L’ascolto degli altri secondo i Gesuiti

Unknown-1Il Papa della Chiesa Cattolica parla per il bene dell’umanità e in particolare per gli umili e gli oppressi. Tuttavia per la politica di Papa Francesco non basta il successo popolare, al gesuita s’impone di seguire il ministero della “cura delle anime”: occorre che ci si educhi e ci si convinca. Alle esternazioni del Pontefice segue dunque la letteratura di appoggio dei suoi esegeti, per esempio la recente opera di Adriano Prosperi  “La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento” . Il saggio si pone come fine quello di sfatare alcuni luoghi comuni sull’ordine dei gesuiti rivalutandone la storia e la capacità di dialogo piuttosto che l’azione di proselitismo.

L’autore del saggio così difende l’argomento: “«Un tratto che distingue l’ ordine fondato da Ignazio è l’ apertura senza limiti al diverso religioso» e subito dopo prosegue con l’osservazione  «E soprattutto la disponibilità a percepire nei comportamenti una religiosità diffusa, anche se non espressamente manifesta” portando ad esempio quel “Francesco Saverio che approdato in Giappone disse agli studenti universitari europei: correte perché qui si tratta di rivelare a questo popolo che sono cristiani anche se non lo sanno”.  Se di apertura e dialogo si trattava certo non era tolleranza. D’altra parte, se l’apertura e il dialogo era rivolto ad oriente, come se quelle popolazioni induiste e buddiste da millenni si trovassero in uno stato selvaggio sul piano religioso, la tolleranza era già stata mostrata nei confronti degli evangelici protestanti: “Intendiamoci: erano tempi di guerra di religione e anche i gesuiti dovettero trafficare pesantemente contro i nemici eretici”. Già, lavoro pesante per i gesuiti usati per combattere i protestanti che erano i  nemici eretici , dal momento che non v’erano dubbi su chi fosse detentore della verità. Una verità sulla quale allora si giustificava l’esercizio del potere, tanto spirituale che temporale, ed oggi la ricostruzione storica giustificazionista. E così continua “l’ apertura senza limiti al diverso religioso”: “Ma al fondo rimase questa convinzione che sulla base di precetti morali semplici ci si poteva incontrare. Bisognava ascoltare gli altri. E, come diceva Ignazio, bisognava “entrare con l’ altro e uscire con se stesso”: un motto che evoca il rituale della lotta giapponese, una cedevolezza apparente che ti permette di abbracciare il tuo interlocutore per portarlo dalla tua parte»”.  

A me rimane invece la convinzione, avvaloratami dalle argomentazioni usate nel saggio, che il proselitismo è sempre stata la principale funzione di quest’ordine (i cui ministeri erano la cura delle anime, le opere di carità e l’attività educativa) e che, come ogni potere totalitario apprenderà da allora, i gesuiti «Seppero riconoscere il tesoro nascosto nella plasticità delle giovani e spesso giovanissime intelligenze, intercettando il bisogno di sapere che proveniva da tutta la società. Fu l’ asso calato da Ignazio nel secolo che scopriva la scuola».

Alla fin fine, la rivalutazione dei gesuiti in questo saggio passa attraverso la figura cinematografica nota come il “poliziotto buono e poliziotto cattivo”, essendo i Gesuiti il volto buono, mentre all’Inquisizione rimane quello cattivo.




La sostenibile presenza dell’Essere

images-2Può apparire ovvio intervenire alla cerimonia di apertura dell’Expo dedicata alla nutrizione del pianeta e parlare del valore del cibo in un mondo dove milioni di persone muoiono di fame e altri miliardi la soffrono, tanto più per chi si muove tra le parole del Vangelo, non si vive di solo pane, e le invocazioni delle preghiere, dacci oggi il nostro pane quotidiano. Eppure, il discorso del Papa è andato ben oltre ciò che l’orgogliosa esposizione mostra con la propria magnificenza: “Vorrei che oggi ogni persona che visiterà Expo percepisca la presenza di quei volti, una presenza nascosta ma che in realtà deve essere la vera protagonista dell’evento: i volti degli uomini e delle donne che hanno fame, che muoiono anche per un alimentazione carente e nociva”.

E non solo si evocano i volti di coloro che non sono presenti come i veri soggetti della esposizione, piuttosto che gratificarsi per le masse attirate dallo spettacolo, ma si richiamano i governanti e gli uomini di potere alla etica della cura per la terra “L’atteggiamento della custodia non è un impegno esclusivo dei cristiani, riguarda tutti”, all’etica nella politica: “Quali i pilastri di chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica? La risposta è precisa: la dignità della persona umana e il bene comune”. 

Ai politici in particolare il Papa si rivolge infine una lezione: «Abbiate uno sguardo e un cuore orientati non ad un pragmatismo emergenziale che si rivela come proposta sempre provvisoria, ma ad un orientamento deciso nel risolvere le cause strutturali della povertà. Ricordiamoci che la radice di tutti i mali è la iniquità”.

Il discorso del Papa è alto perché pone il problema non più solo in chiave pastorale e religiosa quanto perché esplicita una critica economica e politica: «No, a un’economia dell’esclusione e della iniquità. Questa economia uccide» e nel contempo apre alla riflessione filosofica, perché alla fin fine ciò che muove le coscienze è ciò che non si vede, la presenza immanente dell’Essere.

 

 

 

 

 




Io penso come mi piace

734998_143240769168199_38304282_n«Lo spirito del mondo non ci vuole popolo: ci vuole massa, senza pensiero, senza libertà». Parrebbe la riflessione critica di un laico sulla crisi della politica e della democrazia e invece sono le parole di Papa Francesco, argomento della sua omelia odierna.  Il Pontefice si rivolge come Cristo agli “Stolti e tardi di cuore” ammonendo che lo spirito del mondo «vuole che andiamo per una strada di uniformità» e «ci tratta come se noi non avessimo la capacità di pensare da noi stessi; ci tratta come persone non libere». Il Papa prosegue quindi dicendo che «il pensiero uniforme, il pensiero uguale, il pensiero debole» è «un pensiero diffuso” che alla mancanza di riflessione si oppone  con l’ “Io penso come mi piace!”, invitando a «pensare liberamente, pensare per capire cosa succede».

Nessun uomo di buona volontà e onestà intellettuale, laico che sia, può disattendere queste verità.  Ovviamente per papa Francesco la libertà di pensiero è solo in Cristo, in quel cuore che ci ha insegnato a pensare e ad amare senza essere schiavi del proprio tempo attenti a cogliere il segno dei tempi senza relegarlo per realismo al  qui ed ora  o per relativismo all’ io penso come mi piace. Guai a chi è schiavo del proprio tempo. La natura ed il suo vivente fluire non furono mai chiusi entro giorni, notti ed ore (Talete). Ma al di là della visione teologica rimane che certe verità siano talmente universali da trascendere ogni religione e ogni laicità.

Una recente mia lettura di “Dal Cristocentrismo al Cristomorfismo. In dialogo con David Tracy”, del pastore cattolico don Dario Balocco, rilevo la seguente sua osservazione critica: “Per riuscire nella comunicazione è necessario infatti compensare l’obiettiva debolezza del discorso , con la forza del soggetto che lo proclama e la debolezza dell’ascoltatore”.  L’autorità dunque dà forza al discorso in proporzione alla debolezza di pensiero di chi ascolta. L’assunto che il locutore possa servirsi della propria autorità o dell’autorità di altri per avvalorare il proprio discorso è un fatto. E che questo sia reso possibile, tanto più possibile, grazie alla debolezza della platea è altrettanto vero.

In pratica sia don Dario Balocco che  Papa Francesco stanno parlando dell’intendimento più vero della Cultura una maturazione in mente e cuore dello spirito per quella auspicata trasformazione da massa a popolo che può avvenire solo attraverso acquisizione di coscienza. La ‘coscienza di classe’ è stato tentativo in questa direzione e ha prodotto a suo tempo notevoli risultati.  Il fallimento del ‘comunismo reale ‘ha gettato via il bambino con l’acqua sporca, il momento di aggregazione è stato sacrificato all’ideologia (Chiesa rossa). Formare le coscienze avrebbe dovuto significare dare cultura al popolo secondo libero pensiero. Come sempre è divenuto catechizzazione, sostituendo l’idolo al Dio.

Questo errore capitale è caratteristico di ogni ideologia, religiosa o laica che sia. Finché avremo una platea debole, debole di spirito, non potremo aspirare a nessuna democrazia. Della cultura ovvero della maturazione delle coscienza non se ne è occupata la destra, che anzi ha tutto l’interesse a mantenere debole lo spirito e a operare perché l’analfabetismo dilaghi nelle masse, ma neppure la sinistra che ha ignorato in modo totale il problema attaccata ad una ideologia economicista del lavoro privandola della cultura, della formazione delle coscienza, un argomento del tutto estraneo.

Tutto questo ha portato a una regressione ben più grave della recessione che stiamo vivendo, di cui anzi la recessione non è che l’ultima conseguenza. Mondiale. Il mostro senza testa, la Finanza, sta divorando l’essente.

In Italia, paese dalla cultura particolarmente arretrata, da parte della destra come baluardo di tutti gli sragionanti proferiti esistono due punti fermi: la figura carismatica del leader e il suo consenso, milioni di voti di schiavi che si pensano liberi. Sono la massa, quella platea debole costituita non solo dai votanti di destra, ma da tutti coloro che riconoscono all’imbonitore merito e intelligenza, per quell’amor che affossa il mondo e tutto lo governa.

Dice papa Francesco «cercare cosa significano le cose e capire bene i segni dei tempi». Non  rimarrà ai laici che sperare nel Papa?  Solo la cultura ci salverà.

 




Temo i gesuiti anche quando portano doni

papaPapa Francesco è il primo pontefice appartenente all’ordine religioso dei Gesuiti ed il primo ad essersi denominato Francesco. Egli ci appare come un ossimoro nella storia della Chiesa cattolica apostolica romana,se non fosse per il costante richiamo della sua predicazione ecumenica alla povertà.

La recente corrispondenza con Eugenio Scalfari pubblicata con grande evidenza sul quotidiano La Repubblica sul tema del rapporto tra Fede e Ragione, ovvero sul dialogo tra credenti e non credenti, ha benevolmente sorpreso tutto il mondo e costituisce un ulteriore conferma del nuovo stile comunicativo del Pontefice che appare a molti come il nuovo e tanto atteso corso della Chiesa Cattolica.  Affermazioni come “la verità è una relazione”,  “il peccato anche per chi non ha la fede c’è quando si va contro la coscienza”, “il popolo ebreo è tuttora per noi la radice santa da cui è germinato Gesù”,“La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l’esclusione”, “Dio sarà tutto in tutti” hanno colpito in profondità l’immaginario di tutti gli uomini di buona volontà. Tra le analisi impegnate a rilevare l’apparente originalità di questo evento vi è quella di Enzo Bianchi (La Repubblica del 16/9) il quale rivela che Papa Francesco “è un Papa non italiano e non europeo che si rivolge a un intellettuale italiano” e più oltre che “Un vescovo di Roma, che ha la potestà e l’autorevolezza sull’intero orbe cattolico, dialoga direttamente con il fondatore ed editorialista di un quotidiano laico che ha sede a Roma”. Tutto questo inquadrato nel dialogo interreligioso e culturale che da tempo costituisce sfida e opportunità quotidiana per molti confratelli del Papa, i gesuiti.

Tre secoli separano la fondazione della Compagnia di Gesù (Ordine di chierici regolari) del 1534 da quella dell’Ordine francescano (Ordine dei Frati Minori) del 1209 e non v’è nulla di originale né nuovo nell’operato di Papa Francesco se solo si ricordano i ministeri ai quali dovevano attendere i gesuiti: la cura delle anime (non solo il catechismo, ma anche la consolazione spirituale dei credenti, con l’ascoltarne le confessioni e con l’amministrazione degli altri sacramenti), le opere di carità (rivolte agli ammalati, ai carcerati, alle prostitute, agli ebrei e mussulmani ai convertiti al cristianesimo) l’attività educativa (istituzione di collegi aperti a tutte le classi sociali, ma particolarmente specializzati nell’educazione dei giovani di nascita aristocratica e alto borghese al fine di formare la classe dirigente).

Impegnati ad arrestare il dilagare del protestantesimo nell’Europa centrale e ad evangelizzare i nuovi mondi da poco scoperti ed in via di colonizzazione, in osservanza del voto di totale obbedienza al papa, fin dagli esordi intrapresero un’intensa attività missionaria nei paesi da poco scoperti quali  l’India, il Giappone, la Cina, l’Africa, il Brasile, il Paraguay e il Canada. Ed oggi la preoccupazione della Chiesa cattolica non è mutata, di fronte alla temuta espansione delle chiese evangeliche in America Latina, in forte ascesa economica e sociale, che in questi ultimi anni hanno eroso la presenza cattolica nel continente fino a strapparne il primato in molti paesi come il Brasile, El Salvador, Guatemala.  Già il Cardinale Joseph Ratzinger ebbe a dire nel 2004 che “…Forse si deve qui osservare anche che gli Stati Uniti promuovono ampiamente la protestantizzazione dell’America Latina e quindi il dissolvimento della Chiesa cattolica ad opera di forme di chiese libere, per la convinzione che la Chiesa cattolica non potrebbe garantire un sistema politico ed economico stabile, in quanto dunque fallirebbe come educatrice delle nazioni, mentre ci si aspetta che il modello delle chiese libere renderà possibile un consenso morale e una formazione democratica della volontà pubblica, simili a quelli caratteristici degli Stati Uniti”.  Divenuto Papa Benedetto XVI compì in Brasile la visita nel 2007.

Quanto ai temi teologici affrontati nel dialogo, temo si ricada nella falsa contrapposizione ideologica tra Fede e Ragione, tra assoluto e relativo, quando il problema è filosofico e risiede piuttosto nella conoscenza e nella coscienza. Giusto e condivisibile il passaggio  di Papa Francesco, a mio parere il più “illuminante” ed anche il più compromettente per un religioso, secondo cui “risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario la verità lo fa umile sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti”. E’ questo un passaggio notevole perché concepisce la verità come immanente e non più trascendente.

A pochi giorni dalla nomina a Pontefice di Jorge Mario Bergoglio, e da quelle del Presidente della Camera e del Senato della Repubblica, sul mio post Captatio benevolentiae  scrivevo “Papa Francesco benedice tutti, anche i non credenti, e invoca la misericordia,  il Presidente della Camera vuole rappresentare  i diritti degli ultimi, il Presidente del Senato invoca la concordia e la pace sociale.  Il sentire comune dei religiosi e dei laici, in assenza della ragione, si coagula così su messaggi ecumenici rassicuranti che placano l’angoscia causata dall’incertezza e dall’insicurezza del mondo, là fuori:  il bisogno di religere attorno al sacro si sostituisce a quello della politeia”.  

Alla fin fine sia benvenuta ogni apertura alla verità, alla fratellanza e al dialogo purché ciò avvenga nella tolleranza della diversità. La sapienza deve guidare il cammino dell’uomo, non la fede, nella consapevolezza che la verità esiste e che non è rivelata. Viene in mente Eraclito, per il quale “per i risvegliati c’è un cosmo unico e comune, ma ciascuno dei dormienti si involge in un mondo proprio”.




Captatio benevolentiae

Pericle

Nel caos della politica e dell’etica italiana il Papa Francesco, i Presidenti della Camera Laura Boldrini e del Senato Pietro Grasso, persone singolarmente stimabili, si sono presentati come un attrattore nei confronti di un popolo culturalmente vulnerabile e reso insicuro dalla crisi economica.  I discorsi d’insediamento con i quali si sono presentati appaiono accomunati da un’abile ed efficace retorica (l’arte del dire) che mischia elementi laici a quelli religiosi.  Già da questi discorsi abbiamo una prima conferma della principale verità emersa con gli esiti elettorali: la sostituzione del bipolarismo con il bipopulismo, di destra e di sinistra.  Il fatto è che gli italiani hanno bisogno del populismo per fare politica.

Da questa constatazione, che di per sé non costituirebbe un limite negativo per l’evoluzione della democrazia, discendono però importanti considerazioni sulla comunicazione politica, che ricordiamo riguarda il rapporto uno-molti.

Nei passati regimi politici totalitari la comunicazione politica era chiamata propaganda e veniva considerata di fondamentale importanza nella formazione del popolo. Nei regimi economico-finanziari contemporanei essa è stata sostituita dal marketing. Le parate militari, le adunanze oceaniche, i comizi e i cortei sono stati tendenzialmente sostituiti dai talk show televisivi e più recentemente dall’illusione partecipativa offerta dal web, mentre il duce o il führer o il dittatore del proletariato è stato sostituito dal leader.

Viviamo in una società della percezione dove la comunicazione è divenuta spettacolo, che non è più un banale insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone mediato da immagini dove tutto ciò che un tempo era vissuto direttamente si è trasformato in una rappresentazione. E le tecniche impiegate sono quelle della pubblicità: la ripetizione ossessiva di un messaggio isterico, che vende ciò di cui non parla e parla di ciò che non vende.

Papa Francesco benedice tutti, anche i non credenti, e invoca la misericordia,  il Presidente della Camera vuole rappresentare  i diritti degli ultimi, il Presidente del Senato invoca la concordia e la pace sociale.  Il sentire comune dei religiosi e dei laici, in assenza della ragione, si coagula così su messaggi ecumenici rassicuranti che placano l’angoscia causata dall’incertezza e dall’insicurezza del mondo, là fuori:  il bisogno di religere attorno al sacro si sostituisce a quello della politeia.

In omaggio alla retorica, alla demagogia, alla democrazia e al popolo ricordo il Discorso agli Ateniesi, 461 a.C. di Pericle, nella speranza di poterlo ascoltare, con gli opportuni adattamenti alla nostra epoca e condizione, pronunciato da un futuro Presidente del Consiglio o Presidente della Repubblica:

“Qui ad Atene noi facciamo così. Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.

Qui ad Atene noi facciamo così.  Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.

Qui ad Atene noi facciamo così.  La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.  Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.  Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.

Qui ad Atene noi facciamo così.  Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.  E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.

Qui ad Atene noi facciamo così.  Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.  Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.  Qui ad Atene noi facciamo così.”