La civilta’ impone il rispetto non l’uguaglianza

Una ragazzina viene violentata dal branco: stuprata e svergognata. In modo indipendente dalla colpa la femmina a giudizio di tutti a è marchiata dall’infamia. Questa mentalità non è altro che un residuo ancora vivo 

nel meridione d’Italia e in molti popoli della terra del giudizio in assenza di colpa, giudizio che testimonia come sentimenti primitivi, di sentimenti si tratta, sopravvivano all’interno delle culture attuali.

Testimonia altresì l’esistenza di una legge morale: non ci può essere condanna senza colpa. Questa che ora si presenta come un’ovvietà e stata una delle più grandi conquiste morali dell’umanità, un’umanità che è stata da sempre “fuori legge”; questo assunto segna la nascita della Giustizia in seno alla Legge, un Titano cieco e oscuro che dall’eternità del tempo l’ha preceduta.
Il valore ovvio e incontrovertibile di questa Legge Morale esclude dalla chiacchiera dannosa e sterile ogni relativismo. Il “chi decide cosa” nell’assolutezza della legge è già deciso: è e rimane in assoluto un parametro di Verità. La Verità esiste.

Ovvio che chi vive in una mentalità passata dove la “legge della jungla” impera, la jungla ha le sue leggi e i suoi imperativi. La storia di queste leggi copre milioni di anni e dal comportamento animale al comportamento umano centinaia di migliaia di anni in cui le leggi non sono mai state le stesse, ma come ogni altro esistenziale si sono evolute ed evolute sempre più velocemente secondo parabola. La considerazione della femmina, per più che giustificate ragioni di sopravvivenza del gruppo, non poteva in passato essere quella che è attualmente divenuta. I diversi gradi di evoluzione della civiltà hanno visto mutare di volta in volta la considerazione da un puro oggetto d’uso per il sesso e la prole a un essere di pari dignità, una “persona” al di là, al di sopra del genere di appartenenza. Per inciso questo processo deve essere ancora concluso per difficoltà da parte di entrambi i generi a concepire “persona”. La “persona” di fatto non fa mai alcun riferimento al genere né quando pensa né quando agisce.

Il salto da “oggetto a persona” copre miriadi di anni e segna con un vettore, la direzione della civiltà e l’esistenza della Verità: una verità morale che si afferma di fatto nello spirito dell’essere di contro a ogni becero relativismo. I relativisti che vorrebbero “culture di uguale dignità” sono solo pensatori di sterile e debole pensiero con cui non vorrei nemmeno polemizzare se un malaugurato falso senso dell’uguaglianza e della giustizia non fosse nella testa di tutti, anche dei migliori. L’idea che la verità sia relativa e che nessuno possa giudicare un altro dal proprio punto di vista sommata alla tirannica democrazia del dubbio, fanno di questi personaggi i più forti oppositori all’avvento della Verità.

Che chi giudica svergognata una bambina innocente in quanto stuprata, viva nell’assoluta convinzione della correttezza del proprio sentire, (sentire confortato dal sentimento di tutti, sentimento su cui si organizza un’intera cultura) non consente di attribuire a questa cultura un valore di verità se non relativamente all’epoca e alle condizioni in cui si è formata per la necessità che l’ha fondata. Se questa cultura viene confrontata con quella di chi nello stupro vede la colpevole violenza dell’aggressore e l’innocenza senza macchia alcuna della vittima, la superiorità di quest’ultima cultura è ovvia, assoluta, inoppugnabile.

La morale non può che essere soggettiva e come tale è realativa solo alla grandezza dello spirito che giudica, ma grandezza dello spirito giudicante obbedisce a leggi che faticosamente si sono fatte spazio ma che sono altrettanto assolutamente oggettive. La conqueista di queste leggi da parte dello spirito soggettivo univerasalizza lo spirito e fonda nello Spirito la sua verità, Verità morale. In questa adesione alla Legge Morale si produce un punto vista soggettivo oggettivamente più alto. Chi vive all’interno di una cultura fonda il proprio “sentire” sulla base educativa ricevuta dall’odore del latte materno. I più all’oscuro del processo evolutivo che ha portato in porto, nel qui e ora, tutto il passato, vivono come propri tutti i retaggi sentimentali anche i più beceri e retrogradi, quelli che ora e solo ora, la civiltà chiama pregiudizi.

Lo spaventoso salto nella considerazione della donna è un parametro fondamentale, non il solo, per considerare quanto sia insulsa e sconsiderata ogni teoria sull’eguaglianza culturale dei popoli. Un’abissale ignoranza attanaglia ancora l’umanità. Esiste un’evoluzione morale, le culture non sono equipollenti, i popoli non sono uguali. Quando il giudizio si lega alla colpa nasce la giustizia, prima non occorreva ci fosse colpa per la condanna. La civilta’ impone il rispetto non l’uguaglianza. Solo la cultura ci salverà.




La “banalità” di Gomorra ci dice come eravamo

Unknown“E’ anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale” (Hannah Arendt).

Gomorra-La serie non è solo una fiction, altrimenti non si spiegherebbe il suo successo. Prima produzione italiana nel suo genere all’altezza della migliore produzione americana, offre l’occasione di comprendere come nel nostro paese la questione morale non sia relegata solo nei partiti, ma sia diffusa nella popolazione. Gomorra è un documento etnologico di alto valore  che dimostra quanto la cultura sia il vero fondamento materiale della società e per questo non mi soffermerò sulla qualità della sua sceneggiatura e regia o sulla bravura del cast, su questi elementi altri hanno già espresso i meritati apprezzamenti che per altro condivido, ma voglio piuttosto assumere un punto di vista antropologico per mettere in evidenza le relazioni che legano i personaggi della fiction i quali si muovono negli ambienti degradati delle periferie urbane come fossero i dannati in un girone dell’inferno.

La realtà rappresentata da Gomorra è quella della camorra napoletana, una delle organizzazioni della criminalità organizzata italiana, (analoghe considerazioni sono trasferibili all’ndrangheta o alla mafia) vista però questa volta senza assumere dall’esterno la facile posizione della condanna morale, rappresentata dalle istituzioni che si contrappongono alla illegalità, ma ripresa al suo interno dal punto di vista del male. Nella convinzione etica di poterlo sconfiggere tenendolo separato dal bene, ogni volta che il male si mostra a noi nelle sue più efferate manifestazioni ci induce orrore provocando in noi repulsione, ma nel contempo inibendo la possibilità di comprenderlo col pensiero. Questo accade perché, come ancora Hannah Arendt ci ricorda, l’approccio al male deve procedere in un senso diverso: “La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto”.

Nella misura in cui rileviamo questo mondo del male, sebbene la nostra percezione si sforzi di tenerlo lontano dalle nostre coscienze emarginandolo ai confini della nostra vita quotidiana, esso ci informa con la sua diffusione e le sue modalità quanto sia endemico nella nostra società e non solo nelle periferie.

L’attrazione che proviamo nel seguire lo svolgimento degli eventi nella fiction non deriva tanto dalla curiosità di conoscerne l’epilogo, dal momento che sappiamo bene che quella realtà non è finita. L’attrazione deriva dalla risonanza che provoca in noi l’ambiguità esistente tra istinti e sentimenti che reggono quella fiction: noi interpretiamo coi nostri sentimenti i comportamenti dei personaggi che in realtà dettati da impulsi istintivi controllati a fatica. Si tratta degli istinti primordiali, ancestrali che hanno guidato il comportamento della specie umana nelle sue varie forme evolutive  per milioni di anni e che ancora albergano nel nostro profondo, pronti a riemergere non appena la cultura che abbiamo evoluto per educarli in sentimenti umanitari viene meno per le condizioni materiali di sottosviluppo economico, sociale e ambientale.

Il legame di sangue, l’appartenenza al gruppo, il controllo del territorio, la gerarchia in ogni rapporto tra gli individui, l’assenza di una realtà terza a cui riferirsi (la religione riguarda i morti), la forza come unica virtù (parola latina che significa potere), la paura come meccanismo di difesa, il tradimento come unica evasione dalla sottomissione, la vendetta personale come giustizia, si tratta degli istinti primordiali con i quali l’umanità ha convissuto e dai quali si è progressivamente evoluta tramite la cultura. Questi stessi istinti agiscono in Gomorra sostituendosi ai sentimenti che noi evoluti proviamo ed è per questo che l’opera non è più solo una fiction che descrive una realtà sottosviluppata, ma diventa lo specchio deformato degli istinti ancestrali che ancora albergano in noi sopiti nell’inconscio collettivo.

Condivido la spiegazione del successo di Gomorra fornita dagli stessi attori e sceneggiatori nella misura in cui si richiamano all’epica degli antichi greci, potremmo infatti guardare i personaggi come fossero delle maschere che agiscono guidate dalla volontà dei demoni (dàimon in greco significa “guida divina”, da cui deriva il concetto di destino), tuttavia, aggiungerei il fascino della saga dei popoli nordici e soprattutto, sempre rimanendo nella cultura greca antica dalla quale la nostra cultura proviene, la potenza del mito: quella narrazione investita di sacralità relativa alle origini del mondo o alle modalità con cui il mondo stesso e le creature viventi hanno raggiunto la forma presente in un certo contesto socio culturale o in un popolo specifico.

Quanto al successo dell’opera, dovremmo occuparci meno della sua audience tra il pubblico italiano e preoccuparci di più dell’intensità dei fenomeni imitatitivi o emulativi che si potrebbero verificare soprattutto tra i giovani. L’attenzione ai giovani non deve però limitarsi a quelli perduti nelle periferie urbane, ma volgersi a tutti, in quanto la stagione stessa della gioventù (lo “stato soave” di Giacomo Leopardi) costituisce con il portato del suo immaginario avventuroso la condizione “periferica” nell’umana formazione dell’individuo.

È in questa prospettiva che l’osservazione critica rivolta a Gomorra, secondo la quale i protagonisti per come sono stati ideati e per come gli attori li hanno così realisticamente interpretati possano indurre nei giovani e in generale nelle persone psicologicamente più fragili e socialmente più deboli fenomeni emulativi, acquista credibilità; a condizione cioè che essa venga considerata nel contesto di una società fondata sui ruoli che si è trasformata in un immenso accumulo di spettacoli, dove tutto ciò che prima era direttamente vissuto si è ora allontanato in una rappresentazione. Tuttavia, i timori attorno ai rischi di vedere il male per quello che è nulla tolgono al valore di Gomorra e alla necessità di diffonderne quanto più possibile la conoscenza, dal momento che proprio nel pericolo, per dirla con le parole di Martin Heidegger, cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva.

Una volta isolato il male, compresa la sua fenomenologia, occorre definire la cura, al di là della pur necessaria azione di contrasto della polizia e della magistratura, agendo a livello sociale sul piano culturale. Un primo vaccino contro i rischi da identificazione è costituito dall’ironia delle parodie di Gomorra come già circolano sulla rete con un successo pari a quello della fiction medesima: ridere del personaggio alienato che si rapporta nella realtà quotidiana ripetendo le battute del copione della fiction è un modo di affrontare con distacco ciò che è riprovevole e che tuttavia ci affascina. Più organicamente occorrerebbe diffondere la fiction nelle scuole superiori, penso nel triennio, come fossero documentari scientifici di antropologia accompagnando quindi la visione delle varie puntate con una adeguata e competente presentazione e commento. Infine, forse la più significativa per il carattere d’urgenza che la lotta contro la criminalità organizzata richiede, cito l’intelligente proposta del Presidente di Spazio Cultura Italia apparsa su l’Huffington Post con il titolo “Se il cast di Gomorra adottasse un’associazione di periferia”. L’idea è che gli attori escano dalla fiction e assumino nella realtà, cominciando ad appoggiare le iniziative delle associazioni che già operano nelle periferie di Napoli, il ruolo di eroe in difesa del bene (la legalità) che nella fiction è stata volutamente omessa per meglio comprendere il male (la criminalità).

Guardando Gomorra non solo noi ci avviciniamo alla verità conoscendo la fenomenologia del male come si manifesta in una parte della realtà, per altro a noi vicina, ma ci rendiamo conto di come abbiamo vissuto per migliaia di anni e possiamo quindi cogliere l’occasione per comprendere il reale significato della cultura, come essa abbia agito nell’evoluzione millenaria educando gli istinti in sentimenti facendo progredire il nostro spirito verso i diritti e la compassione. Gomorra è per un sito che si chiama “la cultura vivente” e che ha per incipit “dalla resistenza al risorgimento per un nuovo rinascimento” un valido esempio della via verso la verità.




La cultura non è un’ideologia

images-2Reyhaneh Jabbari è stata condannata a morte in Iran per aver ucciso a coltellate chi stava per violentarla. È stata quindi impiccata per il mancato perdono da parte della famiglia della vittima, che avrebbe potuto convertire la pena di morte in detenzione. Tutto secondo il diritto islamico della “qisas”, la legge del taglione.

Questo fatto terribilmente osceno dovrebbe far riflettere i benpensanti relativisti che considerano tutti i popoli avere uguale dignità. 
Diversamente, molto diversamente (e come diversamente potrebbe essere ?) ogni popolo staziona su diverse considerazioni dell’ “Altro da sé”, determinando di volta in volta diverse regole di convivenza: dal tribalismo, dalla barbarie, al rispetto, all’amore per il prossimo con diverse gradualità che vanno, per i pochi che hanno l’intelligenza di comprendere, da zero a infinito. Non res sed modus in rebus.

La mancanza delle dimensioni  e del saper dimensionare all’interno del sé pregiudica la capacità valutativa e l’intelligenza del reale. L’appiattimento relativista colora la realtà di uno squallido bianco o nero. Non è cosa da poco, non si tratta di parole ma della denuncia del mancato spessore con cui la maggioranza delle persone vivono la propria esistenza a detrimento di sé come del prossimo. Generalizzazioni che trovano conforto in frasi come “ci saranno sempre i ricchi e i poveri, i potenti e gli afflitti …” per concludere con il fatidico “nulla cambia”. Una tale insipienza non meriterebbe alcuna attenzione se non fosse che l’ignoranza che si fonda su una tale incapacità discriminativa nella totale assenza di un’educazione dello spirito infesta quotidianamente ogni possibile riflessione in ogni possibile discussione, con chiunque e a qualsiasi livello. La mancanza di uno spessore culturale infatti denuncia l’ignoranza assoluta della comprensione o “del quanto e del come ” o di quanto e come l’ evoluzione culturale, non solo storica, ma più propriamente e profondamente evolutiva sia avanzata attraverso i millenni.

Personalmente sono ben cosciente dei profondi cambiamenti culturali che riguardano la mentalità e quindi la convivenza che separano anche una sola generazione dall’altra in spazi di tempo infinitamente brevi. Non vivo oggi nello stesso ambiente in cui sono nato. Io ricordo l’odore: ho educato il mio naso alla memoria. Diversamente, nella maggioranza degli esseri senzienti il sentimento in odore della sola attualità vive il presente rendendo unico il sentimento a giudizio. Questa inaccettabile superficialità recita solo lo “spettacolo” e appiattisce adimensionalmente al “qui e ora” tutta l’esistenza.

Ebbene tutti i popoli sono diversi, sia in qualità che in quantità, ogni popolo ha raggiunto un diverso grado di civiltà e, udite, una diversa dignità. Dignità che si manifesta nella mentalità, nel modo particolare di concepire, intendere, sentire, giudicare le cose, nella considerazione di sé come dell’altro da sé.
Non si tratta di giudicare un popolo migliore di un altro per trarne conclusioni pregiudiziali tendenti al dominio, ma di discernere criticamente in ogni popolo, nello studio approfondito della mentalità, il grado di civiltà secondo quantità e qualità raggiunto, senza abbandonarsi nel giudizio al “sentito” personale o all’ideologia legata alla propria cultura. La cultura non è un’ideologia.

Detto ciò “giudicare è doveroso e irrinunciabile”, non per dirsi migliori o peggiori , ma per valutare la civiltà su oggettivi parametri legati alla convivenza, alla capacità di convivenza di quel popolo con gli altri popoli come alla capacità di convivenza di quel popolo con se stesso. Una petizione umanitaria in difesa dei diritti dell’Uomo non solo ha il diritto, ma il dovere di interferire.

Lo studio approfondito dell’evoluzione dal comportamento animale al comportamento umano rivela cammini comuni a tutta la specie Homo sapiens sapiens, tappe evolutive necessarie e necessitate comuni a tutta l’umanità. Le civiltà sono proiezioni nel positum, rappresentazioni materiali di questo cammino. La conoscenza approfondita di queste fasi è indispensabile per iniziare qualsivoglia discussione sul presente in qualsiasi disciplina. Al di sotto di questa conoscenza io vedo solo l’aprire la bocca.

Il nefasto episodio della donna violentata, richiesta ad abiurare e poi impiccata (per volontà del figlio dell’ucciso) mostra l’arretratezza di una cultura che ha avuto giustificati motivi suo tempo di esistere ma che denunciando ora la sua “crudele barbarie” manifesta a chi vuole intendere che la cultura è in progresso e che questo progresso è una Verità Oggettiva Assoluta,  Verità dello Spirito a prescindere da questioni teologiche. Per i pochi o pochissimi che intendono esiste la direzione, esiste “la retta via” anche se dice Pindaro “tempo eterno è di mezzo”. Ma questo non sconforti , ciò significa anzi che “non c’è confine al miglioramento”. Da zero a infinito, con distinzioni d’essere, odore della vita, che mutano ora nell’arco di una sola generazione (25-30 anni). Abissi.

Solo chi comprende fino in fondo in cuor suo questo ha diritto a parlare. Il resto è solo chiacchiera, merita il silenzio. Di contro il becero relativismo, ora filosoficamente imperante, negando l’esistenza di ogni verità oggettiva permette l’opinione a chiunque respiri salvo poi scandalizzarsi di fronte episodi di questo genere. Solo la cultura ci salverà




Il principio cultura

emergenza culturaCultura è un termine polisemico ovvero un termine astratto cui si possono riferire molteplici significati. In termini generali si può definire cultura ciò che è sedimentato in un soggetto vivente attraverso l’apprendimento dall’ambiente esterno.
Di cultura possiamo parlare quindi anche a proposito degli animali e in un certo senso
anche dei vegetali dal momento che anche le piante apprendono. Tuttavia l’apprendimento riguarda massimamente l’uomo e la cultura umana è l’espressione evolutiva più alta. Per cultura umana bisogna dunque intendere quanto va a depositarsi nell’individuo e nella collettività degli insegnamenti ricevuti dall’ambiente. Da qui la convinzione certa che la cultura inerisca la relazione soggetto oggetto, individuo ambiente, sé e altro da sé. Una convinzione certa non si attua in sede di opinione, ma si determina come fatto ovvero si struttura logicamente.

Per cultura si deve pertanto intendere quanto l’ambiente nella relazione ha depositato nell’individuo e nella collettività. Esiste infatti una cultura individuale e una cultura collettiva, di specie o di gruppo. La dinamica evolutiva pretende che il positum (ciò che si va a depositare) non rimanga mai identico ma sia soggetto a continue trasformazioni secondo modo e quantità delle informazioni ricevute, la cui velocità di apprendimento dipende dalla capacità dell’individuo e del sociale di accogliere nuove istanze (emergenze) che riguardano sia contingenze esterne (quelle sociali) che contingenze interne (quelle individuali) nella relazione.

La dinamica interno-esterno porta alla crescita culturale. Il gruppo non è un individuo, solo l’individuo pensa. Ovvero sia filogeneticamente che ontogeneticamente la cultura è in continuo progresso. Il positum nell’individuo come nel sociale è dunque soggetto a continui rimaneggiamenti.

Il processo tuttavia non è lineare e soggetto a subire battute d’arresto e anche a regressione. L’appreso necessita all’interno dell’individuo come nel sociale di sistematizzazione che porta inevitabilmente a una strutturazione fissa utile alla comprensione pratica della realtà. Convinzioni e regole stanno alla base della pratica sociale. Non sono inamovibili, ma la loro amovibilità sta tutta all’interno degli individui, unico soggetto pensante.

A questa strutturazione fissa che corrisponde a quella che possiamo definire una visione di vita possiamo dare ora il nome di mentalità. La mentalità degli individui é il soggetto della pratica sociale. Da qui la sua importanza. La mentalità può a sua volta essere definita come la visione di vita che il sociale in cui si è nati ha dato all’individuo nella sua particolare accezione, sociale che si definisce come cultura di gruppo o di popolo.

La variabilità individuale rispetto alle regole stabilite dal sociale o dal gruppo soggiace alle stesse e gode all’interno di una limitata libertà a causa dell’ignoranza che l’individuo ha di trovarsi all’interno delle stesse. Una maggiore libertà può essere goduta solo con un avanzamento dello spirito. Questo equivale a dire che si nasce già parlati dalla lingua, ovvero un ambiente che pre-determina la postura mentale dell’individuo, la sua mentalità.

In termini ancora generali possiamo ora definire la cultura come l’insieme degli insegnamenti ricevuti dall’ambiente attraverso il tentativo dell’ambiente di maturare individualmente lo spirito prima all’interno del gruppo e poi per il suo superamento. Questo processo è ciò che noi chiamiamo educazione.

Da ultimo rimane quindi che per cultura bisogna intendere l’educazione dello spirito per la sua maturazione. Una civiltà più progredita sarà di conseguenza una civiltà in cui lo spirito di tutti è più maturo. Il riferimento alla maturità dello spirito separa nettamente la cultura dall’erudizione, rimanendo l’erudizione se presa a se stante solo un accumulo amorfo di nozioni. La maturazione dello spirito non accumula passivamente nozioni, ma ordina attivamente l’appreso secondo direttive etiche ed estetiche. Si deve imparare e insegnare a riflettere passando dal contingente all’estensivo. In definitiva cultura significa educazione al bello e al buono.

Nel 1816 il socialista Robert Owen fece costruire nel villaggio di New Lanark (Scozia) per i lavoratori della azienda da lui diretta che ivi risiedevano e lavoravano, oltre ad una Scuola per l’infanzia e un Nursery Buildings già realizzato nel 1809, l’ Istituto per la Formazione del Carattere, dove : “Le tre stanze al piano inferiore saranno lasciate aperte all’utilizzo degli adulti del paese, i quali devono poter disporre di ogni utilità per poter leggere, scrivere, far di conto, cucire o giocare, discorrere o passeggiare. Due serate per settimana saranno dedicate alla danza ed alla musica, ma in queste occasioni, ogni comodità  sarà predisposta per coloro che preferiranno studiare o continuare qualunque delle occupazioni seguite nelle altre sere.” 

L’educazione spirituale è il pilastro su cui si fonda la civiltà, un’attività dello spirito necessaria e doverosa da parte sia dell’individuo che del sociale. La cultura è vivente o non è cultura. Molto diversamente da questa impostazione si dà importanza più all’erudizione che all’educazione confondendo la cultura con le arti, lo spettacolo e le scienze”, attività culturali che hanno senso solo se educative dello spirito per la sua maturazione, ma che diversamente rimangono solo epifenomeni etichettati. È questo il paradosso della politica: non comprendere l’importanza dell’educazione dello spirito non avendola ancora pienamente intesa o nella migliore delle ipotesi ritenendola erroneamente sotto-intesa. Ancora non si intende spirito, alla politica neppure sfiora l’idea.

Solo la cultura, la cultura vivente, ci salverà.




La cultura non è spettacolo.

PaideiaLa formazione politica di coloro che aspirano a governare un paese e dunque a costituirsi classe dirigente in un popolo dovrebbe fondarsi su una solida preparazione sia filosofica che scientifica: la filosofia per comprendere i fini, la scienza per conoscere i mezzi. Gli antichi greci la chiamavano paidèia,

il modello educativo con il quale si istruivano i giovani e che era sinonimo di cultura e di educazione alla cultura.  Lo spirito di cittadinanza e di appartenenza costituivano infatti un elemento fondamentale alla base dell’ordinamento politico-giuridico delle città greche. L’identità dell’individuo era pressoché inglobata da quell’insieme di norme e valori che costituivano l’identità del popolo stesso, tanto che più che di processo educativo o di socializzazione si potrebbe parlare di processo di uniformazione all’ethos politico. Come afferma Giovanni Reale: “La forza educativa proveniente dal mondo greco ha caratterizzato l’Occidente a partire dai Romani; è poi più volte rinata con continue trasformazioni col sorgere di nuove culture, dapprima con il Cristianesimo, poi con l’umanesimo e il rinascimento” e  qui aggiungiamo con l’illuminismo.

D’altra parte la politica è il modo di amministrare la comunità dei cittadini avendo per fine il bene di tutti, ma quale sia il bene di tutti non è la politica a rivelarcelo, bensì la filosofia. In questa originaria  concezione della politica il modo, ovvero il rapporto tra mezzi e fini, non è di natura meramente strumentale come il cinismo di maniera tipo il fine giustifica i mezzi vuole fare intendere (motto per altro erroneamente attribuito a Niccolò Macchiavelli), bensì di natura morale. La politica andrebbe intesa come una pratica inerente alla razionalità scientifica e che dovrebbe conformarsi all’etica.

Il minimo comune denominatore tra la politica, la formazione, l’identità, i valori, i principi, l’etica, il diritto, la fede e la conoscenza è la cultura. La cultura come sedimentazione dell’insieme patrimoniale delle idee ed esperienze condivise da ciascuno dei membri delle relative società di appartenenza, dei codici comportamentali condivisi, del senso etico del fine collettivo e di una visione identitaria storicamente determinata. Singolare è la sua etimologia, che discende dal verbo latino colere (coltivare) l’utilizzo del quale è stato poi esteso a quei comportamenti che imponevano una“cura verso gli dei”, da cui il termine “culto”.

E la cultura prodotta da un sistema vivente si comporta come i sistemi viventi: un equilibrio dinamico che va alimentato con quantità crescenti di energia.  Un ordine che si oppone alla naturale tendenza dei sistemi isolati all’aumento dell’entropia, che spontaneamente  tenderebbero alla morte termica. Per questo esistono forme organizzate di convivenza tra gli esseri umani, in cui si evolve la funzione dello Stato che agisce come un catalizzatore nei confronti delle componenti sociali, le istituzioni, le quali costituiscono  i reagenti che operano le trasformazioni della società.

Quanto al divenire della civiltà, l’equilibrio instabile a cui tendere e da mantenere si pone tra la misura delle cose e i confini della logica: per Orazio (Satire I) esistono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto, per Göedel (teoremi di incompletezza) se un sistema formale è logicamente coerente, la sua non contraddittorietà non può essere dimostrata stando all’interno del sistema logico stesso. La cultura è civiltà.

 




Laicità come indicatore di civiltà

Casa di preghiera e studio sulla Petriplatz a Berlino In Germania chi non appartiene ad alcuna confessione religiosa rilascia una dichiarazione scritta all’Ufficio imposte che provvede ad esonerarlo dal versare le tasse ecclesiastiche, pari all’8% in più delle imposte dovute allo Stato, essendo quindi escluso dai servizi religiosi.   Questo consente di rilevare statisticamente Berlino come la metropoli con più abitanti atei o agnostici del mondo: circa il 60%, a fronte del 22,3% di evangelici, 9,15 di cattolici, 2,7% di altri cristiani, 6,2% di mussulmani, 0,4% di ebrei e 0,2% di buddisti. Ebbene a Berlino, vicino ad Alexander Platz, a Petriplatz su un’area dove sorgeva la chiesa del ‘600 di S. Pietro, col campanile più alto della città  ridotta in rovina durante la guerra ed abbattuta nel 1964  dalla DDR, sorgerà una nuova chiesa unica al mondo dedicata  alle tre religioni cristiana, mussulmana ed ebraica. Si tratta in realtà di un luogo di preghiera e di studio aperto, senza simboli religiosi,  offerta anche a tutti coloro che non appartengono a una religione.

 

 




Tora! Tora! Tora!

Ebbene si, sono convinto che 27 milioni di cittadini (d’ora in avanti invito ad  usare i valori assoluti della realtà e non più le percentuali dei sondaggi) si siano espressi per e con “emozione” urlando i 4 SI.  E me ne rallegro.  Ora inizia la fase della “razionalità” ed occorre, al più presto, un governo che sia all’altezza delle aspettative che hanno animato questa prova di civiltà.

Se ai 17 milioni di cittadini che hanno votato i Sindaci del centro/sinistra si sommano i 10 milioni che hanno votato in più al Referendum risulta  ad oggi che esiste in Italia una nuova maggioranza capace di portare un governo che degnamente la rappresentasse a ben oltre il 50% delle preferenze!  Un brivido deve correre lungo la schiena dei politici.  Si tratta di una responsabilità che non si avvertiva dal Referendum del 1946 che portò il Paese alla Repubblica.




Indicatori di civiltà

In un mondo dominato dalla quantità e descritto prevalentemente  dai numeri, vogliamo anche noi utlizzare degli “indicatori”, con l’intento però  di mettere in evidenza la cultura e la mentalità di un popolo, ovvero il suo livello di civiltà.

Sappiamo bene che gli indicatori non sono la cosa e che gli stolti volgono lo sguardo al dito e non vedono la Luna. Tuttavia, siamo convinti che l’universale è  riconoscibile anche nel particolare, come nell’ ologramma, in cui ogni sua parte contiene l’intera informazione.

Così vi proponiamo con questa rubrica – che continuirà grazie anche al vostro contributo –  di raccogliere le immagini, le parole, i gesti, gli oggetti e le situazioni che, quando ci poniamo aperti di fronte al mondo,  riusciamo a cogliere e che   esprimono  la densità culturale di un popolo.

Li abbiamo chiamati indicatori di civiltà.