La statura di uno statista che non c’è

Macchiavelli

La crisi economica che ha investito i paesi occidentali in questi ultimi anni ha definitivamente rotto nel nostro immaginario collettivo l’incantesimo del ‘Bel Paese’. Le nuove parole usate per descrivere la crisi e che si accompagnano alla angoscia diffusa sono futuro, baratro, povertà e declino. Gli indicatori dell’arretratezza della nostra situazione generale, paragonandoci ad altri paesi occidentali e rispetto alla stessa cultura e storia cui apparteniamo, sono tutti noti per la loro intensità e per la loro estensione: corruzione, evasione fiscale, criminalità organizzata, abbandono scolastico, analfabetismo di ritorno, familiarismo, sessismo, disprezzo per le istituzioni. E tutti questi indicatori convergono su un’unica comune matrice, quella culturale. Sappiamo bene che se sommassimo tutti coloro che appartengono ad almeno una di quelle condizioni supereremmo di gran lunga la metà della popolazione e tuttavia anche a costoro riconosciamo per vocazione democratica il diritto di voto, ovvero la capacità di incidere sulla vita di tutti. Togliere allora il suffragio universale tanto faticosamente conquistato, per altro in tempi  recenti, magari giustificati dal dilagante astensionismo elettorale? Certo che no, al contrario, si dovrebbe abbattere in tutta l’Europa l’ultimo vincolo esistente al suffragio universale secondo il principio liberale di “una testa un voto” e riconoscere  il diritto di voto ai minorenni.

In ogni caso, se ci inganniamo sulla diagnosi del malato quale cura potremmo mai adottare per superare la malattia? Ed ancora, il malato deve essere consapevole della sua reale malattia? Prima di ogni analisi economica, politica e sociale dovremmo risponder a queste domande. Per quanto tempo ancora il bon ton e il politicamente corretto potranno mascherare l’ipocrisia nazionale del chiagnere e fottere?  Quel guardare da quale-pulpito-proviene-la-predica in un mondo percepito come un immenso paese dove così-fan-tutti appare in modo sempre più evidente come il riflesso condizionato che permette agli italiani, tanto indulgenti con se stessi, di tacitare la propria coscienza, idebolendola.

Nella testa delle persone più evolute e sinceramente indignate per lo stato generale del paese alberga l’idea che la diversità, comunque intesa e dovunque riscontrata, sia un valore da proteggere ed alimentare, sempre e in ogni circostanza, a cominciare dal relativismo delle diverse culture umane (le civiltà) per passare alla varietà delle colture ambientali (il patrimonio della foresta amazzonica) e finire quindi con il voto di preferenza (la sovranità popolare). La sicurezza di tale convinzione deriva da una lettura ecologica della natura intesa come un immenso ed armonico equilibrio tra le diversità. Questa visione benevola non rileva però il ruolo della selezione (naturale) per il quale si conservano quelle differenze che risultano favorevoli all’adattamento, mentre le varianti nocive vengono eliminate oppure quelle né utili né nocive rimangono fluttuanti. Il motore della evoluzione (biologica) è dunque la dialettica tra variabilità e uniformità emergenti sullo sfondo di un ambiente in continuo mutamento che pone la necessità di un adattamento. Quando dalla natura si passa alla cultura il discorso si complica notevolmente e non vale  la semplificazione riduzionista del darwinismo sociale. Si complica per la relazione esistente tra soggetto ed oggetto, ovvero per il motivo che l’agente che produce la diversità nell’ambiente, la specie umana, è il medesimo che deve poi adattarvisi. E d’altra parte quale razionalità potrebbe far accettare una logica del due pesi-due misure, una legge evolutiva che valga solo per la natura e l’altra solo per la cultura?

Questo popolo-populista di sinistra che dopo gli esiti delle elezioni regionali in Sardegna invece di rallegrarsi per la vittoria di un uomo colto e per bene e preoccuparsi di come la sua realtà e valore rimanga sconosciuta alla metà della popolazione, preferisce la ricerca di un nemico esterno attribuendo ora a Renzi ora a Grillo o a Berlusconi la responsabilità della fuga dal voto. Questo popolo-populista che all’epoca dell’intervento americano in Iraq affermava che la democrazia non potesse essere esportabile, oggi si appresta ad importare il socialismo tramite una lista greca. Non si tratta di una esercitazione della coscienza europeista, ahimè in declino anche in Italia, ma dell’incapacità di produrre autonomamente idee di rinnovamento e di selezionare un leader che ne sia all’altezza.

Lo sciame meteoritico della sinistra italiana si polarizza ancora una volta nell’irrisolta tensione tra la nostalgia adolescenziale per l’opposizione dura e pura e la resistenza all’assunzione della responsabilità di governare. La valanga di critiche e contumelie rivolte a Matteo Renzi non possono essere giustificate e spiegate ricorrendo semplicemente agli argomenti ideologici e politici dei suoi oppositori. Nel suo comportamento vanno ricercati atteggiamenti e dichiarazioni che devono aver profondamente urtato la mentalità diffusa nel popolo della sinistra. Si tratta io penso della sua manifestata ambizione. In un paese la cui etica non è fondata sulla responsabilità individuale e sul merito chiunque osi alzare la testa oltre la soglia della mediocrità, la palude, diventa inesorabilmente bersaglio di coloro che vorrebbero nuovamente affondarlo. Io non sono un fan di Renzi (che non ho neppure votato alle primarie) ma riconosco nel suo ‘stil nuovo’  naïf  la prefigurazione del modello di leader di cui la sinistra-populista italiana ha disperatamente bisogno. Credo che Renzi non abbia la statura adeguata, ma di statura si dovrà parlare d’ora in avanti. Quei principi universali, ancorché migliorabili, cui la sinistra fa riferimento hanno bisogno di statisti per essere realizzati, non di burocrati di partito, né tantomeno di politici come il popolo.

I limiti entro cui il popolo esercita la propria sovranità non sono quelli costituzionali, ma quelli culturali: con onestà intellettuale dobbiamo prendere atto che in Italia si è drammaticamente aperta una profonda linea di faglia che separa la Costituzione dalla Cultura. Oggi è lecito domandarsi come sia stato possibile che il più evoluto sistema politico di governo fin ad oggi realizzato dall’umanità, la democrazia, abbia consentito alla canaglia del nostro paese di star meglio della gente per bene.  La risposta va ricercata nella mentalità formatasi e sedimentata nei secoli di storia di una penisola incessantemente percorsa da invasori.   D’altra parte, i risultati di una recente ricerca antropologica ci mostrano come gli italiani siano il popolo più ricco di diversità genetica in tutta Europa, molto più di quanto lo siano tra loro popolazioni che vivono agli angoli opposti del continente: le nostre differenze genetiche sono dalle sette alle 30 volte maggiori rispetto a quelle registrate tra i portoghesi e gli ungheresi.  Oggi possiamo contare 57 popolazioni presenti nel territorio italiano: dai Grecanici del Salento alla comunità germanofona di Sappada nel Veneto settentrionale.

 

 

 




Luci della ribalta

È quello che siamo tutti: dilettanti. Non viviamo abbastanza per diventare di più. (Luci della ribalta, C.Chaplin)

È quello che siamo tutti: dilettanti. Non viviamo abbastanza per diventare di più. (Luci della ribalta, C.Chaplin)

La sceneggiata offerta dai politici alla Camera dei Deputati, causata dall’ abbinamento forzato e nascosto del decreto Imu-Bankitalia e agìta secondo i loro livelli culturali, già oscura con i suoi clamori la proposta di legge elettorale, messa in disparte e rimandata. Matteo Renzi spiazzato dalle agende del Governo e della Camera si defila dalla ribalta, mentre la sguaiata opposizione del M5S da rumore di fondo diventa segnale. E che segnale: dall’attacco ai politici e ai governanti si passa all’attacco delle persone che ricoprono le massime Istituzioni dello Stato quali la Presidente della Camera e il Presidente della Repubblica, colpevoli di fare politica di parte e di non garantire nella trasparenza i diritti di tutte le parti, e all’attacco di quei giornalisti o intellettuali che li criticano apertamente. 

Il comportamento adottato dai parlamentari del M5S in relazione a quello dei demiurgi che li guidano, indipendentemente dal contenuto di verità delle loro affermazioni, richiama alla mente la strategia del Dipartimento per l’agitazione e la propaganda del fu Partito Comunista Sovietico, ricordata come agitprop, termine acronimo che per antonomasia è stato da allora utilizzato per descrivere in politica la figura del provocatore. Negli anni che seguirono il ’68  si usava la logica del cui prodest?  per scovare gli estremisti responsabili degli attentati politici.

Oggi quel metodo a quali spiegazioni ci condurrebbe? Mentre la sinistra si arrovella nella ricerca di incostituzionalità e di attacchi alla democrazia, il populismo sia di destra che di sinistra cerca il salvatore della patria ed ha fretta: dopo Silvio Berlusconi oramai in declino alla ricerca di una successione ecco affermarsi il decisionista naïf Matteo Renzi e, perché no, quel giovane sanculotto Alessandro Di Battista.

Gli uomini del fare si richiamano alla concretezza e vivono di percezioni: si concentrano sul qui ed ora, mentre il loro pensiero debole riposa tra rimozioni e proiezioni.  La velocità con cui le notizie e i commenti si susseguono nei media, velocità notevolmente accelerata dalla potenza del web divenuto il pace maker dei giornali e televisione, obbliga la realtà a mutare continuativamente, sottraendo tempo alla riflessione e inducendo all’oblio.

Avverte Macchiavelli:  “Tu bada ben che l’aver in le tue mani il potere della Repubblica e il plauso di chi crede che si possa governare senza inganno non ti è bastante, poiché non è tanto la novità che conta, ma produrre il nuovo. Quindi ascolta e provoca il popolo perché parli a costo di causare in te risentimento (…)”




La cucina economica: con la cultura non si mangia.

cucina_economicaL’attenzione della cronaca si è rivolta a due fenomeni che riguardano l’istruzione e la formazione dei giovani. Negli ultimi dieci anni vi è stata una diminuzione delle iscrizioni alle università di 58 mila unità, mentre le iscrizioni alle scuole alberghiere sono aumentate del 35% (30 mila giovani ogni anno). Il primo dato è stato interpretato come una “perdita di attrattiva dell’istruzione”, mentre il secondo come “il nuovo cult dei fornelli”. Tutto questo sembrerebbe sostenere la diffusa credenza, sdoganata da un Ministro dell’Economia di un recente Governo della nostra Repubblica, secondo la quale con la “cultura non si mangia”.Per completare la cornice del quadro così abbozzato aggiungiamo altri due dati: il 19% di tasso di abbandono scolastico  e  il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno della popolazione stimato oltre il 70%.  Questo è lo stato culturale del nostro paese.

Vi sono parametri diversi per indicare il declino di un paese, essi possono essere di natura economica, demografica o ambientale e i valori che ne rileviamo  possono giustamente allarmarci. Tuttavia  non ci rendiamo conto che tali valori sia che risultino frutto di analisi storiche o piuttosto siano rilevati nel presente non colgono appieno l’essenza del problema che non risiede tanto in ciò che è stato o in ciò che appare oggi, ma in ciò che potrà essere in futuro.  E quale soggetto è portatore di questa realtà in fieri se non chi oggi rappresenta il futuro ovvero i giovani?  Ebbene sono proprio loro le principali vittime di quei meccanismi economicistici  che sembrano più interessati alla fascia produttiva della popolazione, il cui intervallo d’età varia per altro in funzione dello stato dell’economia e della demografia (disoccupazione e invecchiamento della popolazione).

Che fare? Riequilibrare, attraverso un nuovo patto fra le generazioni giovani-pensionati  (nuovo welfare state), la rappresentanza degli interessi del paese, spostando il baricentro verso le fasce di popolazione più giovane. Gli interventi sono di natura sia legislativa che economica, per esempio: diritto di voto ai minorenni, obbligatorietà degli studi fino a 18 anni, sgravi fiscali per le spese in istruzione e formazione, incentivi per la formazione artigiana, borse di studio per università e prestiti d’onore per l’alta professionalità.

Il futuro, già incerto, appare minaccioso, dunque lo si rimuove arroccandosi nella difesa delle condizioni raggiunte, a volte conquistate per diritto o per merito, nel tentativo di mantenerle. Osserviamo che l’attenzione rivolta dalla nostra società del benessere ai bambini diminuisce  via via che si passa dall’età prescolare alla scuola dell’obbligo, alle scuole superiori, all’università. Diminuisce l’attenzione ed aumentano i costi per le famiglie per la formazione dei giovani in crescita. Una inesorabile decadimento di un welfare state concepito principalmente a favore delle  fasce estreme della distribuzione dell’età, ritenute più deboli.  Dalla culla alla bara, socializzazione e previdenza,e nella terra di mezzo l’abbandono al destino individuale. Tutto questo mentre il potere sia economico che politico persiste nelle mani e nelle menti di una generazione che si pone come principale obiettivo il mantenimento di sè e non come finalità la propria ri-generazione.

Il calo delle iscrizioni universitarie, al di là delle osservazioni di natura tecnica per spiegarlo (calo demografico, crisi economica, riforma università) e al di quà dei confronti con i paesi europei che ci pongono nella coda di tutte le classifiche, ci dovrebbe suggerire una profonda riflessione sullo stato della mentalità, della cultura diffusa nel nostro paese.  Si rinuncia alla istruzione e formazione per privilegiare facili miti spettacolari, oggi lo chef, ieri gli stilisti, i calciatori, le modelle  i manager…

E la cultura non è intrattenimento, non si riduce solo all’arte e allo spettacolo.  Essa è piuttosto spirito e mentalità del popolo di una nazione che riconosce o non riconosce nell’altro i propri e gli altrui diritti: la cultura serve a far crescere in civiltà un popolo, non ad aumentare il Pil.  Alla cultura però si deve essere educati. Le dittature e le religioni si sono sempre particolarmente impegnate nell’educazione dei giovani imponendo la loro ideologia. E così deve essere per le democrazie. Sia per gli antichi greci (la Filosofia) che e gli illuministi (l’Enciclopedia)  la precondizione per il conferimento del potere al popolo è stata che questi acquisisse la conoscenza.  La democrazia è, prima di tutto, conoscenza.  

Ma l’importanza della cultura non è ancora stata compresa né dai politici né dal popolo. La contro-cultura invece, ovvero l’assenza di cultura, minaccia oggi oltre che i diritti civili anche i diritti del lavoro, la vita e la sopravvivenza. Un becero intendimento della cultura da parte dei politici (ricordate l’invito a frasi un panino con la Divina Commedia, offerto da un Ministro dell’Economia di un recente Governo della nostra Repubblica?)  ha affossato ogni possibilità di crescita in un paese in cui si confonde cultura con spettacolo, si censura l’informazione e si condanna la satira. E infatti questa becera insipienza nel disconoscimento della cultura nella sua reale natura è la causa principale dei peggiori mali che hanno afflitto nel passato il nostro paese, molto più e al di là delle tasse e dell’economia.

La cultura andrebbe collocata  al primo posto tra le iniziative politiche. Nessuno tra i sedicenti politici del rinnovamento ha però mai coerentemente parlato né ancora parla di cultura. Eppure il primo dovere di ogni governo dovrebbe essere proprio quello di far crescere in civiltà la nazione. Per un politico per cultura si intende ancora e solo “Arte” e “Spettacolo”. Ben vengano. Ma ancora non si intende quell’educazione dello spirito che fa di un anonimo individuo un cittadino. La crescita culturale è fondamentale per il benessere come per la felicità dei popoli, un fattore per ora in Mente Dei e assente nella nostra Costituzione.  La cultura rende liberi. Solo la cultura ci salverà.

 




La società incivile.

480943_326596260773350_381819418_nUn italiano su due d’accordo con Berlusconi su Mussolini.  In un sondaggio realizzato dall’istituto SWG  alla domanda ‘il fascismo ha avuto ombre ma anche luci: e’ d’accordo?’  il 47% degli intervistati ha risposto di sì. “E’ un dato costante da oltre 15 anni”, commenta Roberto Weber Presidente dell’istituto. Quasi un italiano su due non contesta le dichiarazioni che Silvio Berlusconi ha fatto su Benito Mussolini nel giorno della memoria: questo episodio non dovrebbe dunque danneggiare il Pdl in campagna elettorale.

Dunque Berlusconi, nel suo ventennio dalla scesa in campo nella politica, non soltanto ha sdoganato i nostalgici del fascismo portandoli al governo, ma soprattutto ha liberato le coscienze di una gran parte degli italiani dando voce e legittimità ai sordidi pensieri delle loro pance. In un mese Berlusconi è riuscito a raggiungere quella massa di delusi dalla destra (tasse aumentate) confluiti nel 40%  degli astensionisti e riconquistare la loro fiducia per la medesima destra (restituzione IMU pagata?), erodendo il vantaggio faticosamente acquisito dal PD in un anno di sofferto appoggio al governo tecnico di Monti, fino a minacciare la vittoria stessa del centro-sinistra, non solo al Senato. Onore al merito? Macchè, si tratta ancora una vota della forza che si afferma grazie alla debolezza degli avversari! Il Pdl sono io. Questo ci dice Berlusconi sconfessando senza rimedio ogni velleitaria ambizione di eredità politica da parte di inconsistenti figure di nani e ballerine che bivaccano alla sua corte.

Personalmente oscillo, in una sorta di sindrome psico-politica bipolare, tra il pessimismo della realtà e l’ottimismo della ragione, ma oggi temo meno l’affermazione elettorale monca del centro-sinistra e più l’ingovernabilità che ne potrà derivare e che rischia di portarci ad un nuovo e forse irrimediabile discredito internazionale. Prepariamoci a nuove elezioni per il 2014.

Nel frattempo constatiamo una volta ancora il degrado culturale in cui versa il nostro Paese, dove l’acquisto di un calciatore da parte della squadra di Berlusconi porta più voti di quanti ne toglie l’esternazione della mentalità del suo Presidente. E’ davvero difficile, forse ormai anche inutile, stabilire se sia più grave l’esito del sondaggio o l’osservazione finale sui suoi effetti nella campagna elettorale del Pdl.  Per quelli che bisogna essere ‘realisti e concreti’, quelli che sono ‘uomini del fare’, quelli del ‘voto utile’ (a che?) … suffragia non olent.

 Tutto ciò mi conferma che la ricerca della verità e dell’etica appartiene a quegli spiriti che sanno elevarsi dalle condizioni reali e non è soggetta a opinione. L’eccellenza non può essere democraticamente stabilita, ma deve essere democraticamente ricercata. La cultura deve tornare ad essere vivente per poterci salvare.




Se con la cultura non si mangia, di ignoranza si muore.

Una tra le principali cause del declino del nostro paese e che “si fa in modo che si riduca il consenso sociale attorno alla cultura e tra le cose ‘sdoganate’  ci sono la rozzezza e l’ignoranza”.

Questa amara constatazione  è quanto scaturisce da una recente analisi sociologica sullo stato delle competenze linguistiche nella popolazione italiana condotta  attraverso gli esiti delle prove di ammissione alle facoltà universitarie (“L’Italia dell’ignoranza”di Graziella Priulla, ed. FrancoAngeli, 2011.  Libro recentemente recensito da Mario Pirani sul quotidiano  ‘laRepubblica’).

Alla facoltà di Lettere di Firenze, per esempio, risulta che il 50% degli studenti non abbia superato il test d’italiano: per alcuni di loro la ‘lottizzazione’, che  magari criticano come uno dei mali della politica, significa ‘fare le lotte’.

D’altra parte, dalle comparazioni internazionali risulta che meno del 10% della popolazione italiana è in grado di comprendere, indipendentemente dal livello d’istruzione, i contenuti di qualsiasi testo ai 2 livelli più alti dei 5 previsti dai test (gli standard internazionali sulla competenza alfabetica si pongono tra valori compresi dal 20% al 30% della popolazione). A simili  risultati era giunto con le sue analisi Tullio De Mauro, allarmato per l’analfabetismo di ritorno che coinvoge  una gran parte della popolazione.

Ho aderito con convinzione al referendum per cambiare la legge elettorale esistente, tuttavia mantengo anche la convinzione  che la democrazia si fonda sulla cultura di una popolazione e di conseguenza sulla sua capacità di partecipare e di comunicare.

Ora, ricordando  quanto sosteneva Walter Lippmann, sebbene in relazione alla funzione della stampa: “(…) Il governo rappresentativo (…) non può funzionare bene, quale che sia la base del sistema elettorale, se non c’è un’ organizzazione  indipendente che renda i fatti non visti comprensibili a quelli che devono prendere le decisioni”  (L’opinione pubblica, 1921), vi è da chiedersi, una volta  garantito il diritto di scegliere i rappresentanti politici in Parlamento,  come potranno  esercitare tale diritto quei cittadini di oggi e di domani che risultano ‘ignoranti’.