Per un mondo di padroni senza schiavi

Unknown Renzi e tutta la destra inseguono una politica liberista, sono la stragrande maggioranza. Questo è un fatto. Inoltre il pensiero unico economico, la metafisica della tecnica, il turbocapitalismo, il Mercato vanno ben al di là dei confini nazionali. Secondo cliché già sperimentati e controproducenti, ancora una volta l’opposizione combatte Renzi non le sue non-idee. Sul piano filosofico-esistenziale nessuna idea, da parte di nessuno. Mi dà la nausea che anche all’opposizione il pensiero unico domini l’intera partita, che il pensiero sia da sempre, sempre e solo economico. Nessuno spazio per la cultura considerata ancora oggi dalla sinistra, nel vetero intendimento pseudo-marxista, una sovrastruttura. Eppure dovrebbe essere chiaro che un servo vive nella paura.

Gli schiavi hanno vissuto nella paura un’intera esistenza, nella paura assoluta, nella paura quotidiana di perdere la vita. Lo schiavo ha dovuto dimorare in ogni istante della propria esistenza con questa minaccia sempre presente; pericolo che ora si avvicina ora si allontana in funzione del servizio reso al signore. Paura della morte e servizio si legano indissolubilmente. Lo schiavo vive solo se serve. In considerazione di ciò bisogna riflettere che il modo migliore per allontanare la paura è servire, servire diminuisce la paura. Un altro è non pensarci. Lo schiavo deve inoltre nascondersi, nascondersi più che può, il pericolo viene da Cesare e più ci si avvicina a Cesare più aumenta la paura.

Servizio, non pensiero e lontananza. Tutto avviene secondo misura. Come possiamo noi immaginarci un’intera vita vissuta nell’angoscia, nell’ansia, nel terrore? intender non lo può chi non lo prova. Ma anche se questa esperienza, per nostra fortuna, ci è negata non ci è negata la possibilità di rappresentarla. Lo spirito si approfondisce nella conoscenza solo se sperimenta la sofferenza. La propria come quella degli altri. Senza questa conoscenza che riguarda tutti nel passato come nel presente manca infatti la Memoria. La memoria, il ri-cordare, il riportare al cuore e ritenere l’immagine nel ricordo, segna lo spessore della nostra persona o la nostra superficialità, da ultimo la memoria siamo noi. Senza memoria le parole restano parole e l’esistenza galleggia irrisolta nella mediocrità in perenne fuga verso la realtà, un contingente sempre più stretto che può arrivare a soffocarci nel qui e ora. Per gli stolti schiavo sarà sempre solo un nome su un libro, un libro di quella storia stolta che stolti insegnanti hanno dato da leggere senza la capacità di far rivivere quello Spirito in carne e ossa che è il vero spirito della storia.

Il civilissimo Cesare, modello di grandezza per tutti i poveri di spirito, faceva tagliare la testa allo schiavo che gli aveva fatto cadere un vaso. Questo non ve lo hanno mai insegnato. Il Signore ha coscienza solo per sé e la sua mira è il godimento, ma il Signore non ha rapporto con le cose e per questo gli servono servi, servi che con una coscienza da servi, servono l’unico “fare”: il fare del Signore. Signori e Servi sono tutti “uomini del fare”. Sulla paura si è fondata la storia.

Millenni di anni di schiavitù, poi il passaggio alla condizione del servo, con le sue varianti nobili del cavaliere nell’occidente europeo e del samurai in Giappone, infine queste parole “gli uomini nascono liberi”. Queste parole sanciscono un diritto che stravolge i rapporti umani e con questo anche l’economia. La morte, la paura assoluta, cessa di essere ricatto. Passato il tempo degli schiavi e la forza del ricatto diminuisce, oggettivamente diminuisce, diminuisce in virtù di un principio umanitario che cambia le relazioni e i rapporti di forza. La ricattabilità diminuisce ma non scompare, diminuisce secondo misura. Nuove forme di ricatto prendono atto. Nel mondo civile non esistono più gli schiavi, la pena per la disobbedienza non è più la morte, oggi il ricatto si chiama “futuro”. Oggi il ricatto è il lavoro. Oggi il Mercato è il Signore, il Signore per poter imporre il servizio tiene in ostaggio il futuro. Il lavoro è lo strumento di ricatto: arbeit macht frei. L’unico baluardo sono i diritti.

Tutti d’accordo sulla “la centralità del lavoro. Lavoro inteso come elaborazione da parte del Sevo e come ricatto da parte del Signore. Meno diritti significa infatti più paura, più ricattabilità. Per questo quelle del Mercato devono essere chiamate Leggi. Le Leggi del Mercato tolgono di necessità i diritti. Più paura più servizio. È sulla paura che si fonda lo sfruttamento.

Oggi i giovani vivono nella precarietà, che non è solo precarietà del lavoro ma preoccupazione per la propria intera esistenza, è la vita stessa ad essere messa in discussione, a essere precaria. Vivono nella paura di non trovare lavoro, di perdere il lavoro, di non avere futuro. La precarietà, l’ insicurezza sono condizione di vita. Sono lasciati soli. L’essere lasciati soli aumenta l’insicurezza e la paura e con la paura aumenta la ricattabilità. Gli hanno sottratto il futuro e sottrarre il futuro significa rimetterli nella paura. Il malessere si diffonde.

La minaccia viene dal futuro, viene da lontano e la difesa è il non-pensiero. I giovani fuggono nel contingente e cercano di non pensare a ciò cui non sanno trovare soluzione, scusati in se stessi dalla non responsabilità per le colpe dei padri: i giovani pensano che non avere colpe li assolva. Trovano la soluzione in una coscienza da servo, hanno una sola soluzione “non pensarci” e servire, fuggire nel contingente in maniera sempre più miope e ristretta: io speriamo che me la cavo. Questa la regressione favorita da vent’anni di berlusconismo che continua aggravata dalla crisi da un giovinastro.

Il ricatto sul lavoro fondato sulla paura del futuro è alla base dell’ideologia liberista, del Mercato che trova nella paura e nel ricatto il suo odioso fondamento. I Monti non comprendono questo dire, la loro insipienza è grande più della loro ricchezza e l’una e l’altra preservano lor signorie da ogni preoccupazione filosofico-esistenziale, una materia di cui ignorano l’esistenza. Il problema è che la Cultura è sconosciuta a tutti. Tutti ignorano che a fondamento di ogni economia ci sia il Diritto. Le sinistre anziché fare cultura si sono preoccupate solo di dire no dove il mercato diceva sì, senza mai uscire dal discorso unico. La centralità è l’uomo non il lavoro. Il lavoro non può essere un ricatto e l’uomo non deve più vivere nella paura.

La ricattabilità è categoria dell’essere da sempre esistita, dal ricatto naturale per la sopravvivenza al ricatto del Signore nella storia. Dobbiamo liberarci da questa odiosa fattispecie. Dobbiamo liberarci dalla paura. Sarà chinare la testa la soluzione?
Una coscienza da Servo libera l’anima di molti dalla paura, ma offende la dignità di tutti.
Solo la cultura ci salverà.




La voce nel deserto

Unknown-1“Il deserto cresce, guai a colui che favorisce i deserti!” così Nietzsche nel suo Zarathustra. Il deserto è la peggiore delle catastrofi, peggiore della distruzione, perché dove si fa deserto non crescerà più l’erba. Con il dominio dello spettacolo la modalità del pensiero debole ha da lungo tempo preso il sopravvento. Rappresentazioni sterili che inavvertitamente ciascuno porta dentro di sé, ciascuno facendosi portavoce della chiacchiera. I significanti abbandonano i significati e con essi la memoria. Un destino che coinvolge la terra intera fin nel suo angolo più remoto. Nel deserto che cresce, cresce la quiete, ogni pensiero si sforza di restare nell’ambito che gli è assegnato soltanto per poter meglio tacere. Nella crescente aridità le lumache si ritirano nel guscio e i pesci nel fango. Un fare miope e spicciolo vive costantemente nell’urgenza e nell’impreparazione. Affanno e paura i nemici da esorcizzare. Tutto scorre sulla superficie, insostenibile leggerezza dell’essere: cultura è di-vertimento, anche la politica spettacolo. Sempre più cattivo.

Sempre nuovi strumenti sorgono dalla tecnica e l’uomo attuale non è preparato alla loro amministrazione, per un simile governo. Il loro sorgere è inquietante. Pone nuovi interrogativi. Da un lato la minaccia atomica, dall’altro l’uomo viene colto fin nella sua biologia. Il Senso diversamente si sottrae, non si lascia cogliere nelle circostanze: uno sguardo miope vaga attraverso la constatazione dei “fatti”. Chiamano “fatti” l’apparire del sole. Non sanno che è solo un’illusione. Non sanno quello che nel suo apparire fa essere presente ciò che è presente. Ancora non capiscono Senso. Il “sano” intelletto rimane modellato su un unico binario in una determinata concezione: il progresso tecnologico come universale panacea, come variabile indipendente da qualsiasi morale. Si chiede alla scienza una risposta che la scienza non potrà mai dare. Questo sano intelletto non è predisposto a nessuna problematica che interessi realmente il pianeta, a ottenere un senso, il pensiero rimane agnostico e indeterminato in attesa sprovveduta della provvidenza. Ogni imprevisto ci trova impreparati.

C’è il pericolo che il pensiero dell’uomo attuale intorno alle decisioni future sia troppo limitato e che quindi cerchi soluzioni laddove non ce ne potranno mai essere. Si vive in un mondo irresponsabile e questo viene chiamato libertà. Ancora non si pensa. I fatti ancora non parlano. Animalità e razionalità sono separati da un abisso, si contrappongono. Ancora troppo pesantemente vive dentro di noi la lupa carca di tutte brame. Questa divisione impedisce all’uomo di essere unito nella sua essenza e conseguentemente libero. Una libertà vissuta lontana dagli istinti nel cielo olimpico dei sentimenti è ancora da venire. Una libertà che appartiene solo al cammino del pensiero di contro all’odore stantio dell’uomo tradizionale che cementifica la chiacchiera e così facendo si offre inavvertitamente come maiale al sacrificio. Al servizio del popolo sempre, giammai suoi servitori.

Il semplicemente quantitativo non prevede salti di qualità. Eppure l’uomo deve gettare i semi oltre se stesso e abbandonare il pensiero unico: il Mercato. Il Mercato è la tècne ideologica che condiziona ogni pensato. Recita: “Bisogna fare i conti” e questo “contare” respira gelido “fin nell’angolo più remoto”. Squassa le viscere. Toglie i respiro. Sono gli uomini grigi che fumano in continuazione e ci intossicano l’aria. I servi del Mercato sono su tutti gli schermi a di-vertire, a fare spettacolo. Burattini della congiura di Nessuno.
Solo la cultura ci salverà.




Il dilemma del prigioniero della competitività

images-3Sembrano tutti d’accordo che il modo per uscire dalla crisi sia puntare sulla  competitività, sul merito e sulla flessibilità. Tre parole diventate il mantra dell’ideologia economica, della destra quanto della sinistra.  Tre concetti usati senza più riguardo alla misura, che necessitano dunque di ristabilire una ottimale moderazione: est modus in rebus. In un sistema produttivo di un dato territorio l’aumento della competitività dovrebbe garantire di rimanere nel mercato reggendo alla concorrenza, il che significa che l’Europa nella sua generalità arriverebbe a produrre in quantità e qualità in modo competitivo con altre potenze mondiali le quali a loro volta se vogliono rimanere competitive sul mercato saranno spinte a produrre di più e meglio. Con la competitività quindi il mondo intero trarrà vantaggi. È la vecchia storia dello sviluppo capitalista: se aumenta la ricchezza staremo meglio tutti. Di contro il controllo politico dei mercati frena lo sviluppo, l’imposizione di regole nuoce al Mercato. Meno Stato e meno burocrazia segreto del successo.

Banalità indicibili che ancora oggi regnano sovrane nella mente dei Renzi che per questo di sinistra non sono. Ci sono almeno tre “se” al dictat competitivo: la competitività è un bene se non distrugge il pianeta, la competitività è un bene se non aumenta la disuguaglianza, la competitività è un bene se non schiavizza il popolo. Il fine infatti dovrebbe essere il benessere di tutti. Realisticamente, anche se questo non si rende immediatamente possibile, dovrebbe comunque esprimere la direzione verso la quale il progresso dovrebbe volgersi.

La velocità non è un parametro trascurabile, ma deve essere collocata non nel contingente ma storicamente; detto diversamente essere sì veloce in ogni situazione contingente quanto si può purché nella direzione del rispetto dell’ambiente e dell’uguaglianza ovvero dei diritti del pianeta e delle persone.

Un turbocapitalimo in obbedienza  al solo mercato genera un competizione malsana che provoca disuguaglianze sempre crescenti e distruzione progressiva delle risorse a solo beneficio di pochi, sempre meno, che godono di parti crescenti di ricchezza. In definitiva saremo tutti destinati a lavorare sempre di più in condizioni di crescente ricattabilità, vedremo cioè per ragioni di realismo economico peggiorare progressivamente le nostre condizioni di vita in dipendenza di impersonali leggi di mercato.

La logica capitalista espressa in positivo nella banalità della convinzione secondo cui  “più ricchezza e staremo meglio tutti” ha avuto successo in occidente, contro regimi burocratici che attraverso regole imposte dalla politica hanno fatto patire la miseria alla propria popolazione. Questo ha convinto i capitalisti della bontà della loro ideologia. Il problema delle disuguaglianze per il capitalismo è un falso problema. La disuguaglianza è per il capitalismo una necessità naturale inevitabile e necessaria e in un certo senso utile, incentiva la competitività. Fino a che punto? Non è questione morale: lo decide il Mercato. In fondo l’ideologia o non-ideologia capitalista segue le leggi naturali della selezione dando più spazio ai più meritevoli. Il merito unitamente alla flessibilità infatti è uno dei simboli più pubblicizzati.

Bisognerebbe riflette che in un mondo in cui ancora tutto dipende da dove si nasce e da chi si nasce, tanto più quanto più è arretrata la cultura in cui si nasce, parlare di merito è un tantino ipocrita e che flessibilità senza garanzie significa perdita dei diritti. Nella crescita della disuguaglianza e progressiva distruzione delle risorse dunque il nostro avvenire.  

Ovviamente si impone un freno a tutto ciò. Orbene in una democrazia si esprime il volere della maggioranza e diminuendo progressivamente il numero di coloro che godono della ricchezza, al potere a conti fatti dovrebbe salire solo chi fa gli interessi del popolo. Il popolo diversamente elegge il sogno e non la realtà, l’aspirazione è in fatti sempre la stessa “essere come loro” per avere quello che hanno loro. Il modello utopico in seno al popolo rimane il mito capitalista del consumismo.  Non  esiste alcun mito che si contrapponga. Da qui la necessità di un nuovo mito. La caduta del comunismo che non ha saputo tradurre in pratica i propri ideali ha dato via libera al capitalismo traducendolo in turbo-capitalismo. Ora il pensiero debole e un basso sentire sono di fatto i suoi migliori alleati. Per chi ha inteso il problema in ultima analisi non è il potere economico, ma solo la  cultura del popoloDi cultura, questa cultura, nessuno parla. Nessun governo si rivolge al popolo per una sua emancipazione. Eppure solo la cultura potrà salvarci. Solo la cultura ci salverà.