dovrai ammettere due cose, una che pensi al bene, e due che pensi al bene di tutti ovvero non più a quello dell’uno che a quello di una altro e questa è la giustizia e che pensare al bene dell’uno piuttosto che al bene dell’altro è disonesto e questa è la disonestà.
Che dovrei pensare di te se per un tuo personale tornaconto favorissi uno stato piuttosto che un altro?

G- Che sono un disonesto. Queste sono banalità che si direbbero a un bambino.

S- Non ne sarei così sicuro. Ma dato che a te sembrano banalità sappi che queste banalità sono all’interno della morale della giustizia e non dell’economia, fanno parte cioè della filosofia.
Di queste banalità e di questo bambino tutti sembrerebbero essersene dimenticati. Ora ti faccio un’altra domanda. Se come riconosci queste banalità sono guida di tutta l’economia , tu ritieni che l’economia debba seguire giustizia e morale o che giustizia e morale debbano seguire l’economia?

G- Socrate io ho altro a cui pensare che alla tua filosofia.

S- Capisco bene G. quando si centra il problema e il problema è sempre la distribuzione, tu fuggi e chiami in dispregio giustizia, morale e filosofia. Ben sapendo che la soluzione di tutti i problemi è semplicissima e sempre la stessa togliere ai ricchi per dare ai poveri affinché tutti gli uomini siano uguali in ricchezza e dignità. In questa direzione tu non vorrai mai marciare e riempirai la testa di società di Rate, di Spread, di disavanzo pubblico, di debito pubblico, produzione, ricchezza, mercati, borsa, cloud e quant’altro. Intendiamoci G, tutte cose reali ma verso le quali tu hai un’unica posizione non perdere il tuo e non farlo perdere alla gente come te.

G- Stupido utopista pensi che espropriando i ricchi di tutta la loro ricchezza risolverai la crisi?

S- Si lo penso, penso che quella sia la direzione e che ogni iniziativa che vada in quella direzione sia buona mentre le altre che conservano ai ricchi la loro ricchezza siano cattive …

… Socrate fu messo alla porta.  Il Governatore era di malumore. Un pedante filosofo gli aveva guastata la giornata con la sua filosofia. Era ora di tornare a pensare alle cose serie: finanziare le banche o lasciare che qualcuna fallisse?…Ma sono tutte  collegate … rischio l’effetto domino …  Intanto una folla si era radunata in attesa di Socrate e Socrate come promesso riferì il colloquio. Si levarono applausi. E come al solito Socrate concluse: “Non è me che dovete applaudire ma la verità”. Sospirò e aggiunse: “Ma anche voi non abbiate in amore il consumo amate la povertà, cercate la gente e non la merce”.




L’usuraio disprezza la filosofia e vive dei frutti del suo denaro.

In fondo le cose sono semplici.  Si potrebbe sintetizzare dicendo che il mondo dell’economia deve lottare contro il mondo della finanza per limitarne o impedirne gli eccessi. Parafrasando, la finanza è fatta per l’economia non l’economia per la finanza.

Lavoratori e imprenditori dovrebbero allearsi per impedire alla finanza il default, ovvero impedire di rovinare sia i lavoratori nella persona che l’economia nelle istituzioni.

Bisognerebbe impedire alla finanza di far lavorare il denaro, l’arricchimento in assenza di lavoro; di permettere la “libera” speculazione. Opporre il libero mercato alla speculazione. Libero mercato e speculazione non sono la stessa cosa. “Libero mercato” è un concetto liberista povero e da rivedere.

                                                Barare.1

È noto a tutti che per vincere a qualsiasi gioco c’è un metodo infallibile: “barare”. Barare al gioco consente di arrivare ai risultati meglio e prima di altri.

Questo sistema di vita, di sistema di vita si tratta, si chiama disonestà ma storicamente prima di giungere a intendimenti morali si chiamava “astuzia”. Molti, moltissimi, disonesti (che c’entra la morale con l’economia) ancora lo chiamano realismo, l’affarista è un uomo pratico.

Disonestà e realismo stanno spesso a confine. Senza il sostegno di una morale sono, come anticamente sono stati, intercambiabili.
Anche sul termine “realismo” si dovrebbe molto discutere, ma qui mi preme di analizzare un altro termine: l’astuzia. L’astuzia non è un valore come tutti gli altri.

Ulisse vinse le armi di Achille superando nell’agone il più possente Aiace, grazie all’astuzia.  L’astuzia nel tempo ha prevalso sulla forza fisica e in luogo della forza fisica si è fatta virtù. Dalla notte dei tempi, la furbizia ha fatto dell’uomo il re degli animali.

L’astuzia ci ha differenziato dalle bestie e fatto di noi un nuovo regno. “Callidus” (astuto) è stato per millenni e millenni, non secoli ma millenni, sinonimo di intelligenza e ancora come tale è tenuta dai più, dai patrizi come dal popolo. Pensando “astuto, furbo” un malizioso sorriso si dipinge agli angoli della bocca e gli occhi si fanno più sottili.

È talmente connaturata alla nostra cultura che la furbizia è entrata per così dire a far parte del patrimonio genetico. Un valore trasversale, posseduto e tenuto in stima da tutti; un esistenziale entrato a far parte del sentimento comune e che per questo permette la comunicazione.

Nel bene o nel male al simpatia per questa malcelata virtù con la nostra complicità avvantaggia il potere. Il capo non è altro che il più furbo tra i furbi. Il più furbo di tutti. Stima, ammirazione, riconoscimento o in misura inversamente proporzionale invidia.
Vince chi più è astuto, tutti i mezzi sono leciti per millenni e millenni barare è norma, regola di vita, dal signore al servo.
Importante è non venire scoperti e se si è scoperti: negare, mentire, comprare, corrompere. O anche uccidere. Quanto di del tutto e di ogni cosa secondo epoca e costume.

La morale? Un’impicciona.  “Lo fanno tutti”. “Chi al posto suo non lo farebbe”, “Fossi io al suo posto …” sono adagio popolari; le giustificazioni di tutti. Certo non lo farebbero Cristo e santi, ma appunto  … l’imitatio Christi non è cosa.

In tutte le epoche quindi mentire, comprare, corrompere e se il caso anche uccidere fa parte del gioco. È   stata la norma per tempi così lunghi che si sono tutti abituati e assuefatti a parlare della corruzione come a parlare del clima, del vento. Molti neppure ti ascolano.  Gli scandali?  Talmente tanti e tali da indurre la noia. Del resto c’è sempre stata e non solo ora e non solo qui. “Radio 24” se parli di corruzione, neppure ti ascolta. La corruzione non interessa a chi parla di economia. “… corruzione, sì vabbé,  poi …”. Parliamo di cose serie.  Arroganza.

La disonestà è una malattia endemica, non una variabile interveniente considerata da tutti una costante su cui si deve ma è difficile se non impossibile agire. Fatalismo.

Chi parla di malcostume, di conflitto di interessi, di corruzione sono piagnoni, Savonarola di contorno. Magari da fare all’occasione arrosto. L’astuzia e le sue disoneste conseguenze sono dunque da sempre. Sono un positum storico. Prendiamone atto.

Ma dovremmo ugualmente prendere atto che strada facendo l’astuzia, fatta ormai anche dal popolo virtù, trova nemici. Si fa luce nella storia una novità.  Così come la forza fisica ha dovuto fare posto all’astuzia (milioni di anni per questo) ora l’astuzia si trova di fronte un nuovo più avanzato avversario. Ciò che costituisce emergenza, la novità, è ora un diverso intendimento dell’ intelligenza che vede nella collaborazione anziché nella competizione la possibilità della coesistenza, nasce la morale.

Difficile darle un nome perché ancora oggi stenta ad essere riconosciuta. Tuttavia è un faro che illumina e fa di un popolo quel popolo e per di più definisce di quel popolo i grado di civiltà, un valore storico assoluto. Tanto più un popolo è civile più possiede questo nuovo ingrediente. Un nuovo alimento per lo Spirito. La civiltà di un popolo da questo nuovo ingrediente per intero dipende. Forse è sulla punta della lingua di tutti ma di certo è nella testa di pochi, pochissimi. Oggi degenerato e per certo non in uso.

Rappresenta nel singolo come nelle istituzioni quella che si definisce coscienza politica, la convivialità, l’essere nella coesistenza. Un discorso che pretende un non indifferente impegno filosofico. Questa coscienza definibile comunque come coscienza politica, rappresenta il saper essere da parte dell’individuo nel sociale; un elemento costitutivo della cultura della nazione, il suo patrimonio. La considerazione del prossimo, dell’altro da sé, diviene fondamentale.

Pensate or per voi se avere fior di ingegno che cosa possa significare in questa prospettiva essere guidati da un presidente del consiglio che afferma tra i denti “Chi non fa il proprio interesse è un coglione”. Opinione e sentimento peraltro condiviso dai più, anche dal popolo. Vedi undicesimo comandamento: “fatti i cazzi tuoi”. Risatine d’obbligo. La volgarità spinge sempre al riso.

La Coscienza, quella politica, implica diversamente un fare per gli altri, un “amore per il prossimo”. La compassione cui la coscienza politica si ispira fonda la morale, implica di contro all’individualismo un fare per gli altri, rendere un servizio nell’interesse di tutti.  Un sentimento in essere nella storia solo di recente, poco sentito da se dicenti cristiani che vestono i simboli non occupandosi della cosa (la res, la quiditate, l’essenza).

L’intelligenza politica che dovrebbe essere legata all’intendimento del bene comune, viene declassata ad arte per produrre il consenso, arte per incastrare i gonzi. Confusione tra polis e parte, tra politica e partitica.  L’intelligenza politica rimane pertanto defraudata dal linguaggio e dalla prassi, del suo intendimento; rimane pressoché sconosciuta e quanto mai bistrattata nel nostro bel paese soprattutto da parte di chi sta al potere: una casta che offre modelli di vita, nelle persone che rappresentano il potere come le istituzioni, che depistano verso bassi ideali, assolutamente egoistici, al di fuori di qualsiasi morale.

Il massimo della vita: andare a puttane. Una pornopolitica senza alcun riferimento al sesso o di cui il sesso rappresenta l’aspetto meno interessante è più marginale, se nonché su questi bassi ideali rischia di andare a puttane l’intera nazione. Ancora una volta si confonde moralismo con morale.

Rimane ovvio che chi è al potere deve proporre una strada, una condotta di vita, una strada che sia per tutti e condivisibile da tutti su valori i più alti possibili. La persona conta, conta la sua credibilità.

Di contro la polis, la coinè, il bene comune, la civiltà, si nutre solo ed unicamente di questa emergenza, di questa luce, la compassione, una nuova forma di intelligenza che in sostituzione dell’astuzia e della competitività, vede nella collaborazione il suo ideale.  Si tratta della “Cura”, l’Essere per il mondo.
Questa la Coscienza, questo lo Spirito, questa la Cultura.

Per inciso, il termine da me usato, compassione, nulla a che vedere con la religione anche se posso dirmi felice che sulla compassione le religioni anche se con intendimenti diversi in parte concordino. Dalla sua nascita, lontana ma di certo storicamente più recente, astuzia e compassione entrano in competizione segnando attraverso il prevalere ora dell’una ora dell’altra la civiltà di un popolo.

Furbizia e intelligenza dello spirito, onestà intellettuale, entrano in conflitto. Quello che c’è ancora da rilevare è che questa battaglia è battaglia interiore, di ciascuno di noi, di ogni coscienza. I termini, furbizia e intelligenza, si confondono nella quotidianità in tutti, una chiara distinzione non è ancora neppure nei dizionari. Tutti utilizzano ora l’una ora l’altra con un solo fine: la convenienza, per farsi belli o brutti secondo le circostanze. I più mentono a se stessi. “L’occasione fa l’uomo ladro”. Risatine d’intesa. Tutti. E chi non ride non è di spirito. Siamo tutti complici.

Ebbene, la menzogna e la falsa coscienza sono il cibo preferito da poteri forti e autoritari, quelli che cercano il consenso ai livelli più bassi dello spirito. Disonestà intellettuale, pensiero debole e basso sentire sono il principale nutrimento di poteri disonesti.

Per questo la cultura, la cultura data al popolo è rivoluzionaria.
Se non ci convinceremo di questo ogni movimento progressista che tratti il sociale solo in funzione dell’economia (economicismo = economia senza cultura) è destinato a fallire.

Si dovranno imporre provvedimenti impopolari per risanare i bilanci per un tempo così lungo da scontentare il popolo che in assenza di cultura tornerà a rieleggere “il venditore” alle successive elezioni. Il nuovo Mida non esiterà a trasformare in merda l’oro dello Stato per accontentantare il popolo e così sia nei secoli dei secoli … un gioco senza fine. Alternanza di potere? Democrazia?  Solo la cultura può porre fine.

                                             Barare.2
Il gioco è barare. Chi non sa barare è fesso. O coglione, a scelta. Bari siamo tutti e qualcuno barone, più bravo, migliore nel gioco di altri. Mida il più bravo, riconosciamoglielo. Chi non sta al gioco sono solo gli invidiosi.
Perché il gioco funzioni si gioca al ribasso. Più grande è l’ignoranza, i valori dello spirito sono bassi meglio si riesce a barare. Lo stupido e il complice. Tra i passati valori riemerge la furbizia.

Grazie alla condivisione di questo basso sentimento il grande comunicatore vende i suoi prodotti: soldi, sport e gnocca, i “nuovi” valori. L’ultimo poi è talmente radicato da appartenere anche alle bestie è per certo anche nel DNA. A chi non piacciono?

Chi dice di no è un ipocrita, recita l’uomo del fare o è un intellettuale, una genia ai margini, in genere non pericolosa ma da tenere d’occhio. Spiacente sconfessarlo, piace anche a noi. Ma nessuna illusione: neppure sotto, sotto ci intendiamo.

Finché il popolo li avrà in odio e con essi avrà in odio la cultura per il potere nessun problema. Nessun problema se anche e finché partiti politici e  sindacati guarderanno con sospetto la cultura. Finché della cultura non avranno inteso la risolutiva sostanza.

Mida è un uomo del popolo  che bene conosce il popolo e che del popolo fa parte.  Sale al potere e trova a sostegno il popolo, la sua complicità, il suo maggior alleato. È stato democraticamente eletto dal popolo. Questo è accaduto e sempre accadrà finché il popolo non capirà Cultura e la sua importanza.

Essere furbo è la maggior calamità che oggi possa colpire un uomo! Il raggiungimento dell’onestà intellettuale è un obiettivo imprescindibile per ogni società che voglia chiamarsi civile, non è un soprammobile per il soggiorno è un pilastro per le fondamenta!  Questo lo Spirito, questa la Cultura.

La dignità e la distribuzione del reddito da questo dipendono.
Fare una scelte politica non significa quindi di schierarsi, non si tratta di un appartenenza ideologica, ma di ritrovarsi insieme a persone che la pensano tutte nello stesso modo, e questo modo riguarda un sentire, un sentimento comune che si può attestare su diversi gradi di civiltà. Elevare il sentimento popolare corrisponde a maturare il progresso sociale ed anche economico della nazione.

L’uomo pratico penserà ora che personalmente sia contro i soldi, lo sport e la gnocca, mentre ciò che desidero è solo che questi valori trovino la loro giusta dimensione per lasciare spazio a idealità più alte come la coscienza, la compassione e l’amore e che i predetti valori da queste idealità vengano tutt’altro che annullati ma rivisitati.

La cultura popolare ferma emotivamente all’astuzia non arriva alla polis, vede nella politica solo il marcio che colpisce le istituzioni come il marcio delle istituzioni, e se ne un alibi: “la politica è una cosa sporca”, per votarsi al disimpegno. Il livello è tanto basso che si confonde il fare politica con il mettersi in politica. Avviene così che il “sentimento popolare” si rende nell’ignoranza complice dei carnefici; costoro sono in genere  gente inesperta di politica che porta in politica mentalità affaristiche che affascinano l’uomo della strada, l’uomo pratico, come loro l’uomo del fare.

Non da ultimo ma da sempre le vittime abbracciano i carnefici. Saltano sul carro del vincitore. Meno si dice, più i valori comunicati  sono bassi e più gente si incontra. Sul sesso poi ci incontriamo tutti. Sulla via del fare solo “viva la gnocca” può sconfiggere “forza Italia”. Non la domenica.

                                              Le banche

Per realismo l’uomo del fare mira ai risultati, ovvero al profitto e per realismo ad un particolare profitto: il proprio. La logica è elementare: “se le cose vanno bene … bene per tutti; e se vanno male io di certo non ci rimetto”. Termometri di massima.
Questa grande astuzia  regge i business men, le banche e regge il mondo.

Il risultato è che un flusso continuo di capitali viene sottratto alla circolazione, al bene comune, alla comunità per finire nelle tasche di privati cittadini che si arricchiscono a dismisura fino a possedere la stragrande maggioranza della ricchezza e come utopia il mondo.  Aneurismi che sottraggono linfa in circolo  che impediscono la libera circolazione e a volte rompendosi provocano emorragie interne.

L’uomo del fare,  non sopporta regole che limitino il profitto. Tutto ciò che è contro il mercato (di mercato parla anche per la finanza) è filosofia. Il mondo del resto è palesemente nostro. Tutti lo possono vedere. L’economia è al struttura il resto è filosofia.

“Libertà di guadagnare, e di guadagnare senza limiti” un assioma in essere da sempre: “ un imperativo categorico nella mentalità di ogni uomo del fare. Dal capitalista al servo. L’dea della rinuncia un’eresia. L’uomo del fare ha un’unica dimensione, un’unica scala, quella economica. Unica variante: una diversa distribuzione, ma anche questa con la condivisione e la complicità di tutti. Intendiamoci l’uomo del fare non ha una grande intelligenza, ovvero coscienza politica, ha un’intelligenza pratica e la pratica, lo sanno tutti, vale più della grammatica.

“Una cosa o si può fare o non si può fare se si può fare quanto costa”. “Importante” diranno altri “non è se si può o non si può fare, ma se si riesce o non si riesce a fare”.

Queste alte filosofie reggono il mondo della finanza e le sorti dell’umanità. La morale, le regole, intralci, non computano. Deregulation, liberalizzazione. Che sia la morale quella coscienza politica che  ha permesso la civiltà neppure lo sfiora. Tutto per loro è stato fatto da loro, dall’economia.

La morale non sanno cosa sia, la morale è un fatto privato: “Se vado a puttane sono cazzi miei”, economia e puttane ecco tutto. Volgarità che il volgo ama e condivide. Chi si sente chiamato in causa imputet sibi.

Della politica l’uomo del fare si occupa solo se rende, rende a lui personalmente.  Per il profitto è disposto, suo malgrado, a mettersi anche in politica e far vedere ai politici quelle mummie, come lui, il grande comunicatore, raggiunge in breve il popolo, la maggioranza. E ci riesce. Questa la mentalità, questa la cultura. È la nuova cultura, la cultura vincente.

Dante non fa audience, e Sgarbi paladino della cultura si fa complice dell’ignoranza di gente che pensa a fare panini della Divina Commedia. La cultura ci parla con la bellezza e con l’amore. Di poteri ignoranti i più grandi alleati sono la disonestà, il pensiero debole e un basso sentire, valori o disvalori, indispensabili da condividere con il popolo per la vittoria.

Di contro combattere l’ignoranza, la disonestà, il pensiero debole e un basso sentire, devono essere prima e al di sopra di qualsiasi necessaria manovra economica, nel  programma di ogni movimento progressista. Non vedo nulla di tutto questo in nessun programma, non vedo l’alba. Non vedo il sol dell’avvenir. In fondo è semplice, ogni volta che ci alziamo dal letto basta chiedersi per ogni azione, è conveniente o è la cosa giusta.  La cultura contro il capitalismo.

                                  L’uomo del fare

Per l’uomo del fare misero o ricco che sia, gli “eccessi” della finanza sono il suo profitto. Considera lecito, legittimo far lavorare il denaro. Tutti concordano. Nessuno pensa che se c’è stato un guadagno in borsa, in una compravendita, in una speculazione finanziaria, i soldi “guadagnati” qualcuno deve aver lavorato per produrli. Che c’è stato qualcuno che materialmente  con il proprio lavoro quel guadagno ha prodotto e che per produrlo ha dovuto lavorare, che tutta, tutta la ricchezza, si tratti di beni o di servizi, viene dal lavoro.  E se dal lavoro non viene al lavoro sottrae, ruba.

Ma se si può far lavorare il denaro, se far lavorare il denaro è lecito, per quale motivo dovrebbe rinunziarvi? Quanti anni alla Bocconi per fare un broker, perché un “derivato strutturato” mandasse a gambe all’aria un intero pianeta?. Un’ottima annata, o uno tsunami economico che farà per certo a conti fatti più vittime di quello naturale.

L’avidità guida la finanza, guida ogni suo pensiero prima ancora di ogni sua azione. In morale è agnostica. Realismo è la parola chiave. L’azione precede il pensiero, come nella borsa sventolii di braccia tese, nessuna riflessione. Degli altri di filosofia non vuole sapere.

La filosofia è per tutti una materia letteraria per studi all’università. Una materia scelta da un numero sempre minore di sfigati per questioni di gusto: “mi piace”. Appassionante, profonda. Nessuno ne capisce il senso, l’importanza.  Le università che insegnano filosofia insegnano una materia il cui scopo non né le è in nulla chiaro. Non entra nell’economia, non  crea posti di lavoro, per i più un parassita, per gli economisti senz’altro da eliminare o al più da tenere come reliquia, vestigia del passato.

Un incomprensibile insegnamento che ha ostacolato in passato la strada all’economia e alla finanza e che ancora oggi rischia di mettere grilli nella testa agli studenti. Per fortuna ora grazie ai docenti la filosofia si è ridotta a “storia della filosofia” e la filosofia è definitivamente morta. L’idea di educare lo spirito neppure li sfiora. Né loro né chi la studia.

                                  Contano solo i fatti

“Fatti e non parole” è mentalità radicata in tutti, un basso valore trasversale, dai potenti ai servitori, da destra a sinistra. Una mentalità che permette logiche di potere e al potere di essere logico. La logica si lega allo spirito e lo spirito al mondo, da ultimo un basso sentire trova tutti concordi.

Tra l’altro “fatti e non parole” sono solo parole. In tutti nessuna riflessione. Ciò che accomuna tutti è l’odio per le parole. L’odio per la cultura.

Suona nelle orecchie del popolo un altro adagio “troppo spesso gli intellettuali hanno tradito il popolo”. Hitler, Stalin, Pol Pot e così via erano intellettuali o piuttosto gente del popolo che odiava la cultura? Tutti i dittatori vengono e sono amati dal popolo e odiano la cultura.

Avete mai sentito che uomini di cultura appartenessero in maggioranza alla destra? Gli uomini di cultura a destra sono una rarità ma a sparlare degli intellettuali non sono le destre ma le sinistre. E ancora ne diffidano.

Odio per gli intellettuali, per tutti coloro che nella riflessione vorrebbero la coscienza, a cultura va ben solo se è spettacolo; della cultura bisogna solo godere. Vedere bei quadri, bei film, leggere bei libri. La cultura degli “oh bei o bei”.

Che cultura significhi mentalità, critica e autocritica, avanzamento dello spirito nessuno lo pensa. Faticoso. Fatti dunque e non parole.  Barare, usare l’astuzia per emergere, è indubbiamente un fatto. Ma un fatto tanto incancrenito nella cultura popolare da essere entrato a far parte della sua filosofia, filosofia di vita: “che ce vo’fa’, guagliò”; un malcostume  tollerato quando non compiaciuto e condiviso. Il paraculo è per molti un ideale, per altri un simpatico mascalzone.

L’inadempienza alle regole non viene solo tollerata ma volte premiata (anche dai governi: condoni) senza che nessuno se ne scandalizzi. Tremonti, un uomo del fare viene tacciato di moralismo. “Che c’entra la morale con la politica? Non facciamo i moralisti”.  Confusione, ignoranza abissale : si confonde la morale, la Dea, con moralismo, la degenerazione, l’idolo.

Molto, molto sarebbe da aggiungere, ma qui mi fermo.                 In fondo le cose sono semplici, ma la semplicità non è un punto di partenza ma un punto d’arrivo quando lo spirito è maturo.

In definitiva per arrestare gli eccessi della finanza, il turbo capitalismo, è indispensabile la cultura. Dare cultura al popolo deve essere il programma delle sinistre. Portare al popolo la Coscienza politica l’obiettivo.

La miseria del popolo non è solo economica e se la Cultura non interverrà anche la miseria economica in strettissima dipendenza sarà inevitabile.  Finché in democrazia saranno eletti dal popolo poteri che il popolo rispecchiano nei sentimenti più bassi e che al popolo ancora appartengono non potremo vedere l’alba.
Beceri populismi da ogni parte hanno affossato e ancora impediscono la storia.

“Anche noi” dice Bersani ”siamo capaci di misure impopolari”. Bravo asino. Misure impopolari non sono misure economiche che diminuiscono i soldi in tasca alla gente, misure che la gente percepisce come impopolari, misure contro il popolo sono  misure che ne offendono la dignità.

Tutti siamo pronti a collaborare se la nave affonda, non è stringere la cinghia che spaventa, spaventa la paura del futuro la mancanza di sicurezza, spaventano la precarietà, i licenziamenti, spaventa essere lasciati fuori. Spaventa la Necessità a cui la finanza si appella per decidere i nostri destini. Inorridisce sapere che chi ha provocato il disastro sta e starà sempre a piedi caldi, sgomenta sapere che ci sarà anche chi dalla crisi ci guadagnerà.

Che si chieda a noi e solo a noi di rimediare a guai che altri hanno procurato. Ma neppure lo si chiede, lo si impone, lo si impone a dispetto di conquiste secolari con grave sofferenza del “patto sociale”. Non è il welfare state che vogliamo, non siamo insensibili alle sofferenze del pianeta, volgiamo sia rispettato il Patto sociale. Rivedere il patto sociale al ribasso non è solo demenziale, è criminale. Saranno inevitabili i conseguenti disordini sociali le cui cause non sono certo da ricercare in innocenti disperati attori pestati a sangue dalla polizia.

Uguaglianza sociale. Equa distribuzione dei sacrifici. Sicurezza del lavoro, consenso, collaborazione, e soprattutto dignità, sono parole d’ordine imprescindibili. Chi ha più sbagliato più paghi. I colpevoli responsabili della crisi devono essere esautorati e puniti. Licenziare i banchieri. Licenziare i brokers. Licenziare la borsa. Licenziare tutti coloro che fanno lavorare il denaro.

Chi dovrebbe farlo? Ovviamente chi ne ha il potere: i governi sovrani. Sovrani di che? Non solo i responsabili non vengono puniti, non solo quasi tutti conservano il loro posto, ma continuano imperterriti sulla vecchia strada, continuano a speculare, chiedendo al popolo di sopportare per intero la crisi togliendo al popolo non solo il welfare state ma anche i patti sociali, regole che i lavoratori hanno realizzato in anni con sacrifici e lotte. Questa la “modernità” richiesta dei mercati.

L’ obbiettivo è destabilizzare il Patto sociale, la crisi pur reale diviene un alibi per riconquistarsi il terreno perduto, un alibi mascherato dalla necessità dell’economia, della finanza, del capitalismo.  Liberalizzare? … privatizzare … Certo con un  governo come questo … prima tolgono la spina e poi dicono che non funziona.

“ … e perché l’usurier  altra via tene,
per sé natura, e per la sua seguace
dispregia, poi ch’in altro pon la spene”.
(Dante, Inferno, XI, vv. 109,111)




Il pulpito e la predica

Senti da che pulpito viene la predica… questo adagio popolare è nella testa di tutti e costituisce uno dei principali criteri di analisi, in molti casi l’unico,  col quale molti  esponenti della attuale politica che si avvicendano nei dibattici dei talkshow televisivi si difendono dalle accuse loro rivolte (ma osservate anche quei giornalisti e opinionisti che si definiscono ‘terzisti’…).    In base a tale modalità  tutti si sentono scusati delle proprie malefatte dal pulpito se il pulpito è ritenuto colpevole, e in particolare più colpevole.

Leggendo i “Promessi Sposi”  si sarebbe dovuto far tesoro delle così dette scuse di don Abbondio:  “Si io, ma loro …”

Voglio qui solo ricordare  una semplice verità: “il pulpito non cancella la colpa”, né la nostra, né quella di altri.  Il pulpito può costituire al più attenuante, ma mai essere assolutorio: la colpa continua a sussistere indipendentemente dal pulpito e dalle circostanze. Pulpito e circostanze della colpa costituiscono solo connotazioni e non denotano in alcun modo la cosa, la sostanza,   attributi questi che non possono sostituirsi al nome.

“Il pulpito non cancella la colpa” non è un’opinione, è una verità, le sue prerogative sono l’ovvio e l’incontrovertibilità. Ne consegue che “non ci si può scusare dei propri peccati con i peccati altrui”, un’altra verità che fa da corollario alla prima. Ed ancora: “Che le proprie colpe vanno assolte con se stessi prima di trovare giustificazione negli altri”…

Quello che è tuttavia importante qui rilevare è l’appartenenza di queste verità: che verità sono?

In prima istanza dirò che sono verità logiche, ma di una logica che fugge l’epistema (di esse non troverete traccia in nessun trattato di logica) per appartenere allo spirito. E questo è il punto. Dello spirito manca una grammatica.

Lo spirito non si sa neppure che cosa sia, dello spirito manca una definizione, dello spirito neppure si parla. Quello della merce (Materialismo) e quello Santo sono gli unici conosciuti.
Ho affermato che queste verità sono ovvie e apodittiche, incontrovertibili, ma sono ovvie solo a chi possiede spirito. Nell’educazione una grammatica dello spirito si rende indispensabile. Ebbene una grammatica dello spirito non esiste ancora.

Una grammatica dello spirito non solo non viene insegnata ma della stessa non si conosce neppure l’esistenza e questo perché ancora non esiste, ancora non esiste come conosciuto “spirito”.
Riprendo quello che ora si comprende essere solo un esempio: “il pulpito non cancella la colpa”, questo asserito può divenire un assioma, una regola, che deve entrare nella testa di tutti e dovrebbe essere segnalato come errore, errore logico, l’uso improprio del pulpito come esimente.

“Cerca prima dentro di te”, dovrebbe rientrare negli imperativi morali. La mancanza di questa semplice regola grammaticale permette all’ignoranza di rivolgersi in modo ignorante agli ignoranti e ottenerne il consenso.

“Si io o lui, ma loro …” è un errore grammaticale logico che essendo nella testa di tutti permette a cattivi poteri di abbindolare il popolo. La mancata educazione del popolo è per certo una colpa dei governanti, a volte strumentale ma di fatto anche un fatto dovuto all’ignoranza delle stesse persone che ci governano: ci sono e ci fanno. Una falsa coscienza fa loro da alibi.

Quello che è sconfortante è che tutt’oggi non venga avvertita la necessità di trovare per il linguaggio una grammatica dello spirito e di insegnarla nelle scuole. Mondialmente. Uno studio organico che compendi verità grammaticali dello spirito mirato ad innalzare la cultura popolare e non solo popolare si rende sempre più necessario come freno ad un turbocapitalimo che trascina i valori in basso, a soddisfare gli istinti, rivendicando in questa soddisfazione la libertà.

Cliché, adagi popolari, opinioni ignoranti ammorbano lo spirito e finiscono con l’ammalare l’anima. La degradazione del linguaggio è degradazione dello spirito, del singolo come di una nazione.

Una grammatica dello spirito, un compendio quanto più possibile organico delle regole e degli errori in cui più comunemente la logica può incappare deve essere scritta ed essere materia di insegnamento scolastico. È incredibile che ancor oggi nel primo mondo non si sia avvertita la necessità di questo insegnamento culturale.

L’interlocutore che cita il pulito a discolpa dovrebbe essere immediatamente bloccato sottolineando come errore grammaticale la logica usata.  Possibile solo se e  nella misura in cui la grammatica è da tutti conosciuta.

Allo stato attuale delle cose questo percorso è solo individuale, non ha regole scritte, e non permette all’eccellenza di emergere, anzi chi ha lavorato su se stesso non tanto per emergere quanto per migliorarsi viene accusato di essere un intellettuale e come tale, secondo un altro adagio trasversalmente condiviso, inviso al popolo e a chi sta al potere.    Non ho parole …   (lavoro in corso) …




Se con la cultura non si mangia, di ignoranza si muore.

Una tra le principali cause del declino del nostro paese e che “si fa in modo che si riduca il consenso sociale attorno alla cultura e tra le cose ‘sdoganate’  ci sono la rozzezza e l’ignoranza”.

Questa amara constatazione  è quanto scaturisce da una recente analisi sociologica sullo stato delle competenze linguistiche nella popolazione italiana condotta  attraverso gli esiti delle prove di ammissione alle facoltà universitarie (“L’Italia dell’ignoranza”di Graziella Priulla, ed. FrancoAngeli, 2011.  Libro recentemente recensito da Mario Pirani sul quotidiano  ‘laRepubblica’).

Alla facoltà di Lettere di Firenze, per esempio, risulta che il 50% degli studenti non abbia superato il test d’italiano: per alcuni di loro la ‘lottizzazione’, che  magari criticano come uno dei mali della politica, significa ‘fare le lotte’.

D’altra parte, dalle comparazioni internazionali risulta che meno del 10% della popolazione italiana è in grado di comprendere, indipendentemente dal livello d’istruzione, i contenuti di qualsiasi testo ai 2 livelli più alti dei 5 previsti dai test (gli standard internazionali sulla competenza alfabetica si pongono tra valori compresi dal 20% al 30% della popolazione). A simili  risultati era giunto con le sue analisi Tullio De Mauro, allarmato per l’analfabetismo di ritorno che coinvoge  una gran parte della popolazione.

Ho aderito con convinzione al referendum per cambiare la legge elettorale esistente, tuttavia mantengo anche la convinzione  che la democrazia si fonda sulla cultura di una popolazione e di conseguenza sulla sua capacità di partecipare e di comunicare.

Ora, ricordando  quanto sosteneva Walter Lippmann, sebbene in relazione alla funzione della stampa: “(…) Il governo rappresentativo (…) non può funzionare bene, quale che sia la base del sistema elettorale, se non c’è un’ organizzazione  indipendente che renda i fatti non visti comprensibili a quelli che devono prendere le decisioni”  (L’opinione pubblica, 1921), vi è da chiedersi, una volta  garantito il diritto di scegliere i rappresentanti politici in Parlamento,  come potranno  esercitare tale diritto quei cittadini di oggi e di domani che risultano ‘ignoranti’.




Il pensiero debole

L’esperienza non conta nulla.  In genere si ritiene che “ciò che conta” sia l’esperienza; la pratica, si dice, conta più della grammatica.  Sull’esperienza, l’esperienza personale, si formano le nostre opinioni, ma non solo.

Più profondamente dell’opinione si strutturano convinzioni che investono la sfera personale emotiva. Detto in uno, le nostre convinzioni siamo noi, noi per quello che siamo. Ecco perché cambiare opinione è se non impossibile, molto difficile. Significherebbe destrutturare, ovvero rinunciare a non solo a tutto quello che finora abbiamo creduto, ma accettare lo “spaesamento”, un vuoto esistenziale e con esso l’impossibilità di esercitare quello che riteniamo un nostro diritto “il diritto di esprimere la nostra opinione”, di essere noi.

L’accettazione della nullità del valore della nostra esperienza crea una disistima, una caduta dell’autovalutazione non solo del discorso nel dialogo, ma della persona. Per questo le opinioni sono sempre sostenute con un accanimento che va molto al di là della cosa discussa.

Il legame affettivo che lega la persona all’opinione porta il dialogo a una disputa in cui è pretesa una vittoria e la sopraffazione di uno sull’altro. Il discorso viene a mancare di oggettività e l’oggettività viene pretesa nell’opinione.

In una discussione l’esperienza personale può essere solo utilizzata per esemplificare, per far intendere una teoria già altrimenti  espressa,  una tesi diversamente formulata in base a principi logici oggettivi. Orbene l’esperienza personale non ha nessun valore né per costruire teorie né per difendere tesi e non può mai essere portata in un discorso né per affermare tesi né per confutarle.

Questi principi non sono a loro volta opinioni ma seguono oggettivamente leggi logiche e logico statistiche. La mancata acquisizione da parte dello spirito di questi principi vanifica ogni dialogo ogni discussione.

Ogni sistema necessita dell’analisi delle variabili intervenienti, variabili alle quali va dato un peso per stabilirne la pertinenza e l’incidenza. Id quod plerumque accidit, quello che per lo più accade: la statistica. (nota)

I più infatti si basano per misurare la realtà sulla propria esperienza in base all’accaduto, a quello che a loro è accaduto, formulando quella che viene giustamente definita da Platone l’opinione ignorante, strumento di sfruttamento principale di certa politica.

In una popolazione di dati molto estesa, ogni opinione qualsiasi essa sia sarà suffragata da innumerevoli esempi, moltissimi sono gli esempi che nella propria vita possono essere trovati a conforto della propria opinione, opinioni che si consolidano esempio su esempio e divengono nel tempo convinzioni ovvero posture dello spirito.

Ovviamente per ogni ipotesi siffatta si possono parimenti trovare un numero uguale di  esempi contrari, nascono le discussioni ignoranti. Per gli uni gli altri vivono sempre nelle favole.

Si è così costretti ad assistere a pseudo dibattiti cui democraticamente viene attributo a questo dire ignorante la dignità di opinione, chi assiste possedendo identica mentalità non avverte minimamente l’inganno e pensa solo a schierarsi.

Non è possibile intervenire. Intervenire a favore di una tesi piuttosto che di un’altra significherebbe abbassarsi al livello della discussione e perdere la conoscenza.

Queste opinioni ignoranti appartengono naturalmente per definizione alla maggior parte della popolazione, di qualsiasi popolazione si tratti. Le opinioni ignoranti maturano da quello che tutti definiscono esperienza, un nulla di conoscenza costruito attorno al proprio spirito.

Bisogna comprendere che derivare convinzioni dall’esperienza è di fatto cosa naturale, è il primo approccio all’essere e rimane l’unico se non ne maturano altri: la pratica conta più della grammatica e tutti hanno diritto di parola, anche gli asini in classe; così è stato e così sempre sarà in quel periodo che precede la maturità dell’uomo nella filogenesi come nell’ontogenesi, si tratta come detto di una postura primordiale dello spirito nella conoscenza.

Da sempre i nostri antenati così hanno inteso e ancora intendono la realtà. Viviamo insieme a loro, e sono la maggioranza. L’opinione ignorante domina nella convinzione che la statistica sia quella scienza per cui se in una popolazione uno ha due uno non ne ha, in media ognuno ha un pollo; seguono grasse risate e sguardi di intesa.

La disciplina che studia le caratteristiche delle popolazioni secondo la loro variabilità contrariamente a ciò che si pensa é una scienza esatta e la prima regola da imparare é che anche se esiste una variabilità molto elevata tra gli individui di una popolazione la media difficilmente varia e varia per parametri differenti da quelli che riguardano gli individui singolarmente considerati, e differenti dalla variabilità locale, dai parametri riscontrabili di zona in zona, il sud, il nord, il centro.

Ciò che vale per una popolazione può non valere per l’individuo, né per una parte di essa. Attribuire ad un individuo ciò che appartiene a una popolazione, come attribuire ad una popolazione ciò che caratterizza un individuo determina quella che si può a ragione definire un errore logico, una ragionamento ignorante fondato sulla falsa logica dell’ analogia, del sillogismo, e della correlazione, strumenti peraltro preziosissimi per l’intendimento della realtà agli albori della civiltà.  Si tratta infatti della generalizzazione.

Chiarisco da subito che generalizzazione può essere considerata solo il fenomeno appena descritto, di contro avere un’opinione su di un individuo come su un popolo non solo non significa generalizzare ma  è giusto e legittimo.

Tuttavia così come ignorante deve essere considerata la generalizzazione testé definita, ignorante deve essere considerata ogni opinione fondata sull’esperienza; è ignorante generalizzare quello che per esperienza si è appreso, anche perché per lo più non ce se ne avvede, anche questo fenomeno estensivo del sé più che della propria opinione rientra nella generalizzazione; per esperienza un abitante del nostro paese, che non abbia conosciuto altro che il proprio villaggio, sarà portato ad affermare che l’altezza degli uomini e delle donne é quella da lui riscontrata, sia o non sia quella statisticamente riscontrata, e affidandosi alla vista difenderà la propria opinione anche a discapito della scienza, una materia che peraltro non conosce e verso cui pertanto diffida.

Fonderà sulla personale esperienza una verità che estenderà tanto più quanto più limitata é la conoscenza per un’ansia naturale di dare nome ad ogni cosa in modo da poterla controllare in un universo tanto più ristretto quanto minore é la conoscenza.

La generalizzazione fondata sulla personale esperienza é proporzionale all’ignoranza. Più uno è ignorante e più generalizza, prima dà un nome alle cose e prima si chiude nell’opinione.

Quanto più l’esperienza è limitata quanto più l’opinione è ignorante e di una popolazione, un universo di dati, non si può avere conoscenza se non studiandola, e studiandola a fondo. Lo studio di una popolazione è la statistica, una scienza di cui tutti ignorano l’esistenza, politici compresi che ritengono solo di servirsene anziché di servirla.

Anche i dati sono utili ma per chi ha compreso ciò che è veramente necessario è una mentalità, la mentalità statistica.

Per l’individuo l’emozione legata all’esperienza é la chiave di lettura del mondo, il suo fine è l’utilizzo e la lettura sarà tanto più limitata quanto é più limitato lo spirito nell’analisi dell’esperienza vissuta nella conoscenza della parte e nel disconoscimento del tutto. Uno, due, tre… e il mondo è già detto e per come da me detto.

Il mondo al suo apparire affiora alla coscienza con relazioni elementari che non vanno al di là della correlazione e dell’attesa del ripetersi di un avvenimento esperito, un evento che si è legato accidentalmente alla memoria; un sillogismo, un’affinità solo linguistica di concetti o a volte di sole parole, chiude immediatamente il discorso con la conseguente generalizzazione del proprio accaduto a tutti quegli avvenimenti che presentino caratteristiche appena analoghe.

Alle volte non si è neppure in grado di riconoscere.

In che cosa consista l’analogia é soggettivo sia della specie, che dell’individuo, nonché dipendente dalla situazione in cui l’evento é venuto  in essere e a ripetersi; ma questo porterebbe lontano, rilevo solo che la correlazione oltre ad essere il primo e più importante fondamento di ogni logica é tuttavia anche fonte di molti inganni e sta alla base di errori posturali dello spirito quali astrologia, magia e superstizione.

Quello che qui si vuole rimarcare é che come per altri esistenziali, la generalizzazione che nasce dall’esperienza individuale é stato naturale dell’essere, la prima propensione dell’io, è una postura dello spirito nel suo primo tentativo di comprensione del mondo. Spesso rimane l’unico.

Questo é lo stato naturale delle cose per l’essere esistenziale uomo ai primordi della cultura come della vita. Il superamento dell’esperienza come metodo sulla strada della conoscenza risiede ovviamente in vie diverse di accesso alla cultura che all’esperienza diretta non si rifanno, ma che cercano di approfondire la conoscenza attraverso lo studio di realtà più vaste del vissuto personale, o fidandosi delle ricerche e delle verità altrui o sperimentandosi direttamente in realtà diverse dalla propria.

Entrambe le vie sono necessitate e complementari. Sicuramente non é necessario aver vissuto per aver inteso ma é necessario ampliare lo spirito per diversamente intendere e relegare a un sé emotivamente per altre vie noto.

Queste altre vie necessitano di metodi diversi dalla correlazione e dal sillogismo e fondano la logica, ma esprimono anche l’essere nell’apertura per il senso legato ad una diversa emozione del mondo. Conoscenza razionale e conoscenza emotiva sono entrambe connesse all’intelligenza, alla postura dello spirito e quindi nel fondamento all’emozione cognitiva dell’essere, all’apertura.

Quando lo spirito chiude nulla più può essere scoperto, qualsiasi sia l’altezza a cui chiude.

Tutto ciò per dire che senza queste armi ogni discorso é inutile e che solo proporzionalmente al possesso delle stesse può essere significativamente compreso quanto da me detto e soprattutto ancora da farsi.

La comprensione di un’emergenza esistenziale in quanto sistema olistico di non facile definizione pretende una capacità di flessibilità, di immaginazione e di rimando delle aspettative, non indifferente, bisogna saper intuire e saper differire tenendo come valida in assoluto per ora solo la via intrapresa, indipendentemente da quelle che saranno le conclusioni e se ci saranno conclusioni.

L’esperienza dello spirito é nella conoscenza indipendente dai legami di spazio e tempo a cui la quotidianità o il contingente ci costringe.

Si potrebbe obbiettare che la mia indagine non si avvale di una conoscenza diretta dei fenomeni servendosi di metodi consentiti dalla scienza, ma di formulazioni di ipotesi a priori, di teorie indimostrabili se non parzialmente attraverso i fossili comportamentali esistenti.

Verissimo, potrebbero anche essere il frutto di uno spinello dopo un’ indigestione. C’é ovviamente un tuttavia. L’idea che la realtà oltre che comprensibile sia logica non é certo mia, io ho solo sposato questa tesi, aggiungendo che la comprensione é legata all’emotività, all’empatia; il mondo si disvela all’essere esistenziale per le capacità di  ogni essere di  penetrarlo attraverso la rappresentazione, la riproduzione in sé del mondo per l’emozione che dalla rappresentazione riceve, ovvero come detto non già più solo coi sensi, non solo nella comprensione, ma nell’emozione che ne é il fondamento.

Emozione che il ricevente ritiene per elaborarla dentro di sé, per essere in una nuova emozione come risposta al mondo.

All’empatia, a questa sorgente di ogni capacità di analisi, io ho fatto riferimento per leggere e formulare ipotesi sulla realtà esterna, per quanto lontana nello spazio come nel tempo. Ho pindaricamente rappresentato me, proiettandomi in quel mondo remoto del nostro essere per configurare quale esso sia stato, dandomi quelle limitazioni da me suggerite che covano in ciascuno sotto la cenere.

Il percorso fin qui compiuto é certamente criticabile nelle ipotesi fatte come nelle spiegazioni date e sicuramente degno di approfondimenti, mi attendo anche smentite, e nonostante tutto più che plausibile.

Che le cose siano avvenute proprio a questo modo, direbbe Platone, io non lo posso affermare tuttavia qualcosa di simile … Il perché di questo viaggio dell’immaginazione nel tempo trova molte spiegazioni una delle quali é il superamento dell’ ”orrido naturale”.

Di comune accordo con Leopardi, la natura é matrigna; tutto ciò che ci spaventa , indigna o terrorizza oggi, passato in giudicato come legge di natura, turba la nostra esistenza.

Vi sono convinzioni radicate all’essere nella sua prima infanzia ancor prima dell’insorgenza dell’io, così nella filogenesi come nell’ontogenesi, che si radicano nello spirito ancor oggi, nella quotidianità, manifestando un sentire primitivo, quando non primordiale, che convive nel quotidiano con l’informatica e i viaggi spaziali.

Pulsioni ancestrali legate all’essere fin da epoche remote convivono con sentimenti di giustizia, rispetto, tolleranza, bellezza e quant’altro dell’eccellenza cui l’uomo ha saputo giungere. La dispersione dell’essere nell’uomo é massima e destinata ad aumentare; di fatto non esiste nessuna specie paragonabile per difformità di esistenza.

I topi sono tutti uguali, non gli uomini. Nessuno é meno uguale degli uomini. Questo suggerisce una totale diaspora dell’essere nell’esistenziale uomo per quanto riguarda il modo di esserci, ovvero nell’emozione che lo fonda, se un intervento contro natura non portasse le diverse esistenzialità ad unirsi.

Questo intervento contro natura può essere solo addebitabile alla cultura. Anche per questo la cultura é essere separato. É la cultura che artificialmente, ad arte, tiene uniti gli uomini.

Il superamento dell’orrore può avvenire solo grazie a quell’altra coscienza di sé così come nella mia indagine si va delineando.




Con la cultura non si mangia

Spesso accade in “democrazia” che chi raggiunge la notorietà, comunque raggiunta, venga interrogato su questioni che esulano completamente la sua competenza e l’opinione data assurga comunque a verità non per il contenuto ma per il pulpito, per l’autorità che l’ha proferita.

Il personaggio assurto alle cronache viene intervistato e gli viene richiesto di esprimere opinioni che in nulla ineriscono la sua professione.  Questo fa parte di un cattivo giornalismo che incontra una mentalità popolare che riconosce la verità solo nel pulpito per l’autorità che vi si insedia. Ingenuità popolare di cui per realismo qualsiasi potere si nutre.  Da quello politico a quello dei media.

Eppure fuori dal seminato tali opinioni altro non hanno che valore di opinione, di chiacchiera, il valore che si può dare alla parola di tutti, all’uomo della strada intervistato per caso e per opportunità. Ciò che domina la scena, che venga da personaggi noti o dall’uomo della strada, è l’opinione con valore di chiacchiera. Seguono sondaggi.

Il problema nasce quando a stare sul pulpito è l’uomo della strada ovvero colui che raccoglie con la chiacchiera e grazie alla chiacchiera i maggiori consensi. Per la gente essere maggioranza significa “avere ragione” a meno di trovarsi in minoranza e allora solo allora, disorientata, sentirsi costretta a riferirsi diversamente al valore dato termine e cercare nuovi significati da dare alla democrazia.

Comunque sia, dando ascolto e voce alla sola chiacchiera tutto il sociale della chiacchiera si nutre e con al chiacchiera si alimenta il potere.

Per il realismo, una filosofia dell’essere tutta da discutere,  la chiacchiera è il mezzo per raggiungere l’utente, the consumer, e la chiacchiera assurge al diritto di  chiamarsi ed essere chiamata libertà di parola, libertà di espressione. Si potrebbe ritenere a questo punto che la chiacchiera debba essere proibita, che non debba avere possibilità di espressione. Assolutamente no! La chiacchiera, il parere dell’uomo di strada, non deve e non può essere proibita, è bene che essa si manifesti e si manifesti in molti ambiti, essa è preziosissimo campo di indagine e di massimo interesse per comprendere il grado di avanzamento dello spirito di una nazione indipendentemente da giudizi di valore. Questa è la virtù dell’ascolto in democrazia.

Rimane che  una cosa è tenerne conto, una cosa criticare, una cosa incoraggiare, un’altra ancora servirsene per fare audience o peggio servirsene per dare la scalata al potere. Il voto dato a tutti, suffragio universale, permette di salire al potere chi meglio si fa interprete della cultura popolare, della mentalità del popolo e il livello culturale dal popolo raggiunto mette al potere chi meglio sa cogliere il suo spirito per alto o basso che sia.

Realisticamente, senza entrare in merito con giudizi di valore, in genere il livello raggiunto è un basso sentire, una grande immaturità, tutti abbiamo visto film in bianco e nero e bonariamente riso dell’ignoranza del popolo in passato ma anche se oggi, ringraziando il cielo, l’ignoranza non è più la stessa non possiamo di certo affermare di essere giunti a maturazione.

La povertà di spirito è sicuramente scusabile ma per certo non è condivisibile,  né tantomeno da assumere da parte di governanti al potere come volontà popolare da esprimere nel governo di una nazione. Tutto ovviamente dipende dalla maturità del popolo, se un popolo è maturo il suo sentire è elevato e in democrazia esprimerà buoni governanti.

Dare alla gente quello che la gente vuole e l’azione più abbietta e ipocrita  che un’istituzione  può esprimere, è pura demagogia. Non si danno i gelati ai bambini per farsi amare. Indipendentemente da ogni volontà popolare è a questa maturità che ogni buon governo deve tendere, questa la cultura.  Il dovere di ogni governo è far maturare lo spirito, elevare la cultura.

Purtroppo l’ignoranza spesso sale al potere e tocca a noi cittadini sentire frasi dette da ministro a ministro del tipo: con la cultura non si mangia. Terribile! non ci fanno, ci sono!

Questa l’alta filosofia siede oggi in Italia sugli scranni del potere. Si arriva a sedersi su poltrone da ministro facendo i gelatai. I bambini sono contenti e li votano e sono la maggioranza. E c’è chi pensa di mettersi in concorrenza.

Ma  l’onestà intellettuale pretende una verità che assolutamente sconfessi l’ipocrisia, il pregiudizio, l’ignoranza e la menzogna, ingredienti di cui spesso chi è al potere si serve per ingannare il popolo.

Se si ritiene di usare gli stessi strumenti sarà possibile anche vincere ma si perderà il sale e l’inganno per il popolo potrebbe essere anche maggiore.

Ma al di là di giudizi di valore che generano malessere e insofferenza in tutti noi, si deve realizzare che il sentire, il modo di sentire del popolo, è parte costitutiva dell’essere; la sua mentalità è argomento principe dell’evoluzione culturale, politica e sociale. La Mentalità costituisce lo Spirito e lo Spirito la Cultura. Ad ogni mentalità deve competere la possibilità di evolversi, ogni mentalità  deve possedere il seme per l’Apertura. A questa apertura dello Spirito deve rivolgersi ogni governo, questa l’evoluzione, il reale progresso di un popolo. A questa devono essere rivolte tutte le analisi e i progetti avvenire.

Dello Spirito non si parla né a destra, né a sinistra, né in centro. Dello Spirito la politica non si cura e si deve assistere alla miseria intellettuale in una frase che vanifica lo spirito: con la cultura non si mangia.