Uomini che odiano la morale.

Gli uomini del fare scelgono il male che ritengono essere il minore (Di Maio  o Berlusconi? Scelgo Berlusconi), d’altra parte per loro la politica non è un fatto morale. Così parlò Scalfari, detto Eugenio: “La politica è una cosa diversa dalla morale, la politica è un fatto di “governabilità”, non l’ho detto io l’ha detto Aristotele e prima di Aristotele lo ha detto Platone. Per Platone quelli che facevano la politica erano i filosofi, che cosa poi i filosofi fossero moralmente è un problema che né Platone né Aristotele prendevano in considerazione. Aristotele fu l’insegnante di Alessandro Magno, il quale Alessandro Magno della morale se ne fotteva nel più totale dei modi”.  Simili affermazioni rivelano che Scalfari o non ha mai letto Platone o le poche letture fatte sono state male educate e superficiali. L’ignoranza, quella di tutti, è tale che Floris, pubblico in studio e a casa, pensando a Scalfari come a persona colta, che ha conosciuto il potere da vicino e intellettualmente onesta, avvallano senza battere ciglio le sue grottesche affermazioni. Altro che fake news.

Quanto segue vorrei fosse ben compreso perché questa separazione tra morale e politica e tra governabilità e morale sta alla base di tutto il fraintendimento e il marcio sociale.
Orbene, innanzitutto è bene sapere che Platone ha fatto della morale il tema, il leitmotiv di tutta la sua opera e di tutta la sua vita in quanto il suo massimo sforzo sociale è stato proprio cercare di portare la morale in politica. Senza dimenticare che prima di lui la filosofia non ha nome, per Platone non esiste filosofia se non è anche ethos, ovvero  filosofia morale. Infatti, in quello che viene ritenuto il suo capolavoro, Il simposio, l’eroe è l’Eros, l’amore come massima virtù morale e il suo premio è l’Agaton, il Sommo Bene, il supremo valore etico. La filosofia per Platone è “Amore della Sapienza” e la Sapienza non è, come poi inteso e maturato da Aristotele, solo conoscenza, la Sapienza è in uno “pensiero-amore”, non l’uno senza l’altro (logos e pathos). Il pathos è l’emozione che regge il mondo e guida il pensiero: la lingua esegue quello che il cuore comanda (vedi anche il Libro dei Morti degli antichi Egizi).

Per comprendere che cosa sia l’amore per Platone bisogna capire l’amore celeste, quello con l’A maiuscola (degenerato nell’intendimento volgare come amore senza sesso), amore che si contrappone all’amore volgare,  l’amore che si fa. La frase che segue è una metafora che servirà a metterci sulla strada per chiarire il concetto. Dice Platone: “Un bravo medico (vale anche per il politico, ndr) non è un medico capace, ci mancherebbe altro, ma uno che si prende cura del paziente”. Invito a fare attenzione all’apparente banalità con cui Platone si esprime, in verità le sue proposizioni (“sembra che dica cose banali”) sono abissi senza fondo. Platone considera la “capacità” come una condizione indispensabile di cui non si deve nemmeno discutere, ossia una condicio sine qua non necessaria ma insufficiente; la scavalca, va oltre e fissa l’accento sul gruppo aggiunto al periodo che definisce compiutamente che cosa si debba intendere per “bravo”: “uno che “si prende cura del paziente” . Si comprende allora che l’obiettivo vero e ultimo è “il paziente”, l’uomo; e chi è il paziente se non l’altro da sé, il nostro prossimo bisognoso di cure? Si comprende altresì che il modo è la “cura”, ossia, detto altrimenti la comprensione, la compassione e la misericordia che fanno della cura un atto dovuto, un dovere deontologico assoluto, senza considerare il soggetto agente.  Dunque, senso morale dell’essere e dello Stato. Questa altissima virtù che ha nome dignità e agisce generosamente in favore del prossimo dimenticandosi dell’io per Platone si chiama Amore. E chi è affetto da questo amore ha amore per una sola cosa la Verità.

Confrontate ora tale uomo con un individuo che da una posizione di potere afferma “Chi non fa i propri interessi è un coglione” (Berlusconi detto Silvio). Non vi sembra di precipitare dalle stelle alle stalle? Nella “cura” Platone esprime moralmente quello che per Kant diverrà l’io categorico, “ la morale dentro di me”, ossia l’agire che governa la vicenda umana in senso sia etico che morale. In questa aggiunta: “prendersi cura del paziente “ è espresso poi l’amore nella sua forma più alta e sublime, qual è l’amore per la verità morale come unica via per il Sommo bene.
Ora, Sgarbi detto Vittorio, a suo tempo citando Croce, ebbe a dire “se sei malato non cerchi un medico buono ma un buon medico, un buon medico non è un medico buono ma un medico capace”. Su questo “capace” tutto l’accento. Lo Sgarbi pensiero lì giunge e lì si ferma. A questo Platone risponderebbe “ci mancherebbe altro!”, ma non è questo il punto il punto è il paziente e la sua cura. L’impegno a considerare il paziente, ossia l’uomo, il centro e il fine dell’azione del medico (ovvero del politico) fonda per Platone tutta l’azione di governo e l’etica diviene la scienza della morale intesa a governare i nostri costumi, scienza politica, della polis, volta nell’interesse dell’uomo attraverso la cura a trovare l’Agaton, il Sommo Bene, la migliore e più felice convivenza . Mi fermo.

Riconsiderate ora le parole di Scalfari e capirete che abisso di ignoranza sostiene il pensiero di quest’uomo e di altri come lui. Meditate anche come la filosofia lontana dall’essere un’arte astratta sostenga invece tutto il pensiero moderno. Infatti, se si toglie la centralità dell’uomo, si perde l’umanesimo e anche il cristianesimo, sia il pensiero laico che religioso. “Le cerimonie sono fatte per l’uomo e non l’uomo per le cerimonie” sono parole di Cristo e la proposizione viene ora ribaltata, l’uomo è fatto per l’economia e, non c’è confine al tormento, per la finanza. Così l’uomo è moralmente dimenticato, usato solo come risorsa umana ai fini produttivi. Separando la morale dalla politica si dà corso ideologicamente al  pensiero unico-economico, ossia al neoliberismo e alla idolatria del Mercato. Scalfari, detto Eugenio, è un personaggetto vittima di questa povertà spirituale che purtroppo, essendo nella testa di tutti e nel cuore dei più, domina con diversa sorte questo primitivo pianeta. Il rifiuto della massa, e non solo della massa, per la cultura avvalla di fatto il potere dei mediocri. Solo la cultura ci salverà.




Luci della ribalta

È quello che siamo tutti: dilettanti. Non viviamo abbastanza per diventare di più. (Luci della ribalta, C.Chaplin)

È quello che siamo tutti: dilettanti. Non viviamo abbastanza per diventare di più. (Luci della ribalta, C.Chaplin)

La sceneggiata offerta dai politici alla Camera dei Deputati, causata dall’ abbinamento forzato e nascosto del decreto Imu-Bankitalia e agìta secondo i loro livelli culturali, già oscura con i suoi clamori la proposta di legge elettorale, messa in disparte e rimandata. Matteo Renzi spiazzato dalle agende del Governo e della Camera si defila dalla ribalta, mentre la sguaiata opposizione del M5S da rumore di fondo diventa segnale. E che segnale: dall’attacco ai politici e ai governanti si passa all’attacco delle persone che ricoprono le massime Istituzioni dello Stato quali la Presidente della Camera e il Presidente della Repubblica, colpevoli di fare politica di parte e di non garantire nella trasparenza i diritti di tutte le parti, e all’attacco di quei giornalisti o intellettuali che li criticano apertamente. 

Il comportamento adottato dai parlamentari del M5S in relazione a quello dei demiurgi che li guidano, indipendentemente dal contenuto di verità delle loro affermazioni, richiama alla mente la strategia del Dipartimento per l’agitazione e la propaganda del fu Partito Comunista Sovietico, ricordata come agitprop, termine acronimo che per antonomasia è stato da allora utilizzato per descrivere in politica la figura del provocatore. Negli anni che seguirono il ’68  si usava la logica del cui prodest?  per scovare gli estremisti responsabili degli attentati politici.

Oggi quel metodo a quali spiegazioni ci condurrebbe? Mentre la sinistra si arrovella nella ricerca di incostituzionalità e di attacchi alla democrazia, il populismo sia di destra che di sinistra cerca il salvatore della patria ed ha fretta: dopo Silvio Berlusconi oramai in declino alla ricerca di una successione ecco affermarsi il decisionista naïf Matteo Renzi e, perché no, quel giovane sanculotto Alessandro Di Battista.

Gli uomini del fare si richiamano alla concretezza e vivono di percezioni: si concentrano sul qui ed ora, mentre il loro pensiero debole riposa tra rimozioni e proiezioni.  La velocità con cui le notizie e i commenti si susseguono nei media, velocità notevolmente accelerata dalla potenza del web divenuto il pace maker dei giornali e televisione, obbliga la realtà a mutare continuativamente, sottraendo tempo alla riflessione e inducendo all’oblio.

Avverte Macchiavelli:  “Tu bada ben che l’aver in le tue mani il potere della Repubblica e il plauso di chi crede che si possa governare senza inganno non ti è bastante, poiché non è tanto la novità che conta, ma produrre il nuovo. Quindi ascolta e provoca il popolo perché parli a costo di causare in te risentimento (…)”




La cultura non è spettacolo.

PaideiaLa formazione politica di coloro che aspirano a governare un paese e dunque a costituirsi classe dirigente in un popolo dovrebbe fondarsi su una solida preparazione sia filosofica che scientifica: la filosofia per comprendere i fini, la scienza per conoscere i mezzi. Gli antichi greci la chiamavano paidèia,

il modello educativo con il quale si istruivano i giovani e che era sinonimo di cultura e di educazione alla cultura.  Lo spirito di cittadinanza e di appartenenza costituivano infatti un elemento fondamentale alla base dell’ordinamento politico-giuridico delle città greche. L’identità dell’individuo era pressoché inglobata da quell’insieme di norme e valori che costituivano l’identità del popolo stesso, tanto che più che di processo educativo o di socializzazione si potrebbe parlare di processo di uniformazione all’ethos politico. Come afferma Giovanni Reale: “La forza educativa proveniente dal mondo greco ha caratterizzato l’Occidente a partire dai Romani; è poi più volte rinata con continue trasformazioni col sorgere di nuove culture, dapprima con il Cristianesimo, poi con l’umanesimo e il rinascimento” e  qui aggiungiamo con l’illuminismo.

D’altra parte la politica è il modo di amministrare la comunità dei cittadini avendo per fine il bene di tutti, ma quale sia il bene di tutti non è la politica a rivelarcelo, bensì la filosofia. In questa originaria  concezione della politica il modo, ovvero il rapporto tra mezzi e fini, non è di natura meramente strumentale come il cinismo di maniera tipo il fine giustifica i mezzi vuole fare intendere (motto per altro erroneamente attribuito a Niccolò Macchiavelli), bensì di natura morale. La politica andrebbe intesa come una pratica inerente alla razionalità scientifica e che dovrebbe conformarsi all’etica.

Il minimo comune denominatore tra la politica, la formazione, l’identità, i valori, i principi, l’etica, il diritto, la fede e la conoscenza è la cultura. La cultura come sedimentazione dell’insieme patrimoniale delle idee ed esperienze condivise da ciascuno dei membri delle relative società di appartenenza, dei codici comportamentali condivisi, del senso etico del fine collettivo e di una visione identitaria storicamente determinata. Singolare è la sua etimologia, che discende dal verbo latino colere (coltivare) l’utilizzo del quale è stato poi esteso a quei comportamenti che imponevano una“cura verso gli dei”, da cui il termine “culto”.

E la cultura prodotta da un sistema vivente si comporta come i sistemi viventi: un equilibrio dinamico che va alimentato con quantità crescenti di energia.  Un ordine che si oppone alla naturale tendenza dei sistemi isolati all’aumento dell’entropia, che spontaneamente  tenderebbero alla morte termica. Per questo esistono forme organizzate di convivenza tra gli esseri umani, in cui si evolve la funzione dello Stato che agisce come un catalizzatore nei confronti delle componenti sociali, le istituzioni, le quali costituiscono  i reagenti che operano le trasformazioni della società.

Quanto al divenire della civiltà, l’equilibrio instabile a cui tendere e da mantenere si pone tra la misura delle cose e i confini della logica: per Orazio (Satire I) esistono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto, per Göedel (teoremi di incompletezza) se un sistema formale è logicamente coerente, la sua non contraddittorietà non può essere dimostrata stando all’interno del sistema logico stesso. La cultura è civiltà.

 




Un Augurio per l’Italia: Viva la IIIª Repubblica !

Nel primo trimestre del Nuovo Anno si potrà valutare la “fase 2” della manovra economica di risanamento della nostra economia e quindi la stabilità stessa del Governo Monti.  Intanto qui rivolgiamo al Paese gli auguri per un ingresso nella IIIª Repubblica, ricordando il discorso del 4 marzo 1933  di Franklin Delano Roosevelt, pronunciato per l’insediamento alla carica di Presidente degli Stati Uniti d’America (poco prima, il 30 gennaio 1933, Hitler divenne Cancelliere del Reich).

Il discorso è una prova di come la politica e l’economia possono diventare strumenti efficaci per le grandi trasformazioni dei popoli solo quando si poggiano sulla cultura.

Prima di lui Herbert Clark Hoover, Presidente  degli Stati Uniti d’America  dal 1929 al 1933, affrontò la grande depressione proponendo l’austerità, ma fallì miseramente.  F.D.Roosevelt, Presidente dal 1933 fino al 1945, invece risolverà la crisi  redistribuendo il reddito e aumentando i salari.

f-d-roosevelt

Presidente Hoover, signor Giudice Supremo, amici.


Questo è un giorno di solennità nazionale, e sono certo che in questo giorno i miei connazionali si aspettano che, nell’assumere la presidenza, mi rivolga a loro con la franchezza e la fermezza che l’attuale situazione del nostro popolo esige. 

Questo è decisamente il tempo di dire la verità, tutta la verità con franchezza e coraggio.
 Né abbiamo bisogno di evitare di affrontare onestamente le condizioni del nostro paese, oggi. 

Questa grande nazione resisterà come ha resistito, risorgerà e prospererà.  Quindi, innanzitutto, desidero affermare la mia sicura convinzione che non abbiamo niente di cui aver paura, salvo la paura stessa, la paura anonima, irrazionale, ingiustificata che paralizza gli sforzi necessari per trasformare il regresso in progresso.


In ogni ora oscura della nostra vita nazionale, una leadership franca e vigorosa si è incontrata con la comprensione e il supporto del popolo stesso, che è essenziale per la vittoria.  Sono convinto che darete ancora quel supporto alla leadership, in questi giorni critici.
 Con questo spirito, per quanto è nella mia e nella vostra parte, affrontiamo le nostre difficoltà comuni. Queste riguardano, grazie a Dio, soltanto aspetti materiali.

I titoli sono precipitati a livelli irrisori; si è verificato un incremento delle tasse; il nostro potere d’acquisto è caduto; ogni ramo dell’amministrazione è minacciato da una seria riduzione delle entrate; le foglie secche delle imprese industriali si accumulano ovunque attorno a noi; i contadini non trovano mercato per ciò che producono; i risparmi di molti anni in molte migliaia di famiglie sono scomparsi.
Inoltre, ed è ancora più importante, molti cittadini disoccupati affrontano il severo problema dell’esistenza, e un numero ugualmente elevato si affatica al lavoro con scarsissimo profitto. Solo un pazzo ottimista può negare le lugubri realtà di questo momento.

Tuttavia i nostri problemi non provengono da alcun fallimento sostanziale. Non siamo perseguitati dalla piaga delle cavallette. In confronto ai pericoli che i nostri progenitori superarono perché avevano fede e non avevano paura, abbiamo ancora molto da essere grati. 
La natura continua a offrirci i suoi doni, e gli sforzi dell’uomo li hanno moltiplicati.

L’abbondanza è dietro la porta, ma languiamo nel bisogno. Questo accade, in primo luogo, perché chi regola lo scambio dei beni ha fallito per la sua testardaggine e incompetenza, ha ammesso il fallimento, e ha abdicato.


Le pratiche degli operatori economici senza scrupoli sostengono ora l’accusa dell’opinione pubblica, e sono respinte dal cuore e dalla mente degli uomini.
 In verità, hanno provato, ma i loro sforzi sono caduti nel modello di una tradizione già superata.

Davanti alla crisi del credito, hanno proposto solo il prestito di più denaro. Mancando l’esca dei profitti con i quali indurre la gente a seguire la loro falsa leadership, hanno fatto ricorso alle implorazioni, supplicando lacrimosamente di ridar loro fiducia. Conoscono solo le regole di una generazione di egoisti. Non hanno una visione, un progetto per il futuro, e quando non ci sono progetti, il paese perisce.


I cambiavalute sono fuggiti, hanno abbandonato i loro seggi eretti nel tempio della nostra civiltà. Noi possiamo ora restituire questo tempio al culto delle antiche verità. La misura di questa restituzione sarà lo sforzo di considerare i valori sociali più nobili dei profitti monetari.


La felicità non consiste nel semplice possesso di denaro: consiste nella gioia della ricerca, nel brivido dello sforzo creativo. La gioia e lo stimolo morale del lavoro non devono essere ancora dimenticati nella folle caccia a profitti illusori.

Questi giorni oscuri ci costano molto, ma avranno molto valore se ci insegneranno che il nostro destino non è di essere serviti, ma di servire noi stessi e i nostri concittadini.


Il riconoscimento della falsità della ricchezza materiale come standard di successo va di pari passo con l’abbandono della falsa credenza che gli uffici pubblici e le alte posizioni politiche debbano essere valutate solo con l’orgoglio delle cariche o con il profitto personale; e deve finire la condotta nell’attività bancaria e negli affari che troppo spesso ha dato a un’attività importantissima l’aspetto di un comportamento negativo, insensibile ed egoista. 


C’é poco da meravigliarsi che la fiducia manchi, perché si basa solo sull’onestà, sull’onore, sulla giustizia dei contratti, sulla leale protezione, sul comportamento non egoista; senza queste basi, non sopravvive.


La ricostruzione richiede, comunque, non solo un cambiamento etico.  Questa nazione chiede fatti, e fatti immediati.
 Il nostro più importante compito è di rimettere la gente al lavoro.  Non è un problema irrisolvibile, se lo affrontiamo con saggezza e coraggio.

Potrà essere risolto da un lato tramite un reclutamento diretto da parte del governo stesso, trattando la questione come tratteremmo l’emergenza di una guerra, ma nello stesso tempo, attraverso questo impiego, portando a termine progetti estremamente necessari per stimolare e riorganizzare l’uso delle risorse naturali. 


Ci sono molti modi in cui il compito può essere agevolato, ma la soluzione non sarà mai resa più agevole semplicemente parlandone.  Dobbiamo agire, e subito.


Infine, nel nostro procedere verso la ripresa del lavoro, abbiamo bisogno di due salvaguardie contro il ritorno dei mali del vecchio ordinamento: ci deve essere una stretta supervisione sull’attività bancaria, il credito e gli investimenti, così che verrà posta fine alla speculazione con il denaro altrui; e deve essere prevista un’adeguata e sana circolazione monetaria.


Ricambierò la fiducia in me riposta con il coraggio e la dedizione che si addicono a questo momento.  E’ il meno che possa fare.  Chiediamo umilmente la benedizione di Dio.  Possa proteggere ciascuno di noi, possa guidarmi nei giorni che verranno.




Politica e Cultura

Che ne è di tutta l’ingiustizia che non ha trovato storicamente soddisfazione?  Di tutto ciò che è andato irrimediabilmente perduto?  Dei diritti da sempre calpestati?  Di tutta la sofferenza che è rimasta inappagata?  Di generazioni senza nome?  Può essere “paradiso” la risposta?  Qui in terra è “rabbia” “scontento” “depressione”.

Il mancato conseguimento di giuste aspettative, soprattutto se già negli atti,  in diritti già acquisiti, che per la gente e per noi tutti hanno il significato di una tranquillità per il futuro, gettano tutti a regredire nella difesa del privato. Questo deve essere chiaro in merito all’accaduto di questi ultimi anni: non vi è più nulla di certo, non gli studi, non il lavoro e neppure la pensione.  Hanno precarizzato l’esistenza in toto sia per il presente che per il futuro,  per noi come per i nostri figli generando ansia e timori.

E quando il presente e soprattutto il futuro sono minacciati la gente si ritira in se stessa regredisce e non partecipa: questo è un momento di grande chiusura, con gravissime responsabilità sia delle forze politiche che sindacali e anche di quelle forze che a tale precarizzazione avrebbero in ogni modo dovuto opporsi senza ascoltare  passivamente “pretese esigenze economiche” del paese correndo appresso alle quali siamo da ultimo, detto ormai da tutti i non appartenenti a logge, “sull’orlo del fallimento”.

Il problema non è economico,  ma filosofico. Il morale di un popolo è legato alla morale: è dalla  morale che nasce poi l’economia.

E se laidamente, pur essendo credenti,  non dobbiamo tenere conto del paradiso a soluzione  dell’inappagato, si deve considerare l’umore della gente non per trarne profitto alle elezioni, ma con la  cura che si deve al bene più prezioso per progredire. La gente è sfiduciata, affranta, logorata da anni di promesse non mantenute, impaurita dalla precarietà del prossimo futuro, in attesa di un cambiamento di governo a frenare la caduta, il baratro.

Con questo, anche se giustificata e giustificabile, nelle crisi la gente  non migliora, ansia e paura fanno regredire, regredire ovunque sia in famiglia, che sul lavoro, che nella vita sociale e politica, con aumento degli egoismi personali e perdita dello slancio.

Di questo dunque io “accuso” le forze sociali che attente a obiettivi  economici  si sono disinteressate della cultura, considerata  problema non concreto o irrisolvibile e comunque  a latere, lasciando in libertà “mentalità” ad operare a tutti i livelli ovunque senza incontrare  ostacoli. Gli intellettuali rimangono  solo voci isolate cui si porta rispetto ma a cui non si da forza, a volte neppure per solidarietà.

Sotto un  apparente maschera di tolleranza si lasciano proliferare senza mai intervenire “liberamente” opinioni di ogni sorta. È il relativismo, malattia sociale che affligge l’individuo come le istituzioni, relativismo che sarà in “parole” quello che è stato da più di mezzo secolo nella “prassi”, non si sa che santo pregare e ciascuno per concessione di tutti prega il suo anche se si tratta di un padrino, siamo democratici.

Si aspetta, si aspetta il cambiamento, se cambiamento ci sarà e non ci si accorge che lo sconforto agisce a tutti i livelli anche ai più alti anche nelle teste d’uovo che forse verranno.

La questione morale è irrisolta, è stata messa in cassaforte e si è perso la combinazione.

Il problema dimenticato, mai più riproposto, la morale è problema filosofico, ma, avendo assegnato alla filosofia un posto in cantina, anche la morale è stata costretta a seguire la stessa sorte. Eppure è la coscienza di un popolo che crea il suo benessere, e la coscienza e legata alle convinzioni  e alle aspettative che un popolo ha.

Come si può pensare che un popolo senza convinzioni e deluso nelle aspettative possa prosperare? “io non credo prenderò la pensione” uomini e donne di 40anni, “io lo so cosa vuol dire diventare grandi: vivere nell’ansia del lavoro” gente di 30 (n.b. non 20) anni. Arrangiarsi , e ognuno per sé.

Se si crede al destino si può immaginare che alcuni accadimenti alla stregua di fenomeni naturali si consumino, debbano volgere al termine prima di avviarsi ad un nuovo ciclo. Queste analisi deterministe dell’accaduto tolgono all’umanità il libero arbitrio, la possibilità di intervento, la volontà.

Noi sosteniamo contrariamente la possibilità non solo di resistere ma anche quella di ribellarci ad un sistema che affossando e avendo la cultura come nemico rischia di trascinare tutti ai livelli più bassi del’esistenza quelli legati alla sopravvivenza, all’animalità del “sesso e possesso”.

Per far questo è necessario nobilitare l’anima e dare allo Spirito la sua giusta collocazione quale referente dell’essere Uomo. Il sentimento ancor più della passione caratterizza la specie Homo ed è al sentimento, alla natura sentimentale dell’uomo che ci si deve imperativamente  rivolgere.

L’educazione dello spirito per l’uomo è tutto e l’educazione dello spirito si chiama  cultura.




La politica

Il regime politico  presente nel nostro paese  ci appare come una farsa rispetto alla tragedia del ventennio fascista. La storia sembra a volte ripetersi, ma attenzione: cambia la scala dei fenomeni.

Durante il  regime fascista, che è bene ricordare si è affermato grazie alla desistenza di una monarchia inetta  e si è consolidato  quindi con la volontà popolare, il popolo veniva compattato e dominato dal potere nella prospettiva di diventare attraverso la dittatura di uno Stato guida una potenza egemone in espansione da cui sarebbero derivate  sicurezza e prosperità. Una tale concezione  accomunava le ideologie   novecentesche che si  reggevano sul controllo delle masse  mediante regimi totalitari, regimi che si giustificavano come necessari proprio in relazione alla grandezza dei fini.

Oggi il popolo  si sente minacciato dalle  nuove dimensioni del territorio:   la globalizzazione dei mercati, i  cambiamenti del clima,  i flussi immigratori. Esso  si  ritira, frammentandosi, in una dimensione più domestica, nel tentativo apolitico di affrontare la realtà in una  prospettiva tecnica atemporale,  mediante una gestione  amministrativa del potere, dominata dalla economia e dell’efficienza, dal “fare”: una democrazia commissariata.

Se  quel ventennio è stato  tragico nei modi e negli esiti, l’attuale periodo può risultare in realtà ancora più tragico  per il radicarsi progressivo  negli  uomini contemporanei dell’angoscia per  la precarietà o assenza del futuro, il luogo a cui tendere e dove ritrovarsi.  I comportamenti e gli atteggiamenti dei regimi passati ci possono apparire oggi, soprattutto alle giovani generazioni, come caricature del potere.

Rimane  alla fine il “popolo” come variabile indipendente  della politica contemporanea. Una concezione del potere demagogica ed economicistica che seguendo il principio di “dare al popolo ciò che il popolo vuole” rivela  l’incapacità della politica  contemporanea di riappropriarsi della  missione  originaria d’indirizzo e di gestione equa degli interessi dei cittadini, per il raggiungimento del bene  comune. La politica come “visione dell’interesse lontano” (R.von Jhering)

E il  lessico usato ci aiuta a comprendere l’impoverimento del pensiero avvenuto in questi ultimi anni,  allorchè il  paese è stato concepito e trattato come un’azienda, come un sistema,  mai come uno Stato.

Se ciò è vero allora bisogna accettare l’idea che il populismo  della destra contemporanea non è così diverso del populismo della sinistra.  Se il primo ha bisogno di un popolo passivo, consumatore e  infantile,  come sostegno e giustificazione del proprio mandato, il secondo pervaso di cattolicesimo indulge sulle sue miserie con la  pretesa di  condurlo al potere. Entrambe le  concezioni sembrano  voler farci dimenticare che il popolo e l’opinione pubblica quando sono contro il potere gli nuoce e quando gli sono favorevoli  non contano niente.