Venti di guerra

imagesNon metto in dubbio che essere pacifisti significhi mettere la pace come valore prioritario e assoluto. Il che significa che la pace va difesa e garantita in ogni modo con qualsiasi mezzo. A tal fine, poiché come afferma Shopenhauer “Tutto lo spirito di questo mondo non può nulla con chi non ne possiede nulla”, è mia convinzione che un intervento contro la violenza così come proposta dal sé dicente Stato Islamico sia più che mai necessario. Il piano dell’Isis è chiaro: sgomentare il mondo con la hybris degli antichi greci o la matta bestialtade di Dante per richiamare l’Islam al sentimento umano più ancestrale: l’appartenenza. Guerra totale in nome di un Dio, Allah, che ancora si pensa diverso e che si bestemmia non nel nome, ma nei fatti, riportando l’uomo ai sentimenti più tribali in un oscuro passato dove la crudeltà e la forza erano le uniche virtù.

Questa regressione dello spirito che confina lo spirito all’interno degli istinti e delle passioni e che ha in odio i sentimenti, si appella all’appartenenza etnica come ad un’appartenenza di razza o ancor più anticamente di specie. Nessuna possibilità di dialogo e il pericolo di vedere masse islamiche in nome di un fanatismo religioso che esalta l’etnia, la razza, l’appartenenza scivolare verso le tenebre. Muoia Sansone con tutti i filistei. L’Europa ha già vissuto questa tragedia.

I guerrafondai nostrani vorrebbero subito l’intervento militare, un intervento da parte dell’occidente, intervento ispirato alla vendetta sulla base degli stessi principi di appartenenza con l’alibi di appartenere ad una maggiore civiltà oggettivamente riconoscibile che scusa il proprio intervento con l’altrui barbarie,  ma è proprio in ragione di questa maggiore civiltà che bisognerebbe agire responsabilmente e agire su un piano diverso.

Credo quindi sia opportuno che un intervento militare, che si rende indiscutibilmente necessario, avvenga solo ed unicamente tramite forze islamiche che andrebbero appoggiate con ogni mezzo da parte dell’Occidente senza intervenire in nessun caso direttamente contro l’Isis su un territorio che a non importa se a torto o a ragione la maggior parte dell’Islam considera proprio, sacro e inviolabile.

L’Occidente, quello di von Clausewitz come quello di Roosevelt, dovrebbe questa volta limitarsi a boicottare economicamente e finanziariamente lo Stato Islamico e a impedire li suo armamento, di cui sappiamo bene che direttamente o indirettamente anche l’Occidente è responsabile: abbiamo sempre venduto fucili agli indiani. Ma non basta, bisognerebbe soprattutto intervenire economicamente con un nuovo e massiccio “Piano Marshall” per sostenere quel Islam moderato e democratico che pure esiste, rinunciando almeno in parte a vedere in quei territori solo giacimenti petroliferi da sfruttare. Occorrerebbe rivedere insomma la politica delle “sette sorelle” investendo parte dei profitti a questo fine affinché giungano alla popolazione e non piuttosto a quei dittatori, cani da guardia, che poi in nome della democrazia si vogliono defenestrare.

Ritengo indispensabile inoltre un aggancio culturale con tutto l’Islam laico, ancorché credente, e un suo sostegno in civiltà con ogni mezzo. La civiltà ha raggiunto indubbiamente anche l’Islam, dove esiste per certo una larga fascia di persone che hanno da lungo tempo superato la barbarie e che condividono con l’Occidente gli stessi valori, ovviamente non quei valori di disuguaglianza, sfruttamento e oppressione che neppure noi condividiamo. Quello che so di certo è che se l’Occidente attaccherà militarmente l’Isis frontalmente sul suolo dell’Islam la guerra e il terrorismo si estenderanno senza confini e non ne verremo a capo così come non siamo venuti a capo in nessun luogo nelle guerre finora perpetrate. Solo la cultura ci salverà.




L’autoimmunità sociale

images-4Unknown-1Secondo stime correnti  80-100 mila sarebbero i combattenti jihadisti dell’Isis, di cui 3000 sarebbero europei e 48 italiani. Circolano sul web informazioni anche sulla presenza di occidentali tra le fila dei resistenti curdi.In Ucraina si sono formate neo-brigate internazionali di antica memoria ed anche tra queste sono presenti italiani. Siano essi volontari ideologici o mercenari, questi neo-brigasti costituiscono un fenomeno significativo, per quanto ancora contenuto, che ci indica un profondo e grave mutamento sociale in corso. Un fenomeno che non ci è estraneo e che non va sottovalutato, come è accaduto in questi ultimi decenni per il virus Ebola.

Che i giovani di ogni popolo (sappiamo quanto le condizioni culturali, sociali ed economiche nei nostri paesi occidentali, in particolare in Italia, abbiano prolungato tale status) siano i più esposti ad assumere comportamenti estremi per il loro bisogno di appartenenza sociale e di identificazione con principi e valori alternativi alle autorità esistenti è fenomeno noto e studiato. Del resto i poteri degli Stati e le dittature del secolo scorso hanno saputo bene come utilizzare queste potenzialità (arruolamento dei giovani e loro preparazione alla guerra).

Tuttavia, pur conoscendo i metodi e gli effetti di tale reclutamento (la posizione del dito indice nelle due immagini qui sopra esprimono tuttavia una differenza culturale profonda: in alto verso il cielo o diretto verso di te), come spiegare il fatto che la propaganda jihadista, con il suo uso studiato delle tecniche del marketing,  si presenta come  attrattore per alcuni giovani? È come se nelle società occidentali si fosse sviluppata una sorta di autoimmunità sociale e si manifestasse la radicalizzazione dei conflitti interni all’occidente proiettata in un teatro di guerra straniero al fine di potersi esprimere con l’azione.

Si tratta di una perdita o mancanza di identità che porta sempre più numerosi cittadini, per lo più in età giovane, a disconoscere i principi sui quali si è fondata la loro formazione e per i quali dovrebbero reagire contro ogni minaccia ma che al contrario rivolgono contro di essi la propria ostilità. Che il tramonto dell’occidente si manifesti con un’autoimmunità sociale?

 




La dignità ritrovata

Arin MirkanCeylan OzalpDue donne curde si sono uccise in questi primi giorni di ottobre per difendere la loro città di Kobane in Siria dall’aggressione delle brigate nere dell’Isis. Finite le munizioni, per evitare il martirio come prigioniere degli jihadisti, una si è gettata come un kamikaze contro il nemico, l’altra ha utilizzato l’ultima pallottola contro se stessa.

Nella mitologia greca gli eroi erano giovani e belli e costituivano per gli uomini il modo di avvicinarsi agli dei. Arin Mirka e Ceylan Ozalp erano donne giovani e belle. Non sono abbastanza “maschilista” per farmi commuovere solo dalla bellezza femminile, ancor meno sono ideologico per fare dei loro volti la versione femminile dell’icona del Che Guevara. C’è di più, molto di più in questa tragica vicenda che non si può esorcizzare elogiando il sacrificio o l’eroismo di donne fiere e combattenti e che ci riguarda tutti. Questi due volti, senza veli, ci sconvolgono per due sentimenti profondi che la loro tragica scomparsa ha fatto riemergere in noi: la vergogna e la paura della fine.

La vergogna. Non è questione di scontro tra civiltà, ma del riconoscimento e della difesa dei principi su cui si fonda le nostra identità e che il popolo curdo, prevalentemente musulmano ma di tradizione culturale indoeuropea, oggi ci ricorda con la propria lotta contro il terrorismo integralista. All’epoca delle manifestazioni contro la guerra del Vietnam, negli anni settanta, nutrivo un certo disagio nel pensare ai soldati americani miei coetanei che rischiavano la loro vita, molti di loro la persero, mentre io europeo sfilavo per le strade della mia città. Quando in anni più recenti, oramai adulto, mi sono recato al Vietnam Veterans Memorial  a Washington ho sfogliato il libro dei caduti per cercare il nome, i nomi, di coloro che erano nati nello stesso mio giorno, mese ed anno, con la profonda angoscia che avrei potuto leggervi anche il mio. L’inquietudine non derivava dalle ragioni di quella guerra, ancor meno da una mia presunta appartenenza ideologica o religiosa, ma dalla consapevolezza della alterità della vita, della sofferenza e della morte formatasi nella nostra società. È un fatto, ed è positivo, che i giovani, in particolare nel nostro Paese, non abbiano conosciuto da due generazioni la tragedia della guerra e i suoi sacrifici. Questa condizione privilegiata ha consentito loro di sviluppare una cultura solidale e pacifista, ma dobbiamo vigilare sul rischio che non abbia affievolito la loro integrità morale.

La paura della fine. Da un secolo ci arrovelliamo sulla possibilità del tramonto dell’occidente: due guerre mondiali, altre guerre in Corea, in Vietnam, nel Medio Oriente, dalla paura di ieri per un olocausto nucleare causato dalla guerra fredda indotta dalle super potenze e guerreggiata di nascosto al terrore per gli attentati preannunciati apertamente a tutto il mondo dagli jihaidisti islamici. Tornano alla mente le parole di Oswald Spengler: “Noi non abbiamo la possibilità di realizzare questo o quello ma la libertà di fare ciò che è necessario o nulla; ed un compito che la necessità della storia ha posto verrà realizzato con il singolo o contro di esso.” Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.  Intanto, un senso di angoscia si diffonde e si generalizza nei paesi occidentali: non tanto per l’orrore suscitato dalle decapitazioni spettacolari quanto per il timore di arrivare ad ammettere la necessità della forza come risposta e dunque regredire allo stato di violenza animale. E qui tornano alla mente le parole tratte da Cuore di tenebra di Joseph Conrad e riprese nel  monologo del colonnello Kurtz in Apocalypse now: “È impossibile trovare le parole…per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore. L’orrore…l’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore. L’ orrore e il terrore morale ci sono amici in caso contrario allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici. (…). Bisogna avere uomini con un senso morale, ma che allo stesso tempo siano capaci di… utilizzare i loro primordiali istinti di uccidere senza emozioni, senza passioni, senza discernimento… Senza discernimento. Perché è l’intenzione di giudicare che ci sconfigge.”

Sul piano politico noi portiamo la colpa di avere lasciato queste due donne senza più munizioni, disconoscendo coloro che là fuori, ai confini dell’occidente, difendono le nostre democrazie senza poter praticare la loro. Sul piano etico loro ci offrono un esempio per una dignità ritrovata.