Il nirvana artificiale

imagesUn luogo comune vuole che la tecnologia abbia cambiato il nostro modo di lavorare      e di vivere. È una evidenza che nasconde però ben altra verità. Una verità che si manifesta oggi anche attraverso il nuovo linguaggio del luogo comune, quello della pubblicità. Una campagna pubblicitaria di un importante operatore telefonico nazionale descrivendo le meraviglie dell’evoluzione nelle telecomunicazioni parla di un universo di comunicazioni illimitato, di una tv unificata, per concludere dicendo: “Le nuove tecnologie ti stanno danno la libertà di non dover scegliere. Non è fantastico?”.  Fantastico e aggiungerei terrificante, vengono i brividi alla schiena.

Pensiero unico, partito della nazione e ora anche una sorta di unica televisione iper tecnologica al di sopra di tutte le televisioni, tutto per liberarci dall’angosciosa responsabilità di fare una scelta. Un nirvana artificiale. Anche in questo messaggio, anzi proprio in questo tipo di messaggio che si rivolge a tutti, si può riconoscere che sta avvenendo una mutazione nelle teste delle persone che porta al pensiero unico. Non si tratta più di offrire una variabilità di merci lasciando al consumatore l’illusione di scegliere, esiste infatti un sovraccarico di questa offerta, una fatica da stimolo che genera un’angoscia insopportabile all’atto della risposta: che auto acquisto, che film guardo,  come investo i miei soldi, che candidato sindaco voto, qual è lo smartphone migliore, qual è il tonno più buono … Di fronte alla crisi del mercato che mi abbandona nello stato del “voglio ma non posso”,  di fronte alle sollecitazioni partecipative della democrazia dei sondaggi l’accumularsi delle occasioni di operare una scelta mi scoprono senza strumenti e senza criteri e mi fanno percepire il peso sempre meno sopportabile della responsabilità, la capacità di dare risposte.

La libertà non è più il “lasciatemi in pace” per poter “fare ciò che voglio” perché la crisi economica, il terrorismo, il cambiamento climatico, la competizione globale incombono su tutto e su tutti.  Il nuovo intendimento della libertà sarà dunque quello di risparmiarci l’onere di dover scegliere esonerandoci dalla responsabilità, individuale e collettiva. Non sarà più una dittatura illiberale impostami con la costrizione, ma una forma di democrazia prodotta dal pensiero unico che recuperando l’atavico istinto dell’appartenenza offrirà la sicurezza in cambio di una semplice adesione.  Una democrazia plebiscitaria in chiave tecnologica il cui algoritmo ci porterà all’unica scelta possibile, quella binaria tra il  sì e il no.

Forse di questo si tratta negli appelli  sottoscritti in questi anni dai più famosi scienziati contro i pericoli dell’intelligenza artificiale. Di fronte alla crescente e minacciosa complessità del mondo sarò io stesso a richiedere questo nuovo “welfare state”. La verità esce così dalla prospettiva del pensiero. Una battuta tratta dal film di Steven Spielberg “Il ponte delle spie” (2015)  ci aiuta a capire lo stato d’animo e il livello culturale con cui centinaia di milioni di persone affrontano oggi gli accadimenti tragici del mondo: “Dimmi che non sei in pericolo, dammi qualcosa a cui aggrapparmi. La verità non mi interessa”.

 

 

 

 

 

 




L’deologia meritocratica.

 L’ultimo mito della società turbo capitalista relativamente a ciò che deve essere inteso come valore è “il merito”.  Questo nuovo totem è il nuovo tabù. Divenuto ormai bipartisan e se si preferisce trasversale. L’affermarsi di criteri meritocratici è ormai principio accettato dalle parti.  Adesso basta con i somari!  Riflessione profonda e decisiva.Per mia intelligenza, differentemente, i somari esistono ancora e sono proprio tra le persone che dicono basta e inneggiano alla meritocrazia. Usando un linguaggio platonico evidenzio che una cosa è l’intelligenza, una cosa è lo spirito. Per spirito intendo la maturazione dell’anima attraverso la morale, la rinuncia all’interesse personale per amore del bene comune; amore per l’onestà unitamente all’amore per la verità: onestà intellettuale.

Spirito e morale sono necessariamente collegati; diversamente, in nulla con la morale relaziona l’intelligenza, il cui uso può essere fatto in ogni direzione a qualsiasi scopo, ad di là del bene e del male. Per realismo dice qualcuno. A nulla serve avere gente preparata nelle università se il prodotto finale è un centodieci e lode in assenza di spirito. Può essere anzi controproducente, o anche molto controproducente: una persona preparata o molto preparata, può essere immatura o anche molto immatura, e avida o anche molto avida. Pronta a vendersi l’anima e anche a servire il demonio. Non per nuoce al prossimo ma solo per interesse personale, senza malanimo né offesa per alcuno.

Come si usa dire: “niente di personale”.  Una coscienza autoripulente.  Lava, asciuga, stende e stira.  Sempre come nuova.

L’idea di laureati centodieci lode asserviti che competono sgomitando o si arrampicano come le scimmie che si arrampicano lasciando la plebe nel fango da cui desiderano e disperano di emergere, intelligentissimi arrivisti che socialmente acquisiscono meriti solo per interesse personale personalmente mi sgomenta e dovrebbe allarmare tutti.  Gli studenti non devono solo pensare a studiare ma anche a formarsi una coscienza sociale, entrambe le condizioni sono indispensabili.  Un “voto” anche in quel senso si renderebbe indispensabile, ma in quel senso non esiste nessuna disciplina e nessuna preparazione. Neppure per la formazione morale e politica di dirigenti in qualità di servitori dello Stato. L’educazione morale è cessata con Platone e le scuole platoniche.

Non è chi è più preparato che più merita, preparazione e merito sono concetti distinti. Merita di più più si rende socialmente utile secondo il concetto del servire sia con la preparazione che con la conoscenza del sociale nel senso del “servire”.

Un buon medico dice Platone non è chi conosce la cura, ci mancherebbe altro, ma chi si prende cura del paziente. Il paziente è la coinè, la cosa pubblica. Meritevoli sono solo i servitori della cosa pubblica, della res publica, i servitori dello Stato. Qualsiasi sia la posizione sociale occupata è interesse di tutti occuparsi di tutti. Chi si sottrae a questo dovere deve essere inteso come nemico della cosa pubblica e indipendentemente dalle capacità personali non gli deve essere riconosciuto alcun merito. Diversamente da quanto affermato da Sgarbi citando il Croce “l’unico uomo onesto è un uomo capace”, Platone evidenzia molto più profondamente che “L’unico uomo onesto è l’uomo che si prende cura del prossimo secondo le proprie capacità”. E ci mancherebbe altro per Platone che  non si avessero capacità. Si tratta di  una condizione necessaria, ma non sufficiente.

Un buon governante trova la cura adatta, ma il suo fine è la felicità del popolo nella sua totalità cosa di cui mai e poi mai si deve scordare. Aziende e produzione sono utili solo se e nella misura in cui la loro attività si svolge e contribuisce alla collettività nel superiore interesse della collettività, solo se l’azienda e la produzione servono il Paese, solo se e nella misura in cui l’azienda e la produzione contribuiscono al bene comune, se agiscono all’interno di questa unica morale, nell’assunzione di questa responsabilità. Il “privato” deve esistere solo per concessione dello Stato ed è concesso dallo Stato solo se lo Stato riconosce nel privato un modo migliore di contribuire all’interesse pubblico. solo se lo Stato nel proprio interesse “appalta” al privato. Diversamente il privato non ha ragione di esistere. Il pubblico interesse, il bene comune, sono concetti che devono superare ogni possibile ideologia. Qualsiasi ideologia che veda nel privato una contrapposizione al pubblico è senz’altro per definizione da condannare come nemica della Res Pubblica.

Chi più merita dunque abbia di più ma il merito deve essere riconosciuto, socialmente riconosciuto dai chi governa, solo nell’ambito di chi si assume anche attraverso attività private responsabilità sociali, a chi agisce con onestà intellettuale qualsiasi sia la sua collocazione, a chi ritiene con coscienza politica che il suo primo dovere è il dovere verso il prossimo e la cura del sociale, un prius entro il quale e solo per merito del quale gli è concesso il profitto. Nessun merito può essere socialmente riconosciuto a chi ritiene che il proprio impegno si esaurisca nella propria realizzazione, nella fedeltà all’azienda o all’amministrazione di appartenenza, privato o pubblico che sia senza tener conto del debito contratto alla nascita verso il sociale.

Forse per la nostra nascita non dobbiamo essere grati a Dio, ma sicuramente dobbiamo esserlo alla nazione. “Fare il proprio dovere non è obbedire (in guerra come in fabbrica) ma essere responsabili” Ditrich Bonhoeffer. Questa responsabilità deve essere prioritariamente intesa come rivolta agli altri, al pubblico, al sociale, anche in un azienda privata.

Diversamente, chi si cura del privato dei propri interessi in opposizione o anche solo in disparte al bene pubblico offende la moralità civile dell’intero paese e non merita di essere né lodato né riconosciuto, né tantomeno premiato con remunerazioni miliardarie.  Non merita di essere lodato chi si disinteressa di politica, chi si disinteressa del sociale, chi si disinteressa in definitiva della  polis. Noi abbiamo avuto per Presidente del Consiglio un rappresentante del Popolo che ha affermato “Chi non fa il proprio interesse è un coglione”, a testimonianza anche della volgarità della persona che dal  “popolo” viene, che al  popolo appartiene e che dal  popolo viene votata.

Meriti scolastici, intellettuali e altro impiegati in intendimenti diversi dal servire la collettività, dal servire il bene pubblico, intendimenti che nuocciono al bene pubblico vanno senz’altro e in ogni modo ostacolati. Chi “genialmente” inventa prodotti come i “derivati strutturati” dopo una laurea e un master negli Stati Uniti non va premiato per merito, ma meritatamente “decapitato”.

L’idea di una meritocrazia che premia manager istruiti e asserviti a tutti i livelli alla sola Produzione al solo Mercato in un Nuovo Ordine Mondiale “mi fa tremar le vene e i polsi”. Un interesse diretto diversamente dal bene comune dovrebbe comunque essere inteso dai laici di buona volontà come simonia. Soprattutto da quelli se dicenti di sinistra, ai quali si ricorda che alla fin fine meritare significa letteralmente essere degni di avere qualcosa.