Il terrorismo come stress test per le coscienze

Urlo-di-Munch-originaleL’Europa ha conosciuto nel secolo scorso regimi del terrore. Nel primo secolo del nuovo millennio stiamo forse entrando in un’epoca di regime del terrorismo?
Dopo l’11 settembre 2001, l’Europa (tralascio qui di considerare gli ancor più numerosi e devastanti attentati avvenuti nei paesi del Medio Oriente, dell’Asia, del Nord e Centro Africa) è stata oggetto di sanguinosi attentati terroristici di matrice islamica che hanno coinvolto fino ad oggi Spagna, Gran Bretagna, Francia, Belgio e Germania. Dalle bombe alle stazioni ferroviarie attorno a Madrid (2004) fino alla sparatoria a Monaco di Baviera (2016) si contano ormai centinaia di vittime, ma ciò che più sgomenta è la constatazione che l’obbiettivo dei terroristi, apertamente dichiarato e coerentemente perseguito, è la stessa vita quotidiana degli odiati paesi occidentali. È una tattica diretta in particolare contro le generazioni costituite dai liberi cittadini delle democrazie occidentali educate al pacifismo che non hanno da 70 anni conosciuto gli orrori e le sofferenze della guerra.

Una tattica che si mostra efficiente anche sul piano operativo: ucciderne uno per terrorizzarne cento. Una tattica oltretutto orchestrata con abilità sul piano della comunicazione i cui effetti possono essere vissuti con una soddisfazione emulativa tanto dagli islamici più radicali del daesh come vendetta per le morti e distruzioni subite dagli odiati occidentali, quanto dai nuovi nichilisti globali figli del “tramonto dell’Occidente”. Dagli sgozzamenti sistematici dei prigionieri ad opera delle milizie inquadrate dell’IS, ripresi in diretta con video girati sui territori occupati poi diffusi su internet, alle sparatorie dei “lupi solitari” rivendicati dall’IS come propri soldati ed eseguite negli affollati luoghi di ritrovo delle città europee, due fattori ci inducono paura e sgomento: da una parte la morte, vissuta dagli  attentatori suicidi come liberazione per sé e come punizione divina da infliggere agli infedeli, dall’altra il fascino ideologico subito da molti giovani occidentali verso la missione terroristica islamica.

Più che la concezione della morte di questi terroristi, che rimanda ad interpretazioni religiose ormai da secoli a noi estranee e che ci devono preoccupare  solo da un punto di vista militare in quanto l’uso della persona come arma tende ad annullare la potenza delle moderne armi sofisticate, quello che dovremmo comprendere sono le ragioni del fascino ideologico che spinge migliaia di giovani, ancorché caratterizzati da debolezze sociali o psichiche, ad abbracciare la causa del Califfato così estranea alla cultura occidentale. All’indomani degli ultimi attentati avvenuti in Germania analisti e commentatori televisivi, nell’ansia di trovare una spiegazione a tanto orrore, rilevavano come il vantaggio dei terroristi sarebbe dipeso dal fatto di essere guidati da “idee forti” a fronte della debolezza degli occidentali dovuta a una crisi di valori. Una spiegazione che sfiora il paradosso: sarebbe un’idea forte la concezione della società secondo la sharia islamica praticata dai terroristi?

Il fatto è che si confonde la forza di una idea con la violenza con cui l’idea viene sostenuta. Ed è forse nella confusione sulla forza che dobbiamo soffermarci e riflettere. Per farlo sottoponiamo la nostra coscienza al seguente stress test articolato nelle seguenti tre domande: i) un ragazzo del quartiere di Scampia a Napoli si arruolerebbe nelle milizie dell’IS? ii) I millennials sarebbero in grado di opporsi con la forza contro i terroristi ? iii) Esiste un limite nello stato di diritto oltre il quale la democrazia non può più essere difesa usando le forme democratiche?

i) In attesa del nuovo romanzo di Roberto Saviano “La paranza dei bambini” ho letto una sua anticipazione su La Repubblica e pensando ai cosiddetti foreign fighters mi sono domandato: un ragazzo del quartiere di Scampia a Napoli si potrebbe arruolare nelle milizie dell’IS? Io penso di no. In un mio recente articolo  ho cercato di mostrare come il male raccontato negli episodi di Gomorra-La serie sia la rappresentazione della regressione allo stato tribale delle relazioni umane  che ci hanno governato per centinaia di migliaia di anni, una regressione dovuta al venir meno della cultura evoluta proprio per dominare e superare istinti ancestrali. Ebbene, un’analoga situazione tribale è riscontrabile anche nelle relazioni e nei comportamenti dei militanti jihadisti: la prevaricazione, la ferocia, il territorio, l’appartenenza. E dunque possiamo comprendere come per un giovane isolato socialmente, economicamente, magari anche carente sul piano psichico, la paranza camorristica come la militanza terroristica possano costituire il modo per esercitare quegli istinti e in molti territori italiani controllati purtroppo criminalità organizzata non c’è posto per un’ideologia terroristica.

ii) Con il termine millennials si definisce la generazione del nuovo millennio, ma al di là dei richiami profetici potremmo comprendervi tutti i nativi digitali. I giovani fino ai 25 anni d’età (25 anni è il tempo medio che divide due generazioni) sono figli di altre due generazioni europee vissute in uno stato di pace, mai tanto lungo nella storia europea, costruito artificialmente sulla divisione ideologica Est-Ovest, con l’allontanamento dei teatri dei conflitti armati che la “Guerra fredda” alimentava, e sul consumismo economico. La caduta del muro di Berlino, dopo la breve illusione della “fine della storia”, non ha eliminato i confini, spostandoli a livello globale sotto le minacce della crisi economica, dell’inquinamento e dell’immigrazione. Uno di questi nuovi “confini” è rappresentato dall’invecchiamento tendenziale delle popolazioni occidentali a fronte i quelle asiatiche e africane. In un mondo sussunto nell’imperialismo del pensiero economico il lavoro scarso è distribuito su paesi alternativi e già si manifesta la competizione anche sul piano dell’istruzione e formazione tra giovani laureati di tutto il mondo. Ricordo un brillante intervento di un giovane pedagogista di molti anni fa il quale analizzando quel particolare periodo rivoluzionario della vita di tutti noi che si chiama adolescenza  ne individuava la chiave di volta nella avventura: dal gioco dell’infanzia il giovane si proietta alla scoperta del mondo. Oggi si sostiene che i nostri giovani rischiano di non avere un futuro e ciò rimane vero, ma non perché manca la prospettiva di un lavoro, magari sicuro, bensì perché l’uniformità imposta dalla visione economicistica dell’esistenza ha privato loro della dimensione progettuale della vita fatta di curiosità, di scoperte, di viaggi, di sogni, in altre parole dell’avventura. Hannah Arendt scrisse questa verità:“Gli uomini muoiono, ma non sono fatti per morire. Sono creati per incominciare”. 

iii) Concludo con l’ultimo test sui limiti della democrazia. Nella logica matematica i famosi teoremi di incompletezza del logico e filosofo austriaco Kurt Gödel affermano che i sistemi formali non possono avere alcune proprietà, per esempio il secondo teorema afferma che: nessun sistema sebbene coerente può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza. Passando dal piano razionale a quello reale si potrebbe sostenere che esiste un limite oltre il quale la democrazia non può essere difesa praticandola. Del resto la storia ci ha mostrato che i principi, gli ideali e i valori che oggi sorreggono le democrazie occidentali si sono affermati con la spada per poi mantenersi col diritto. Il problema diventa dunque individuare qual è il limite.

(to be continued)




La cucina economica: con la cultura non si mangia.

cucina_economicaL’attenzione della cronaca si è rivolta a due fenomeni che riguardano l’istruzione e la formazione dei giovani. Negli ultimi dieci anni vi è stata una diminuzione delle iscrizioni alle università di 58 mila unità, mentre le iscrizioni alle scuole alberghiere sono aumentate del 35% (30 mila giovani ogni anno). Il primo dato è stato interpretato come una “perdita di attrattiva dell’istruzione”, mentre il secondo come “il nuovo cult dei fornelli”. Tutto questo sembrerebbe sostenere la diffusa credenza, sdoganata da un Ministro dell’Economia di un recente Governo della nostra Repubblica, secondo la quale con la “cultura non si mangia”.Per completare la cornice del quadro così abbozzato aggiungiamo altri due dati: il 19% di tasso di abbandono scolastico  e  il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno della popolazione stimato oltre il 70%.  Questo è lo stato culturale del nostro paese.

Vi sono parametri diversi per indicare il declino di un paese, essi possono essere di natura economica, demografica o ambientale e i valori che ne rileviamo  possono giustamente allarmarci. Tuttavia  non ci rendiamo conto che tali valori sia che risultino frutto di analisi storiche o piuttosto siano rilevati nel presente non colgono appieno l’essenza del problema che non risiede tanto in ciò che è stato o in ciò che appare oggi, ma in ciò che potrà essere in futuro.  E quale soggetto è portatore di questa realtà in fieri se non chi oggi rappresenta il futuro ovvero i giovani?  Ebbene sono proprio loro le principali vittime di quei meccanismi economicistici  che sembrano più interessati alla fascia produttiva della popolazione, il cui intervallo d’età varia per altro in funzione dello stato dell’economia e della demografia (disoccupazione e invecchiamento della popolazione).

Che fare? Riequilibrare, attraverso un nuovo patto fra le generazioni giovani-pensionati  (nuovo welfare state), la rappresentanza degli interessi del paese, spostando il baricentro verso le fasce di popolazione più giovane. Gli interventi sono di natura sia legislativa che economica, per esempio: diritto di voto ai minorenni, obbligatorietà degli studi fino a 18 anni, sgravi fiscali per le spese in istruzione e formazione, incentivi per la formazione artigiana, borse di studio per università e prestiti d’onore per l’alta professionalità.

Il futuro, già incerto, appare minaccioso, dunque lo si rimuove arroccandosi nella difesa delle condizioni raggiunte, a volte conquistate per diritto o per merito, nel tentativo di mantenerle. Osserviamo che l’attenzione rivolta dalla nostra società del benessere ai bambini diminuisce  via via che si passa dall’età prescolare alla scuola dell’obbligo, alle scuole superiori, all’università. Diminuisce l’attenzione ed aumentano i costi per le famiglie per la formazione dei giovani in crescita. Una inesorabile decadimento di un welfare state concepito principalmente a favore delle  fasce estreme della distribuzione dell’età, ritenute più deboli.  Dalla culla alla bara, socializzazione e previdenza,e nella terra di mezzo l’abbandono al destino individuale. Tutto questo mentre il potere sia economico che politico persiste nelle mani e nelle menti di una generazione che si pone come principale obiettivo il mantenimento di sè e non come finalità la propria ri-generazione.

Il calo delle iscrizioni universitarie, al di là delle osservazioni di natura tecnica per spiegarlo (calo demografico, crisi economica, riforma università) e al di quà dei confronti con i paesi europei che ci pongono nella coda di tutte le classifiche, ci dovrebbe suggerire una profonda riflessione sullo stato della mentalità, della cultura diffusa nel nostro paese.  Si rinuncia alla istruzione e formazione per privilegiare facili miti spettacolari, oggi lo chef, ieri gli stilisti, i calciatori, le modelle  i manager…

E la cultura non è intrattenimento, non si riduce solo all’arte e allo spettacolo.  Essa è piuttosto spirito e mentalità del popolo di una nazione che riconosce o non riconosce nell’altro i propri e gli altrui diritti: la cultura serve a far crescere in civiltà un popolo, non ad aumentare il Pil.  Alla cultura però si deve essere educati. Le dittature e le religioni si sono sempre particolarmente impegnate nell’educazione dei giovani imponendo la loro ideologia. E così deve essere per le democrazie. Sia per gli antichi greci (la Filosofia) che e gli illuministi (l’Enciclopedia)  la precondizione per il conferimento del potere al popolo è stata che questi acquisisse la conoscenza.  La democrazia è, prima di tutto, conoscenza.  

Ma l’importanza della cultura non è ancora stata compresa né dai politici né dal popolo. La contro-cultura invece, ovvero l’assenza di cultura, minaccia oggi oltre che i diritti civili anche i diritti del lavoro, la vita e la sopravvivenza. Un becero intendimento della cultura da parte dei politici (ricordate l’invito a frasi un panino con la Divina Commedia, offerto da un Ministro dell’Economia di un recente Governo della nostra Repubblica?)  ha affossato ogni possibilità di crescita in un paese in cui si confonde cultura con spettacolo, si censura l’informazione e si condanna la satira. E infatti questa becera insipienza nel disconoscimento della cultura nella sua reale natura è la causa principale dei peggiori mali che hanno afflitto nel passato il nostro paese, molto più e al di là delle tasse e dell’economia.

La cultura andrebbe collocata  al primo posto tra le iniziative politiche. Nessuno tra i sedicenti politici del rinnovamento ha però mai coerentemente parlato né ancora parla di cultura. Eppure il primo dovere di ogni governo dovrebbe essere proprio quello di far crescere in civiltà la nazione. Per un politico per cultura si intende ancora e solo “Arte” e “Spettacolo”. Ben vengano. Ma ancora non si intende quell’educazione dello spirito che fa di un anonimo individuo un cittadino. La crescita culturale è fondamentale per il benessere come per la felicità dei popoli, un fattore per ora in Mente Dei e assente nella nostra Costituzione.  La cultura rende liberi. Solo la cultura ci salverà.