Dietro le quinte colonne

imagesLe persone più pericolose, politici, giornalisti o altri, sono coloro che a priori sono contrari a ogni dietrologia. Questo luogo comune entrato a far parte della chiacchiera tende a impedire di fatto ogni analisi critica. Sulle fantasie complottistiche possiamo essere tutti d’accordo ma ritenere che i cosidetti poteri forti non si ingegnino con ogni mezzo per ottenere quelli che nell’ormai gergo comune vengono chiamati “i risultati” può essere imputabile o a stupidità o a malafede. Andiamo per logica. Poter vivere nel paese in cui si nasce credo sia un diritto riconoscibile sia per umanità che per convenienza. Questo riconoscimento bloccherebbe nei fatti qualsiasi flusso migratorio. Questo dunque l’obiettivo. Le migrazioni hanno principalmente due cause: la fame e la guerra. La guerra.

Una banale constatazione. Sul territorio occupato dall’Isis non si coniano monete, non ci sono banche, non vi è produzione alimentare, non vi sono fabbriche d’armi. Di conseguenza bisogna chiedersi come tutto ciò possa arrivare. Rimane chiaro che altri riforniscono quanto serve. Chi sono questi altri? Potrei fare delle ipotesi, ma non sono tanto esperto da addentrarmi in questa materia. Quello che so è che per certo i servizi segreti di molte nazioni sanno con precisione non solo chi, ma anche come, dove e quando e che di conseguenza lo sanno anche i loro governi.

Dunque anziché buttare bombe basterebbe colpire questi obiettivi e prendere l’Isis per strangolamento. Se ciò non accade e non viene neppure preso in considerazione occorre riflettere che dietro l’orrore umanitario ci sia convenienza economica e di potere. Qualcuno vende armi agli indiani, altri il whisky mentre i coloni conquistano i territori del west selvaggio.

Questo non risponde a un preciso piano predisposto del gruppo Bildenberg o della Massoneria o delle Multinazionali (che comunque se ne compiacciono e contribuiscono) ma alla logica del Pensiero Unico che vede solo nei “risultati” in termini di denaro e potere l’unica possibile realtà. L’uomo non sa più pensare a far altro di se stesso e con ciò immagina che tutto sia alla fine. 

Non si tratta dunque di complottare ma di schierarsi: chiunque agisca in termini di solo profitto al di fuori di qualsiasi morale è moralmente responsabile delle guerre anche se vive in soffitta. Tanto più quanto più. Soffocare l’Isis è l’unica strada percorribile e se ciò non avviene e neppure viene preso in considerazione significa che i Poteri Forti delle lobbies delle armi e del petrolio hanno tanto potere da condizionare i governi. Il nemico è in casa, sono i rinnegati del liberismo nella finanza. Solo la cultura ci salverà.




Fare o non fare questo è il problema

UnknownLa vignetta di Massimo Bucchi  accompagnata dalla battuta “per una giustizia rapida e più efficiente aboliremo quanti più reati possibili” fa sorridere amaramente perché afferma una verità indicibile. Non solo una verità sullo stato della giustizia nel nostro paese e sulla politica che l’amministra, ma una verità sulla mentalità diffusa a tutti i livelli di pensiero ormai diventata metastasi del pensiero unico  in tutti gli ambiti dell’operatività: la logica imperante del primato del risultato, che prevale sui principi e finisce con invertire la relazione  tra causa ed effetto.

Troviamo un esempio di questa logica in un articolo del 20/01/2016 sempre su La Repubblica   dove si tratta  dell’aumento del numero dei corsi universitari a numero chiuso e si esprime la preoccupazione di andare verso una università per pochi, questa volta non tanto per il costo delle rette quanto per l’aumentata selezione all’ingresso. Sull’argomento viene pubblicata anche un’intervista al Prorettore alla didattica dell’Università Bicocca di Milano,  in cui la verità sul fenomeno in argomento viene distribuita  tra le domande e le risposte come fosse un copione teatrale, provocando un effetto a dir poco surreale: “Diminuisce il numero dei professori, aumenta quello delle aspiranti matricole. Quindi bisogna mettere un freno alla continua crescita“?, chiede il giornalista, “Proprio così” risponde il prorettore che più oltre prosegue “In Italia c’è un grosso problema legato agli abbandoni. L’idea di porre un freno a questo ha portato al numero programmato. Molti studenti infatti lasciavano gli studi perché non seguiti dai professori., i quali non potevano seguire tutti perché le classi erano grandi. Uno spreco di capitale umano enorme, se ci pensa“. E il giornalista incalza: “ Quindi con la selezione all’ingresso diminuiscono gli studentesche lasciano l’università?” ottenendo per risposta “Si. L’abbiamo sperimentato direttamente (…) Funziona perché diventa una selezione di qualità e gli studenti che si iscrivono sono più motivati”. Qui ci fermiamo perché c’è abbastanza materiale per una riflessione.

La logica che traspare da queste poche battute ricorda la supply-side economy,  tanto di moda nei primi anni ottanta col nome di Reaganomics, ovvero l’idea contrapposta a quella keynesiana secondo la quale sarebbe l’offerta a stimolare la crescita economica. Se a questa teoria macroeconomica si affianca poi il rigore sul pareggio dei bilanci che tanto ha condizionato l’economia europea di questi ultimi cinque anni, otterremmo il quadro di riferimento concettuale all’interno del quale si colloca la necessità del numero chiuso nelle università. In tutti questi anni la politica, parafrasando concetti mutuati dalla pratica privatistica aziendale, ci ha presentato programmi di riforma giuridica, economica e sociale sostenendo la necessità nel settore pubblico, caratterizzato da una cultura amministrativa fondata su procedure farraginose, costose e inconcludenti, verso una cultura gestionale fondata sui risultati. Di qui la critica alla burocrazia inefficiente e l’esaltazione della produttività e della concretezza in nome dell’efficacia. La figura osannata dello “uomo del fare” interpreta bene questa ideologia, nella misura in cui riassume nella personalità del leader politico o del manager che si presta alla politica i due aspetti che caratterizzerebbero il nuovo riformismo.  Da un lato, la solitudine dell’uomo messo a capo della situazione in crisi che risolve i problemi superando le resistenze di un potere reso inefficiente dalla necessità di essere condiviso, dall’altro viene meno l’attenzione al come si fanno le cose per far prevalere quello che si è fatto e ottenuto, ovvero  il risultato.

Questo modo di pensare applicato, come si fa ormai su larga scala nel mondo, alla ricerca scientifica ha effetti devastanti. Condizionare la ricerca considerando i risultati, magari da ottenere a breve termine, come variabile indipendente induce inevitabilmente, attraverso il controllo degli investimenti, una limitazione della creatività con il restringimento del campo di ricerca, con ciò contraddicendo lo spirito stesso della ricerca, che al contrario deve essere libera, come libero dovrebbe essere il pensiero, e non necessariamente finalizzata a risultati immediati e concreti. Sappiamo che di molte delle più rivoluzionarie scoperte scientifiche o matematiche non si sapeva che farsene appena prodotte.  In altre parole, l’esigenza dell’economia-pensiero unico, per non parlare della finanza, ha imposto ad ogni attività l’immediato conseguimento di una utilità,  identificando così la cultura con la tecnologia. Il trionfo del principio del a cosa serve?

Il passo dalla ricerca scientifica all’istruzione e alla formazione è evidentemente breve. Riprendendo l’argomento iniziale circa la “utilità” del numero chiuso/programmato all’università vi è da chiedersi perché volendo pure agire sul lato dell’offerta non si preferisca adottare politiche più aperte volte a stimolare l’aumento della domanda di cultura, a potenziare l’università  ovvero ampliare l’universo dei giovani sul quale agire sì con criteri selettivi fondati sulle capacità ma al fine di ottenere il massimo possibile dei risultati. L’enorme spreco di capitale umano, di cui si rammarica il prorettore citato, professore di psicologia, sarebbe così arginato, dal momento che guardando al futuro di un Paese che continua ad avere un basso tasso di laureati nella fascia d’età giovanile bisogna comprendere che se con la cultura forse non si mangia, certamente d’ignoranza si muore.




Il Mercato rende liberi

UnknownIl Mercato, questa metafisica della Tecnica, questa congiura di Nessuno, domina attualmente il pianeta. E quali sono gli effetti del Mercato? Banalissimo: diminuire le retribuzioni, togliere i diritti, aumentare le disuguaglianze, inquinare e desertificare il pianeta. Non si tratta di un’opinione, tutto questo è sotto gli occhi di tutti. In questa direzione si stanno muovendo tutti gli Stati, compreso il nostro con un leader che ha come parola d’ordine “noi andiamo avanti!” . Avanti !? Mentre ci si arrovella se respingere o accogliere i migranti l’esplosione demografica in Africa, dimenticando per altro quella in India e in altre parti del mondo, ridicolizzerà qualsiasi proposta. Troverà come già trova, tutti impreparati. Per ora si volta la testa e con la testa sotto la sabbia si aspettano gli eventi. Io speriamo che me la cavo… del diman non c’è certezza. La memoria si riduce e lo sguardo si fa miope, si cerca il contingente. Le risorse energetiche e quelle agricole tendono a diminuire (esaurimento fossili, equilibri forestali e idrici compromessi, uso massivo dei fertilizzanti). Oggi il 12% della popolazione mondiale è denutrita (850 milioni di abitanti con meno di 2000 Kcal) ed è in aumento nonostante la razione media per ogni abitante della terra sia oggi, a meno del forte squilibrio distributivo esistente tra i paesi, adeguata ai bisogni biologici (2700 Kcal). Le risorse in generale, dunque, non tarderanno a mancare e la grande livella si farà sentire sempre più.

Se ad un formicaio forniamo più cibo il formicaio aumenterà. Questo che ha prima vista può sembrare un bene deve però porci diversi interrogativi. Se guardiamo al tutto dal punto di vista del singolo dobbiamo chiederci quale sarà la sua qualità della vita. L’aumento di risorse per il formicaio non è necessariamente un aumento di risorse per il singolo, anzi. Poiché le risorse aumentano in ragione aritmetica e la popolazione in ragione geometrica, l’aumento delle risorse in relazione all’aumento demografico potrebbe significare meno cibo per ciascuno. Il sovraffollamento di fatto provoca anche un aumento non solo della competitività, portando il singolo a lavorare sempre di più, ma anche della conflittualità ovvero a una maggiore litigiosità, a rivoluzioni, a guerre. La mortalità assoluta ovviamente aumenterebbe, più sono i vivi più sono i morti. I superflui, coloro che non lavorano o sono ammalati destinati a venir abbandonati.

Le nascite si possono controllare solo in due modi, o secondo coscienza o per selezione naturale, dove per selezione naturale si debbono intendere anche le guerre e gli olocausti, perché di ritorno ai crudi metodi della natura si tratta. In questa prospettiva assolutamente reale pare chiaro che si debba per tempo arrivare con la cultura a un controllo delle nascite, imposta dai governi o per coscienza dei popoli. L’autolimitazione delle nascite insegue la civiltà. Il Mercato, il pensiero unico economico, il treno in corsa, la congiura di nessuno, in combutta con gli egoismi nazionali corre in soccorso dei nuovi padroni della terra nei loro progetti di sfruttamento degli uomini e desertificazione del pianeta.

Lavorare di più, con meno diritti, con maggior ricattabilità, con paghe più basse e minor assistenza è il Nuovo Ordine Mondiale a cui ci vogliono preparare umiliando la dignità di una vita che per l’unica vita che ci è data, valga la pena di essere vissuta. La propaganda è già da tempo in atto. Per poter accettare tutto questo in Italia occorreva che a imporlo fosse una sinistra: dagli amici mi guardi Dio. Coloro che votano per l’eliminazione dei diritti e con ciò dello Stato di Diritto sono coloro che aiutano i deserti a crescere: “guai a chi aiuta i deserti a crescere”, ci ammoniva Nietzsche. Occorre un nuovo umanesimo dove per nuovo si intenda non la ripresa del vecchio, ma il suo superamento. Solo la Cultura ci salverà




La voce nel deserto

Unknown-1“Il deserto cresce, guai a colui che favorisce i deserti!” così Nietzsche nel suo Zarathustra. Il deserto è la peggiore delle catastrofi, peggiore della distruzione, perché dove si fa deserto non crescerà più l’erba. Con il dominio dello spettacolo la modalità del pensiero debole ha da lungo tempo preso il sopravvento. Rappresentazioni sterili che inavvertitamente ciascuno porta dentro di sé, ciascuno facendosi portavoce della chiacchiera. I significanti abbandonano i significati e con essi la memoria. Un destino che coinvolge la terra intera fin nel suo angolo più remoto. Nel deserto che cresce, cresce la quiete, ogni pensiero si sforza di restare nell’ambito che gli è assegnato soltanto per poter meglio tacere. Nella crescente aridità le lumache si ritirano nel guscio e i pesci nel fango. Un fare miope e spicciolo vive costantemente nell’urgenza e nell’impreparazione. Affanno e paura i nemici da esorcizzare. Tutto scorre sulla superficie, insostenibile leggerezza dell’essere: cultura è di-vertimento, anche la politica spettacolo. Sempre più cattivo.

Sempre nuovi strumenti sorgono dalla tecnica e l’uomo attuale non è preparato alla loro amministrazione, per un simile governo. Il loro sorgere è inquietante. Pone nuovi interrogativi. Da un lato la minaccia atomica, dall’altro l’uomo viene colto fin nella sua biologia. Il Senso diversamente si sottrae, non si lascia cogliere nelle circostanze: uno sguardo miope vaga attraverso la constatazione dei “fatti”. Chiamano “fatti” l’apparire del sole. Non sanno che è solo un’illusione. Non sanno quello che nel suo apparire fa essere presente ciò che è presente. Ancora non capiscono Senso. Il “sano” intelletto rimane modellato su un unico binario in una determinata concezione: il progresso tecnologico come universale panacea, come variabile indipendente da qualsiasi morale. Si chiede alla scienza una risposta che la scienza non potrà mai dare. Questo sano intelletto non è predisposto a nessuna problematica che interessi realmente il pianeta, a ottenere un senso, il pensiero rimane agnostico e indeterminato in attesa sprovveduta della provvidenza. Ogni imprevisto ci trova impreparati.

C’è il pericolo che il pensiero dell’uomo attuale intorno alle decisioni future sia troppo limitato e che quindi cerchi soluzioni laddove non ce ne potranno mai essere. Si vive in un mondo irresponsabile e questo viene chiamato libertà. Ancora non si pensa. I fatti ancora non parlano. Animalità e razionalità sono separati da un abisso, si contrappongono. Ancora troppo pesantemente vive dentro di noi la lupa carca di tutte brame. Questa divisione impedisce all’uomo di essere unito nella sua essenza e conseguentemente libero. Una libertà vissuta lontana dagli istinti nel cielo olimpico dei sentimenti è ancora da venire. Una libertà che appartiene solo al cammino del pensiero di contro all’odore stantio dell’uomo tradizionale che cementifica la chiacchiera e così facendo si offre inavvertitamente come maiale al sacrificio. Al servizio del popolo sempre, giammai suoi servitori.

Il semplicemente quantitativo non prevede salti di qualità. Eppure l’uomo deve gettare i semi oltre se stesso e abbandonare il pensiero unico: il Mercato. Il Mercato è la tècne ideologica che condiziona ogni pensato. Recita: “Bisogna fare i conti” e questo “contare” respira gelido “fin nell’angolo più remoto”. Squassa le viscere. Toglie i respiro. Sono gli uomini grigi che fumano in continuazione e ci intossicano l’aria. I servi del Mercato sono su tutti gli schermi a di-vertire, a fare spettacolo. Burattini della congiura di Nessuno.
Solo la cultura ci salverà.