A lezione di educazione cinica

imagesCi si deve domandare perché all’estero, nei “paesi normali” come si usa dire, la minima mancanza comporti un “passo indietro”. Orrida espressione con la quale si chiamano le dimissioni che seguono immancabilmente a episodi di scarsa o dubbia onestà da parte di chi riveste ruoli istituzionali. La stampa si riferisce spesso a questi episodi esemplari, quali il mancato pagamento dei contributi a una colf o la mancata virgolettatura di una tesi di laurea e si indigna perché da noi per reati e colpe molto più gravi nessuno si dimette. Si dimentica di indicare però le ragioni che inducono siffatti personaggi “stranieri” alle dimissioni dalle cariche ricoperte e i nostri a mantenerle ad oltranza. Eppure la risposta è semplice: si tratta di paesi più civili. Ma che significa più civili? Significa che i popoli di quei paesi hanno assimilato la correttezza nell’agire e l’onestà nei rapporti come valori irrinunciabili della democrazia. Una diversa cultura che appartiene al popolo prima che ai governanti. Contrariamente da noi correttezza e onestà non sono valori che interessino particolarmente gli Italiani al punto che in massa si è disponibili a votare personaggi che si macchiano di reati passati in giudicato, per esempio come la frode fiscale.

Non mi interessa più parlare di Berlusconi, piccolo uomo: è degli Italiani che voglio parlare, di un popolo volutamente tenuto nell’ignoranza politica fino a farne degli analfabeti, tanto a destra quanto a sinistra. I passati vent’anni di degenerazione culturale dovuta allo sdoganamento della pancia (il c.d. “berlusconismo”),  per cui i soli valori sono stati sesso e possesso  annegati in una salsa neo-postmoderna-liberista che ha tutto l’interesse a mantenere nel paese l’ignoranza e l’odio per la politica, complice una mancata opposizione sul piano culturale, uno sterile piagnisteo che altro non ha fatto se non inseguire al ribasso la mercificazione degli ideali del “popolo”, affossando quella dignità procuratasi in anni di lotte. Popolo è ora una parola di cui tutti si riempiono la bocca per poi riempirsi la pancia, sedicenti giornalisti hanno condotto la discussione politica nelle osterie mediatiche chiamate talk show, dove l’ignoranza popolare si confronta con politici ignoranti. Nella pratica pervicacemente sostenuta di far apparire la chiacchiera come democrazia la democrazia stessa é diventata una chiacchiera, il cui livello inesorabilmente sceso al di sotto dei limiti  tracciati dalla ironia del “filosofo” Riccardo Pazzaglia. Ci vorrà la vanga per ritrovare il senno.

Ebbene, l’anomalia non è Berlusconi perché i malriusciti e i superflui sono ovunque, anche in Svezia, dove tuttavia non li votano. La differenza non sta nei politici, nei leader, ma in chi li vota e li segue, nella cultura del popolo.  In altre parole noi non abbiamo una ma molte anomalie, una cultura di livello tanto basso da riuscire non significative ai fini del voto la correttezza e l’onestà di un candidato. Correttezza e onestà non sono valori significativi per la maggioranza degli italiani, nel pubblico come nel privato. Per i furbi “onesto” e “coglione” sono sinonimi. Per uomini intelligenti sono sinonimi “furbo” e “delinquente”.

Vittorio Sgarbi, la capra, riesumava nell’ennesimo talk show cui era stato invitato un detto di Benedetto Croce estrapolandolo dal contesto, detto per il quale “L’unico politico onesto è un politico capace”.  In verità Croce diceva che se stai male ti rivolgi a un medico e non a un uomo buono. Prima di lui Platone diceva che “un bravo medico non è colui che conosce la materia, ci mancherebbe altro, ma colui che si prende cura del paziente”.  Non dubito che Benedetto Croce avesse in amore la salute del paziente e che nel suo caso il paziente non fosse il Principe, ma la Nazione e il bene comune.  Parimenti “il fine giustifica i mezzi” di machiavellica memoria non può divenire autorizzazione a delinquere né per un politico né per altri. Quali fini? Per il re, per me per il partito o “tengo famiglia”? Al cavaliere in merito abbiamo sentito affermare: “chi non fa i propri intessi è un coglione” e i coglioni d’accordo con questa esemplare opinione lo votano. Un giorno, non ne dubito sarà ricordato da un Presidente della Repubblica come un grande statista così come ora si ricorda altri di craxiana memoria.  Presidenti di tutti gli italiani, proprio di tutti.

Sgarbi faceva questo per avvalorare la tesi (sua) che la correttezza e l’onestà non sono una qualità indispensabile per un politico. Ebbene questa citata giustificazione e autorizzazione a delinquere raccoglie il consenso popolare: “che rubi, rubi pure, purché faccia “.  Il fare diventa allora il nuovo mito. Fare sesso, fare politica come fare i soldi: ai valori della pagnotta, del sesso e del possesso si aggiunge così la concretezza del fare, un agire che rappresenta i valori trasversali che coinvolgono in termini di concretezza tutta la popolazione e che trovano per questo un quasi universale consenso, tutte cose per cui il popolo acclama: “Bene, bravo, giusto”, “dammi mille lire e voto per chi vuoi”.

Oggi si parla di centralità del lavoro, si parla di lavoro, ma non della sua sicurezza (deve essere garantito un posto a tutti) non della sua serenità (salvaguardata la dignità). Che l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro nessuno lo contesta, ma che cosa si debba intender per lavoro è tutt’altra questione. Gli uomini del fare parlano di meritocrazia, selezione, competitività, mobilità, flessibilità, adattabilità, efficienza, efficacia, tutte categorie e grandezze soggette alle leggi di Mercato: sia fatta la Sua Volontà, venga il suo Regno così in cielo come in terra. In questa disamina della ideologia neoliberista gli ultimi saranno schiavi o larve senza lavoro, quasi uomini in attesa del momento di sottrarre il lavoro agli schiavi. Un esercito di lumpen e proletari in crescita. Tutti complici, schiavi compresi. Difenderanno i padroni. Li stanno già votando.

Queste banalità sono sotto gli occhi di chiunque abbia un minimo intendimento politico, ma della politica il popolo non conosce l’alfabeto. Sapere che in democrazia è necessario avere la complicità del popolo per poterlo sfruttare è da sussidiario elementare. Ma il popolo italiano volutamente tenuto lontano dalla politica confonde la polis con i politici. Il trono con chi lo occupa. E nessuno ancora chiarisce questo ignorantissimo equivoco. Una cosa sono le istituzioni altra cosa chi le occupa. Giornalisti, insegnanti, politici che tocchi anche a voi fare cultura? Cultura è per voi un fantasma. Il popolo ancora inneggia a Barabba, ancora si leva l’italiano patriottico grido “Viva l’Italia”.

Uno strano paese il nostro dove si ama l’Italia e si odia lo Stato, lo Stato che la rappresenta, uno strano paese dove tutti amano il popolo e detestano la gente, fosse anche il vicino. In verità quando la gente pensa “popolo” pensa “noi” e quando il popolo pensa “la gente” pensa “loro”. Eppure la gente e il popolo sono il medesimo. Nessuno specchio, nessuna riflessione: il popolo è santo e la gente di merda. In altre parole e in breve non ci può essere nessuna politica degna di questo nome se non c’è cosceinza sociale, la politica è coscienza sociale e la politica è uscita dal sociale. Neolaureati dichiarano di voler pensare seriamente solo alla loro professione e giammai interessarsi di politica, il Corriere della sera ne pubblica le dichiarazioni dedicandogli tutta intera la prima pagina. Il “Corriere della serva”, come chiamato un tempo sembra non smentirsi mai: dietro una facciata di moderazione il serpente Gerione è sempre pronto a colpire con la sua coda. Da chiedersi a che si debba tanta costanza nei secoli.

Morale: non si e mai visto un tale analfabetismo politico, un tale abbietto stato di prostrazione dello spirito in seno al popolo. L’insegnante anziché tenere lezione chiede agli alunni se vogliono fare lezione di greco o andare al parco e poiché a larga maggioranza si decide per il parco, con sacrificio dei pochi eletti detestati in quanto intellettuali, democraticamente si va al parco. Socraticamente il porco è soddisfatto e porco rimarrà. Lucignolo dopo aver condotto i fanciulli nel Paese dei Balocchi, ora porco anche lui, chiede il consenso agli asini. Hi-ho, hi-ho, gli asini acconsentono. Tutto il loro potere i politici lo devono proprio a loro, agli asini e paradossalmente se ne vantano (milioni di voti) e lo sbandierano in ogni Show televisivo in ossequio a quella democrazia che non nei valori ma nei numeri vede la propria forza. La propria forza, forse, ma non la propria dignità. Una democrazia portata nei numeri ma non nei valori non è una democrazia. Sosteneva Oscar Wilde: “Posso sopportare la forza brutale, ma la ragione brutale è insopportabile. Vi è qualcosa di sleale nel suo uso, come sferrare un colpo basso all’intelletto”.

Per questo dunque l’Italia non è un paese democratico,  non tanto per le forme come Cacciari e Scalfari ci spiegano nel loro recente dialogo a conclusione della manifestazione la Repubblica delle idee, ma per il basso livello culturale raggiunto dal popolo italiano, un popolo politicamente analfabeta che avvalla qualsiasi forma di scorrettezza o di reato purché l’eletto gli torni in qualche modo personalmente conveniente. Prima di essere una crisi economica la nostra è una mancanza di cultura, una crisi immanente che investe l’intera popolazione, una crisi più grave della recessione che ci può portare alla regressione, alla violenza alla barbarie. Questa assoluta immaturità del popolo italiano fa della cultura il nodo principale della crisi, ovvero il popolo stesso si mostra immaturo per la democrazia. Quanto alla economia essa è solo una tecnica e come tale risulta in stretta relazione alla mentalità, ovvero al grado di civiltà raggiunto da coloro che l’amministrano.

Il primo dovere di tutti i governi dovrebbe dunque essere di innalzare la civiltà del popolo, rendendo migliori i rapporti tra i cittadini ad ogni livello non solo in termini economici ma di convivialità. Senza una modifica nella postura dello spirito in ciascuno del rapporto da intraprendere con il prossimo nessuna formula economica sarà mai in grado di migliorare la felicità della nostra esistenza. Che l’alba arrivi, un’alba non dorata, ma chiara “poiché un sognatore è colui che vede la sua strada solo al chiaro di luna, la sua punizione è vedere l’alba prima del resto del mondo” (ancora Oscar Wilde). Solo la cultura ci salverà.




Al voto! Al voto!

UnknownQuando si dice che la quantità diventa qualità: l’astensione al voto arrivata al 50% fa ormai più paura dell’affermazione elettorale della formazione politica avversaria, per altro ormai assimilabile in governi di larghe intese.  Gli esiti delle ultime tornate elettorali politiche e amministrative hanno imposto all’attenzione dei politologi ed opinionisti la ricerca delle spiegazioni del fenomeno ‘astensionismo’,  quando  piuttosto dovremmo spiegarci il perché in passato avvenisse il contrario.

Quando i tassi di partecipazione al voto erano elevati (89% al referendum per scegliere fra monarchia e repubblica nel 1946, oltre il 90% negli anni ’70)  venivano interpretati come indicatore dell’elevata partecipazione alla politica degli italiani.  I dati sull’affluenza alle urne ci ponevano ai primi posti nel mondo occidentale e democratico e inorgoglivano i politici dell’epoca, i quali consideravano la scarsa partecipazione al voto  per esempio negli Stati Uniti d’America o in Gran Bretagna come una macchia per quelle democrazie che si consideravano più avanzate e mature. Il fenomeno è stato facilmente spiegato  con l’uscita del paese dalla dittatura fascista e con la contrapposizione ideologica domestica tra democristiani e comunisti nel quadro mondiale della divisione est-ovest.  Gli stessi tassi oggi drasticamente dimezzati segnalerebbero agli studiosi, già preoccupati per altre ragioni dello stato della democrazia in Italia, che in fondo non si tratterebbe di una pericolosa disaffezione nei confronti della politica, dei partiti e dei governi e che anzi il fenomeno va considerato come indicatore dell’affermarsi di una nuova specie di cittadino: “l’astensionista razionale, analitico, sofisticato: il cittadino critico che considera il non voto  come un’opzione politica”,  come analizza Elisabetta Gualmini (La Repubblica del 13/6/2013).  In un altro intervento sullo stesso quotidiano Roberto D’Alimonte osserva d’altro canto che “un alto livello di partecipazione non è necessariamente sinonimo di buona democrazia”.  D’altra parte, Barbara Spinelli in un acuto articolo dal titolo ‘ La paura del popolo’ (La Repubblica del 12/6/2013) aveva rilevato il riemergere dei dubbi sul suffragio universale in relazione al diffuso orrore del populismo, ricordano le origini del fenomeno tipicamente aristocratico risalenti all’epoca della Grecia classica e così bene espresse da Aristotele quando dichiarava di temere una degenerazione della democrazia  se sovrano fosse diventato il popolo e non la legge.  Dobbiamo risalire dunque a 25 secoli fa per riscoprire il punto cruciale da chiarire prima di discutere di democrazia e di popolo.

Quello che forse sfugge alla sensibilità degli opinionisti contemporanei è che i Greci prima della democrazia e dopo i miti inventarono la filosofia, ponendola a fondamento dell’intera esistenza umana e pertanto non potevano ammettere che la vita della polis, oggi diremmo di uno Stato, potesse dipendere dalla ‘volontà popolare’ piuttosto che dalla sapienza. Bisognerà attendere fino agli illuministi per comprendere come la precondizione per il riconoscimento del diritto al potere del popolo fosse il livello della sua cultura. La conoscenza per tutti e il diritto all’istruzione (il vero e profondo spirito dell’Encyclopédie) sono le premesse che daranno realtà e valore al suffragio universale. Con l’illuminismo il popolo può finalmente evolversi  dalla condizione di massa  in un insieme di cittadini che cooperano e si riconoscono mediatamente il diritto (lo Stato come entità terza).  E se il popolo fa paura è solo quando si ribella, consapevole dei propri diritti, non quando è passivo, acquiescente o assente.

Una conclusione che si può dunque trarre dalla fluttuazione della partecipazione al voto è che non esiste una correlazione tra il livello di democrazia di un paese e la partecipazione elettorale dei suoi cittadini, ma che esiste piuttosto una relazione tra entrambi i due fattori  (democrazia e  partecipazione) e il livello culturale di un popolo, ovvero la sua civiltà acquisita, il cui accrescimento è il fine ultimo della politica.  Una nuova scuola di pensiero si sta dunque affermando nel nostro paese, che  vede nella dinamica dell’astensionismo e nella fluttuazione della scelta elettorale una nuova e più evoluta forma di esercizio della sovranità popolare, ma si tratta del trionfo dell’ideologia economicistica  del mercato, del marketing, della logica della mercificazione che vince anche in politica sui principi.




La democrazia statistica

imagesUn merito del M5S, con la sua esaltazione della rete concepita come strumento per la democrazia diretta o partecipata, è stato di ricordare agli italiani che siamo in una democrazia indiretta, un regime democratico rappresentativo nel quale gli aventi diritto al voto eleggono i propri rappresentanti per essere governati.

Beppe Grillo, nella sua autoreferenzialità, e i suoi seguaci  hanno riproposto dopo oltre due secoli la critica che Rousseau rivolgeva alla democrazia rappresentativa: “L’unico modo per formare correttamente la volontà generale è quello della partecipazione all’attività legislativa di tutti i cittadini, come accadeva nella polis greca: l’idea che un popolo si dia rappresentanti che poi legiferano in suo nome è la negazione stessa della libertà.”  (J.-J. Rousseau, Il contratto sociale III, 15).  Avrebbero potuto farsene un merito e in tal modo darsi una base culturale (di cui per altro pare ne abbiano bisogno) ed invece è seguita un’altra esternazione dell’ Auto-Grillo: “si può fare a meno del Governo, basta il Parlamento”.

Alla fin fine l’Auto-Grillo fa ridere perché è un comico, ma possiamo fare altrettanto dei suoi sostenitori? Certamente no, non tanto per la presenza in Parlamento dei 163 grillini, edizione naïf dell’entrata in politica della società civile,  quanto per la diffusa e rapida affermazione elettorale del M5S che indica un comune sentire che é in formazione tra il popolo sovrano. Del fenomeno M5S non dovrebbe interessare la sua classificazione a destra o a sinistra (i cultori della classificazione politica ricordano gli scienziati naturalisti del settecento, i quali per comprendere un oggetto dovevano in primo luogo classificarlo), quanto piuttosto la sua emergenza dovrebbe esser colta come una opportunità per comprendere cosa sia nella realtà italiana la così detta società civile.

I più sostengono che democrazia significhi governo del popolo e ciò è etimologicamente corretto (ricordiamo che il termine proviene dal greco antico perché furono gli antichi greci ad inventare tale forma di governo), ma a ben vedere se intendiamo il termine ‘governo’ come ‘esercizio del potere’ v’è allora da chiedersi se la democrazia sia il ‘potere del popolo’ o il ‘potere per il popolo’. In questo cambio di preposizioni  è riconoscibile una sostanziale differenza culturale nella concezione del rapporto tra cittadini e Stato, tra politica e potere e nei criteri di selezione dei delegati a governare.

Per evidenti ragioni organizzative dovute ai grandi numeri in gioco tutti i membri di una una popolazione non possono materialmente governare la propria nazione e pertanto si deve ricorrere alla selezione di un numero ristretto di individui in qualche modo loro rappresentanti che assumano con criteri predeterminati e condivisi il compito di governare.  Nascono a questo punto i problemi di come selezionare i rappresentanti e inoltre di definire quale sia la delega dei poteri di governo da attribuire loro. Nella democrazia indiretta (parlamentare) il potere è esercitato da rappresentanti eletti dal popolo. Sembra tutto chiaro e condivisibile, ma temo non sia proprio così (e mi scuso per la pedanteria di questa sintetica spiegazione).  Riscontro infatti una diffusa confusione di significati attribuiti ai termini quali per esempio popolo, rappresentanti, grande coalizione,  diventati nel lessico politico odierno  dei luoghi comuni, simboli piuttosto che parole, espressioni contenitori di senso su cui riteniamo di avere un intendimento comune e condiviso.  A ciò si aggiunga la illusoria aspettativa che una nuova legge elettorale, più giusta in quanto coerente ai principi democratici, possa trasformare la volontà popolare in stabilità di governo.

Partiamo da quest’ultimo luogo comune.  Dunque, la legge elettorale n. 270/2005 (c.d. porcellum), non consentendo da un lato la scelta da parte dei cittadini dei loro rappresentanti e  applicando dall’altro regole differenti per attribuire il numero dei seggi ai due rami del Parlamento, viene indicata come una delle cause dello stallo cui siamo giunti.  Si tratta in realtà di un tentativo di esorcizzare lo sgomento di fronte alla constatazione della fine del bipolarismo. Se guardiamo infatti i risultati elettorali  qui sinteticamente riportati nella tabella (Fonte: Ministero degli Interni.  N.B: le percentuali relative ai risultati vengono espresse in relazione ai votanti, non agli aventi diritto dei totali degli elettori, rispetto ai quali invece viene calcolata l’astensione):

Coalizioni / Elettori

CAMERA

SENATO

n° partiti

Valori assoluti

%

Valori assoluti

%

Centro-sinistra

4(C) 6(S)

10047808

29,55

9686471

31,63

Centro-destra

9(C) 12(S)

9922850

29,18

9405894

30,72

M5S

1

8689458

25,55

7285850

23,79

Lista Monti

3(C) 1(S)

3591607

10,56

2797486

9,13

Altri

30(C) 36(S)

1750801

5,15

1441844

4,71

Sch. bianche

395285

1,12

369301

1,16

Sch. nulle

872541

2,47

763171

2,4

Astenuti

11633613

24,81

10519474

24,89

Totale elettori

46905154

 

42270824

 

possiamo notare le seguenti evidenze: i) ha votato il 75% degli aventi diritto; ii)  quattro formazioni politiche hanno superato la soglia, sommando il 70% dei voti; iii) quasi il 5% dei voti si è distribuito su oltre 30 partiti non superando la soglia; iv) il 3,5% dei votanti hanno consegnato la scheda bianca o la hanno annullata; v) la differenza di età degli elettori alla Camera e al Senato (si tratta di oltre 4,6 milioni di elettori) non influenza il numero degli gli astenuti, né quello delle schede bianche o nulle, mentre incide più nel M5S e nella Lista Monti che nelle due coalizioni di sinistra e destra.

Tali risultati sembrano rappresentare un quadro politico dell’Italia odierna caratterizzata dai seguenti tratti: i) un bi-populismo, il nuovo M5S a fianco del preesistente berlusconismo, ha sostituito il bipolarismo; ii) ben oltre un quarto degli elettori non esercita scelte; iii) la sinistra italiana rischia l’estinzione.

La questione centrale è però l’intendimento sulla democrazia rappresentativa che si sta diffondendo nella popolazione e che si pone a fondamento del nuovo populismo: l’illusoria prospettiva offerta dal web.2 di realizzare l’auspicata partecipazione attiva  del popolo al governo del paese. Si tratta di una visione tecnicista e semplificata  della democrazia nella quale il concetto di popolo, inteso come nella Dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei Popoli (Barcellona, 1990) ove si afferma che “Ogni collettività umana avente un riferimento comune ad una propria cultura e una propria tradizione storica, sviluppate su un territorio geograficamente determinato”, viene sostituito da quello di popolazione, ovvero di un insieme di individui aggregati per dati anagrafici ed altri caratteri.

Questo passaggio ha portato con sé anche il cambiamento del concetto di rappresentanza, che dal suo significato politico fondato sul diritto e sulla storia (l’agire in nome dell’istituzione per l’interesse della collettività) si è spostato verso uno statistico (l’agire in nome dell’interesse prevalente, la moda).  Secondo l’impostazione statistica, infatti, un campione può dirsi rappresentativo del proprio universo quando c’è l’identità delle proporzioni secondo le quali sono presenti, nell’uno e nell’altro, i vari caratteri della popolazione. E la rappresentatività statistica ha stravolto a sua volta il concetto di delega, non più inteso come conferimento di poteri dall’elettorato all’eletto per superare  i limiti oggettivi dell’incompetenza, ma come un mandato esercitato da un campione selezionato in nome e per conto dell’universo.  Nuovo fondamento razionale e scientifico della democrazia, la statistica va imponendosi nella società dominata dalla tecnica con la  potenza dei numeri e la suggestione dei sondaggi: è la democrazia statistica.

Secondo un tale rigore metodologico i dati risultanti dalle elezioni politiche potrebbero essere intesi come non rappresentativi della volontà popolare, dal momento che il campione dei votanti non è rappresentativo dell’universo degli elettori.                            Un rappresentante politico dell’ultimo governo  berlusconiano, intervenendo in uno dei tanti talk show televisivi,  espresse molto bene  questa deformazione del pensiero a proposito di talune candidature femminili alle elezioni politiche di allora, giudicate inconsistenti in quanto riguardanti giovani donne  provenienti per lo più dal mondo dello spettacolo stimate più per la presenza che per i curricula. Il nostro esponente politico fece osservare che, al contrario di quanto sostenuto dai critici, tali candidature  costituivano un esempio di un buon governo democratico, in quanto una vera democrazia rappresentativa  deve poter consentire  ad ogni  componente presente nella società  il diritto di avere una sua rappresentanza politica.  La miseria culturale dei politici contemporanei, addestrati dalle scuole di formazione politica sulle tecniche del marketing e della pubblicità tramite corsi full immersion, confonde il processo di selezione di una classe dirigente politica con  il metodo della formazione dei campioni rappresentativi dell’universo usati nei sondaggi d’opinione.

Quanto, infine, al riferimento alla Große Koalition  condotta dalla Cancelliera Merkel dal 2005, divulgata come l’originaria esperienza politica tedesca, non é che un’altra grossolana approssimazione, perché la prima grande coalizione in Germania fu costituita dal 1966 al 1969 per approvare (e qui ci starebbe davvero l’analogia con l’attuale nostra situazione economica e politica) un pacchetto di leggi di emergenza in materia fiscale e sociale, quelle che consentirono al paese di proiettarsi verso il primo boom economico. La Germania oggi rappresenta in Europa un riferimento solido per la democrazia e viene spesso citata nel nostro paese, in verità con umori molto mutevoli, come un modello di riferimento.  Personalmente condivido questo riconoscimento e suggerisco per meglio comprenderlo di volgere lo sguardo alla facciata del Palazzo del Reichstag di Berlino, ove si legge ancora la scritta  Dem Deutschen Wolke (al popolo tedesco). La scritta risale alla edificazione originaria di fine ottocento, mentre la mirabile cupola in vetro che la sovrasta sostituisce quella distrutta dai bombardamenti, con ciò volendo rappresentare la trasparenza di una democrazia faticosamente ricostruita e riunificata sulle devastazioni di una guerra e sulla memoria tanto dell’orrore nazista quanto della dittatura comunista.

Sarebbe ora che la coscienza democratica nel nostro paese si svegliasse dal torpore allucinatorio del “non è vero perchè non mi piace” e rivolgesse l’attenzione alle cause vere e profonde del declino del nostro paese. Non è in discussione la sovranità del popolo, ma la sua condizione di sottosviluppo culturale. Il livello di democrazia di un popolo è direttamente proporzionale al suo livello di cultura e solo la cultura potrà salvarci.




Die Kultur macht frei?

La prima impressione che si ricava dall’articolo su la Repubblica “Lo Stato culturale. Troppi soldi pubblici uccidono la creatività?” è che in Germania ci si stia preparando  alla spending review. Ma non è proprio così. Si tratta di Der Kulturinfarkt,  pamphlet scritto da quattro docenti tedeschi e appena  tradotto in italiano dalla Marsilio Editori, che ha provocato in Germania uno vero shock, non solo nel mondo dell’arte tedesco.  Secondo gli autori “(…) la smisurata offerta e il monopolio statale stanno portando le istituzioni culturali verso il crack non solo economico. Hanno infatti generato conformismo, depresso la creatività, “addomesticato le avanguardie (…)”, arrivando alla conclusione che sarebbe opportuno “Privatizzare o addirittura «eliminare» istituzioni che hanno scarsa tendenza all’autofinanziamento: chiudere la metà dei musei (6000) dei  teatri (140) e delle biblioteche (8000)”.

Sempre secondo l’analisi il pubblico tedesco della cultura negli ultimi 16 anni, a fronte del quasi raddoppio delle risorse e delle offerta (“prodotti più artisti che arte”) è diminuito del 9%… ma sappiamo come  le percentuali falsano a volte la percezione del fenomeno  perchè in valore assoluto la realtà è che permangono 21 milioni di pubblico, ovvero oltre il 25% della intera popolazione tedesca.

Il punto di vista economicistico previlegia oggi, giustificandosi con la crisi, i costi e non considera i prodotti. L’atteggiamento è ben noto: di fronte al mondo reificato del PIL la domanda è sempre la stessa “quanto costa?”. Tuttavia, a proposito del rapporto tra quantità e qualità occorre avere presente le differenze di scala  tra le varie mentalità che affrontano problemi comuni.

E così scopriamo che i quattro autori iconoclasti del mondo dell’arte tedesco arrivono alla seguente conclusione: “Ma, forse, la questione è più delicata di quanto ritengono molti economisti.  Come affermano gli autori di Kulturinfarkt, lo Stato dovrebbe iniziare a dirottare importanti risorse anche sulla formazione: sulle università «artistiche».  Perché, in fondo, è proprio questa la scommessa: investire sulla scuola.  Ecco la battaglia da combattere. Nell’epoca dell’«intelligenza di massa», la sfida è: alfabetizzare in un’ottica contemporanea, trasmettendo solidi valori morali e intellettuali”.

L’alternativa non è tra la condizione della cultura di massa, che non è “roba da stato platonico” (sic!), e la  concezione romantica per cui “si fa poesia o arte quando si sta male”.  Il  fatto è  che la Cultura serve a far crescere in civiltà un popolo e non ad aumentare il Pil.   Solo la cultura ci salverà.

 

 




La democrazia non ammette l’ignoranza.

Una signora intervistata da Radio Popolare sui fatti di Formigoni, Zambetti e company ha dichiarato: “Sono tutti da bruciare … Pisapia per primo”.  Un’altra signora da me sentita per strada ha dichiarato: “Quello che so è che sotto Berlusconi stavo bene e con questo qui sto male,  è questa la verità”. Durante la campagna per Pisapia distribuendo volantini e conversando ho nominato Ruby, “Che rubi, rubi pure” mi ha risposto la signora sottintendendo il cavaliere “purché faccia le cose”.

Possono anche apparirci barzellette, testimonianze di una abissale ignoranza popolare,  tuttavia non possiamo trascurare che questa “ignoranza” vota.   Sottostimando pure la parte della popolazione  animata da questi pensieri ad un valore  minimo del 10%  dobbiamo riflettere sul fatto che il 10% degli elettori rappresenta circa 4 milioni di voti che possono da soli fare la differenza.  Ma al di sopra di questo analfabetismo politico esistono frange di popolazione, in una percentuale più elevata, cui compete un disinteresse politico e sociale e un analfabetismo di ritorno (antipolitica) che costituiscono la maggior parte dell’elettorato. In un panorama di questo tipo senz’altro condivisibile da qualsiasi persona intellettualmente onesta non si comprende come si possa  definire “democratico” il voto di tutti costoro.

Democrazia è prima di tutto conoscenza. Di fatto costoro eleggono politici di secondo o terz’ordine fatti a loro immagine e somiglianza, salvo poi lamentarsene e condannarli. Un bieco opportunismo politico chiamato “realismo” ha procurato voti a gente che ha saputo interpretare la volontà popolare, gente che si fregia del nome di “politico” per aver ottenuto il consenso e con esso la “vittoria”, la vittoria elettorale.  Prima di essere un buon ministro, bisogna essere ministro, recita un adagio.

Ed ecco il punto:  un politico deve fare il bene del popolo, non la sua volontà.

Fare la volontà popolare e come dare al popolo la responsabilità delle proprie azioni e sentirsi poi dal popolo traditi.  Il risultato di questa sciagurata interpretazione della democrazia è sotto gli occhi di tutti.  In passato come ora.  Il risultato dell’aver inseguito al ribasso i tiramenti del popolo per ottenerne il consenso ha portato a una caduta verticale di tutti i valori, primo fra tutti “l’amore” che per intenderci è sceso nell’intendimento collettivo come “bunga, bunga”, un valore che viene diversamente inteso da Dante come “L’Amor che regge il mondo e che tutto lo governa” nella Divina Commedia, un opuscolo con cui, è bene ricordarlo, un Ministro della Repubblica (Tremonti, un uomo concreto)  invitò  a farsi un panino.

Ad una conferenza di Zagrebelsky ho espresso in una nota che la Cultura serve a far crescere in civiltà un popolo e non ad aumentare il Pil.  Zagrebelsky, persona che pur amo e stimo, mi ha risposto che “questo era sottointeso”. Non sono d’accordo, questo non è neppure inteso o nella migliore delle ipotesi sotto-inteso.

Fantasticando ho pensato ad uno Stato in cui la possibilità di voto venisse concessa in linea di principio a tutti, ma, ritenendo il voto un importante momento sociale ed espressione di una volontà, che la possibilità del suo esercizio fosse condizionata perlomeno alla conoscenza di elementari nozioni sociologiche e politiche del vivere civile. In pratica un esame, un esame che non desse altra possibilità che non fosse quella di poter accedere al voto.

Essendo i buoi ormai scappati, un simile progetto, a meno di un atto autoritario del Parlamento, rimane irrealizzabile.  Non rimane quindi che rivolgersi alla Cultura, cercare di promuovere tutte quelle iniziative e quelle forze sociali, partiti compresi, che mettono la Cultura al primo posto tra le iniziative politiche. Ovvero nessuno.

Nessuno ha mai parlato né ancora parla di Cultura. Eppure il primo dovere di ogni governo dovrebbe essere quello di far crescere in civiltà la Nazione.  Questo non è ancora scritto neppure nella nostra pur eccellente Costituzione. Per un politico per cultura si intende “Arte” e “Spettacolo”. Ben vengano. Ma ancora non si intende Filosofia, ovvero quell’educazione dello spirito che fa di un anonimo individuo un cittadino. La crescita culturale è fondamentale per il benessere come per la felicità dei popoli, un fattore per ora in Mente Dei.  Solo la cultura ci salverà.

 

 

 




Vox populi e vox Dei

Rattrista vedere l’Unione Europea che  esita  ad aiutare   con la finanza comune la Grecia  per evitarle il fallimento. E pensare che la Grecia, che oggi costiturebbe una minaccia alla stabilità  dell’Europa, con la sua filosofia fu la culla della civiltà occidentale.  Ma la rimozione delle  origini della nostra cultura operò già all’epoca della elaborazione di un Testo della Costituzione Europea, operazione fallita, tra altre criticità, anche per i problemi identitari (sic!) … causati dalla mancanza di riferimenti alle radici giudaico-cristiane della coscienza europea.

In questo quadro il Primo Ministro della Grecia ha proposto un referendum per rimettere al popolo  il giudizio finale sul piano di salvataggio stilato dalla UE e le misure di austerity ad esso collegato.

Si tratta di una concezione distorta della “democrazia”.  Concepire il “popolo” come variabile indipendente della politica è una concezione del potere demagogica ed economicistica, che segue cinicamente l’ambiguo principio di “dare al popolo ciò che il popolo vuole”, con ciò rivelando l’incapacità di riappropriarsi della propria missione originaria d’indirizzo e di gestione equa degli interessi dei cittadini, per il raggiungimento del bene comune.  La politica, in una società aperta,  è invece la “visione dell’interesse lontano” (R.von Jhering).




Con la cultura non si mangia

Spesso accade in “democrazia” che chi raggiunge la notorietà, comunque raggiunta, venga interrogato su questioni che esulano completamente la sua competenza e l’opinione data assurga comunque a verità non per il contenuto ma per il pulpito, per l’autorità che l’ha proferita.

Il personaggio assurto alle cronache viene intervistato e gli viene richiesto di esprimere opinioni che in nulla ineriscono la sua professione.  Questo fa parte di un cattivo giornalismo che incontra una mentalità popolare che riconosce la verità solo nel pulpito per l’autorità che vi si insedia. Ingenuità popolare di cui per realismo qualsiasi potere si nutre.  Da quello politico a quello dei media.

Eppure fuori dal seminato tali opinioni altro non hanno che valore di opinione, di chiacchiera, il valore che si può dare alla parola di tutti, all’uomo della strada intervistato per caso e per opportunità. Ciò che domina la scena, che venga da personaggi noti o dall’uomo della strada, è l’opinione con valore di chiacchiera. Seguono sondaggi.

Il problema nasce quando a stare sul pulpito è l’uomo della strada ovvero colui che raccoglie con la chiacchiera e grazie alla chiacchiera i maggiori consensi. Per la gente essere maggioranza significa “avere ragione” a meno di trovarsi in minoranza e allora solo allora, disorientata, sentirsi costretta a riferirsi diversamente al valore dato termine e cercare nuovi significati da dare alla democrazia.

Comunque sia, dando ascolto e voce alla sola chiacchiera tutto il sociale della chiacchiera si nutre e con al chiacchiera si alimenta il potere.

Per il realismo, una filosofia dell’essere tutta da discutere,  la chiacchiera è il mezzo per raggiungere l’utente, the consumer, e la chiacchiera assurge al diritto di  chiamarsi ed essere chiamata libertà di parola, libertà di espressione. Si potrebbe ritenere a questo punto che la chiacchiera debba essere proibita, che non debba avere possibilità di espressione. Assolutamente no! La chiacchiera, il parere dell’uomo di strada, non deve e non può essere proibita, è bene che essa si manifesti e si manifesti in molti ambiti, essa è preziosissimo campo di indagine e di massimo interesse per comprendere il grado di avanzamento dello spirito di una nazione indipendentemente da giudizi di valore. Questa è la virtù dell’ascolto in democrazia.

Rimane che  una cosa è tenerne conto, una cosa criticare, una cosa incoraggiare, un’altra ancora servirsene per fare audience o peggio servirsene per dare la scalata al potere. Il voto dato a tutti, suffragio universale, permette di salire al potere chi meglio si fa interprete della cultura popolare, della mentalità del popolo e il livello culturale dal popolo raggiunto mette al potere chi meglio sa cogliere il suo spirito per alto o basso che sia.

Realisticamente, senza entrare in merito con giudizi di valore, in genere il livello raggiunto è un basso sentire, una grande immaturità, tutti abbiamo visto film in bianco e nero e bonariamente riso dell’ignoranza del popolo in passato ma anche se oggi, ringraziando il cielo, l’ignoranza non è più la stessa non possiamo di certo affermare di essere giunti a maturazione.

La povertà di spirito è sicuramente scusabile ma per certo non è condivisibile,  né tantomeno da assumere da parte di governanti al potere come volontà popolare da esprimere nel governo di una nazione. Tutto ovviamente dipende dalla maturità del popolo, se un popolo è maturo il suo sentire è elevato e in democrazia esprimerà buoni governanti.

Dare alla gente quello che la gente vuole e l’azione più abbietta e ipocrita  che un’istituzione  può esprimere, è pura demagogia. Non si danno i gelati ai bambini per farsi amare. Indipendentemente da ogni volontà popolare è a questa maturità che ogni buon governo deve tendere, questa la cultura.  Il dovere di ogni governo è far maturare lo spirito, elevare la cultura.

Purtroppo l’ignoranza spesso sale al potere e tocca a noi cittadini sentire frasi dette da ministro a ministro del tipo: con la cultura non si mangia. Terribile! non ci fanno, ci sono!

Questa l’alta filosofia siede oggi in Italia sugli scranni del potere. Si arriva a sedersi su poltrone da ministro facendo i gelatai. I bambini sono contenti e li votano e sono la maggioranza. E c’è chi pensa di mettersi in concorrenza.

Ma  l’onestà intellettuale pretende una verità che assolutamente sconfessi l’ipocrisia, il pregiudizio, l’ignoranza e la menzogna, ingredienti di cui spesso chi è al potere si serve per ingannare il popolo.

Se si ritiene di usare gli stessi strumenti sarà possibile anche vincere ma si perderà il sale e l’inganno per il popolo potrebbe essere anche maggiore.

Ma al di là di giudizi di valore che generano malessere e insofferenza in tutti noi, si deve realizzare che il sentire, il modo di sentire del popolo, è parte costitutiva dell’essere; la sua mentalità è argomento principe dell’evoluzione culturale, politica e sociale. La Mentalità costituisce lo Spirito e lo Spirito la Cultura. Ad ogni mentalità deve competere la possibilità di evolversi, ogni mentalità  deve possedere il seme per l’Apertura. A questa apertura dello Spirito deve rivolgersi ogni governo, questa l’evoluzione, il reale progresso di un popolo. A questa devono essere rivolte tutte le analisi e i progetti avvenire.

Dello Spirito non si parla né a destra, né a sinistra, né in centro. Dello Spirito la politica non si cura e si deve assistere alla miseria intellettuale in una frase che vanifica lo spirito: con la cultura non si mangia.




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Democrazia e maggioranza.

Questa presentazione potrebbe avere per titolo: il parafulmine!.

” A me non piace che gli Ateniesi abbiano scelto un sistema politico che consenta alla canaglia di star meglio della gente per bene.  Poichè però l’hanno scelto, voglio mostrare che lo difendono bene il loro sistema e che a ragion veduta fanno tutto quello che gli altri Greci disapprovano. (…)”

(La citazione è attribuita ad un anonimo ateniese del V° secolo a. C., verosimilmente un esponente della  aristocrazia punito con l’esilio,   che si vendicò scrivendo un opuscolo contro il sistema democratico  allora vigente in Atene. La democrazia come violenza – Anonimo ateniese del V° secolo a. C. – Ed. Sellerio, Palermo, 1991)

Siamo consapevoli che con questo incipit offriamo ai  cultori del “politicamente corretto”  la facile occasione di rivolgerci  l’accusa, per altro oggi molto diffusa,  di essere  antitaliani  e  antidemocratici, o, peggio ancora, intellettuali eccentrici ed elitari incapaci di comprendere  la complessità del mondo contemporaneo.

Tuttavia, noi riteniamo che mentre  l’aristocrazia nobiliare non debba  meritare alcuna nostalgia, la riscoperta della realtà e del valore dell’ eccellenza (aristos, secondo Platone) sia al contrario oggi un’operazione  virtuosa e quanto mai necessaria, se desideriamo davvero risollevare la prospettiva di una democrazia che appare oggi seriamente compromessa da problemi etici, ancor prima che dai problemi economici.

Ma chi sono oggi i migliori?  Alcuni osservatori qualificati quali economisti, politici, imprenditori e manager, riflettendo sul degrado politico, istituzionale  e morale diffuso nel nostro paese  hanno da tempo esternato preoccupazione e manifestato perplessità su come sia stato possibile attraverso le modalità democratiche selezionare una classe dirigente, in particolare quella politica, così scadente. Tali  critiche si  sono  accompagnate poi ad  espliciti richiami all’esigenza di  introdurre la meritocrazia e di premiare l’eccellenza.

Tempo fa un noto manager auspicava per il nostro paese un “governo dei migliori”,  mentre un politico,  nel presentare il programma fondativo del suo partito, usava l’espressione,  per noi preferibile,  “la democrazia dei migliori”.

Noi consideriamo la  democrazia come la forma di governo dei popoli  più avanzata, ma occorre fare attenzione  e distinguere il modo di gestire il potere  dal modo di selezionare i governanti.

Se da una parte la separazione dei poteri, il riconoscimento delle regole e delle istituzioni terze, la ricerca della condivisione attraverso la trasparenza dell’azione e il dialogo tra minoranza e maggioranza, costituiscono i capisaldi del modo democratico di governare un popolo, è pur vero dall’altra che la criticità che le democrazie contemporanee mostrano ormai con evidenza risiede nella “violenza” della maggioranza, conseguente al processo di selezione dei governanti.

In altre parole, se la democrazia è rappresentativa, le questioni sono: chi può meglio rappresentare gli interessi del popolo?  In quale modo si può garantire la formazione di una classe dirigente competente e responsabile, che sia all’altezza della complessità del governo della cosa pubblica?

Noi riteniamo che non si debba  confondere la forma di governo con la qualità delle persone. Non è qui in discussione, infatti, la necessità di un governo dei migliori, che tutti auspichiamo, ma le modalità di selezione dei governanti.

A parte le sue origini greche, la  democrazia così come si è evoluta dall’illuminismo ad oggi prevedeva che all’allargamento del potere al popolo corrispondesse un’adeguata evoluzione culturale dello stesso (in questa prospettiva va a nostro parere colto il  senso del progetto dell’Encyclopédie).

La democrazia porta con sé la cultura o non è democrazia.

Tale intima e profonda ragione che lega la cultura alla democrazia non può accettare per esempio riduzioni di risorse alla scuola, alla formazione e alla ricerca scientifica.    La scuola deve rimanere prevalentemente pubblica e la formazione deve poter essere continua nella vita della persona. Quanto poi alla ricerca scientifica, essa non deve essere limitata dalla paura indotta dalle sue scoperte, ma  guidata dall’interesse generale e sostenibile.

Nel governo e nella costituzione della classe dirigente politica va  riconosciuto il rispecchiamento della cultura di un popolo. Tra le due entità politica e cultura la relazione è biunivoca, nel senso che le scelte della politica concorrono a determinare il livello culturale del popolo e quest’ultimo stabilisce con la propria partecipazione il livello e la qualità della politica.  Del resto un criterio di valutazione della qualità del management di una azienda è costituito  dall’individuazione delle capacità dei collaboratori che il capo si è scelto per costituire la propria squadra, secondo il vecchio adagio  “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”.

La  politica culturale non va  intesa dunque come una linea d’azione di un programma politico, ma  come l’essenza stessa della  politeia.

D’altra parte, se il livello culturale di un popolo non progredisce con una velocità almeno pari a quella con la quale si generano i problemi nella società, accade che la scelta della classe dirigente  si appiattisca inesorabilmente  al livello più basso acquisito.  Ai livelli più alti di equilibrio raggiunti,  la cultura  ha bisogno di una maggiore energia per mantenersi. Sappiamo che sarebbe sufficiente un arresto nella trasmissione culturale  per due o tre generazioni e l’umanità ritornerebbe all’età della pietra.

Oggi assistiamo nel nostro paese al fatto che alle cariche istituzionali e al governo accedono spesso non  le personalità  migliori, che pure  esistono ed operano nel paese  confinate nel proprio privato, ma  rappresentanti del popolo che “sono come il popolo”. Si potrebbe definire il fenomeno come  un “imperativo statistico”, con riferimento  in questo caso  al prevalere della  “moda”, ovvero dei valori più frequenti: i governanti rappresentano la moda. E gli uomini politici contemporanei così selezionati si fanno vanto di essere non  per il popolo, non soltanto  con il popolo, ma proprio come il popolo.  A loro  questa  identificazione  totale appare come la realizzazione  compiuta della democrazia.

Troppi politici, sia di destra che di sinistra, si sono convinti che la democrazia è il potere derivato dalla maggioranza dei numeri: i voti non si pesano, si contano.   Potenza e fascino del numero!   Il fondamento  razionale della democrazia è appunto la statistica.

A esemplificazione di quanto asserito vorremmo riportare quanto detto da un rappresentante politico dell’attuale governo, durante uno dei tanti talk show televisivi,  ha molto bene espresso questa deformazione di pensiero, e della morale.

Talune candidature femminili alle elezioni politiche sono state giudicate inconsistenti in quanto giovani donne  provenienti dal mondo dello “spettacolo”, stimate più per la loro presenza che  per i  curricula.  Il nostro esponente politico faceva osservare che, al contrario di quanto veniva  osservato criticamente, tali candidature  costituivano proprio un esempio di buon governo democratico, perché una vera democrazia in quanto rappresentativa  deve poter consentire  ad ogni  componente presente nella società  il diritto di avere una sua rappresentanza politica.

Potenza del lapsus, davvero noi siamo parlati dalla lingua!  La raccogliticcia cultura politica di quel  piccolo yes-man (l’Uomo Nonsai, come ci suggerisce Bergonzoni riferendosi alla particolare coltura giapponese delle piccole piante ) addestrato con corsi full immersion dalla scuola di formazione politica del suo partito sulle tecniche del marketing e della pubblicità, confondeva il processo di selezione di una classe dirigente politica con  il metodo  della formazione dei “campioni rappresentativi dell’universo”, utilizzati  nei test statistici e nei sondaggi d’opinione.