La “banalità” di Gomorra ci dice come eravamo

Unknown“E’ anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale” (Hannah Arendt).

Gomorra-La serie non è solo una fiction, altrimenti non si spiegherebbe il suo successo. Prima produzione italiana nel suo genere all’altezza della migliore produzione americana, offre l’occasione di comprendere come nel nostro paese la questione morale non sia relegata solo nei partiti, ma sia diffusa nella popolazione. Gomorra è un documento etnologico di alto valore  che dimostra quanto la cultura sia il vero fondamento materiale della società e per questo non mi soffermerò sulla qualità della sua sceneggiatura e regia o sulla bravura del cast, su questi elementi altri hanno già espresso i meritati apprezzamenti che per altro condivido, ma voglio piuttosto assumere un punto di vista antropologico per mettere in evidenza le relazioni che legano i personaggi della fiction i quali si muovono negli ambienti degradati delle periferie urbane come fossero i dannati in un girone dell’inferno.

La realtà rappresentata da Gomorra è quella della camorra napoletana, una delle organizzazioni della criminalità organizzata italiana, (analoghe considerazioni sono trasferibili all’ndrangheta o alla mafia) vista però questa volta senza assumere dall’esterno la facile posizione della condanna morale, rappresentata dalle istituzioni che si contrappongono alla illegalità, ma ripresa al suo interno dal punto di vista del male. Nella convinzione etica di poterlo sconfiggere tenendolo separato dal bene, ogni volta che il male si mostra a noi nelle sue più efferate manifestazioni ci induce orrore provocando in noi repulsione, ma nel contempo inibendo la possibilità di comprenderlo col pensiero. Questo accade perché, come ancora Hannah Arendt ci ricorda, l’approccio al male deve procedere in un senso diverso: “La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto”.

Nella misura in cui rileviamo questo mondo del male, sebbene la nostra percezione si sforzi di tenerlo lontano dalle nostre coscienze emarginandolo ai confini della nostra vita quotidiana, esso ci informa con la sua diffusione e le sue modalità quanto sia endemico nella nostra società e non solo nelle periferie.

L’attrazione che proviamo nel seguire lo svolgimento degli eventi nella fiction non deriva tanto dalla curiosità di conoscerne l’epilogo, dal momento che sappiamo bene che quella realtà non è finita. L’attrazione deriva dalla risonanza che provoca in noi l’ambiguità esistente tra istinti e sentimenti che reggono quella fiction: noi interpretiamo coi nostri sentimenti i comportamenti dei personaggi che in realtà dettati da impulsi istintivi controllati a fatica. Si tratta degli istinti primordiali, ancestrali che hanno guidato il comportamento della specie umana nelle sue varie forme evolutive  per milioni di anni e che ancora albergano nel nostro profondo, pronti a riemergere non appena la cultura che abbiamo evoluto per educarli in sentimenti umanitari viene meno per le condizioni materiali di sottosviluppo economico, sociale e ambientale.

Il legame di sangue, l’appartenenza al gruppo, il controllo del territorio, la gerarchia in ogni rapporto tra gli individui, l’assenza di una realtà terza a cui riferirsi (la religione riguarda i morti), la forza come unica virtù (parola latina che significa potere), la paura come meccanismo di difesa, il tradimento come unica evasione dalla sottomissione, la vendetta personale come giustizia, si tratta degli istinti primordiali con i quali l’umanità ha convissuto e dai quali si è progressivamente evoluta tramite la cultura. Questi stessi istinti agiscono in Gomorra sostituendosi ai sentimenti che noi evoluti proviamo ed è per questo che l’opera non è più solo una fiction che descrive una realtà sottosviluppata, ma diventa lo specchio deformato degli istinti ancestrali che ancora albergano in noi sopiti nell’inconscio collettivo.

Condivido la spiegazione del successo di Gomorra fornita dagli stessi attori e sceneggiatori nella misura in cui si richiamano all’epica degli antichi greci, potremmo infatti guardare i personaggi come fossero delle maschere che agiscono guidate dalla volontà dei demoni (dàimon in greco significa “guida divina”, da cui deriva il concetto di destino), tuttavia, aggiungerei il fascino della saga dei popoli nordici e soprattutto, sempre rimanendo nella cultura greca antica dalla quale la nostra cultura proviene, la potenza del mito: quella narrazione investita di sacralità relativa alle origini del mondo o alle modalità con cui il mondo stesso e le creature viventi hanno raggiunto la forma presente in un certo contesto socio culturale o in un popolo specifico.

Quanto al successo dell’opera, dovremmo occuparci meno della sua audience tra il pubblico italiano e preoccuparci di più dell’intensità dei fenomeni imitatitivi o emulativi che si potrebbero verificare soprattutto tra i giovani. L’attenzione ai giovani non deve però limitarsi a quelli perduti nelle periferie urbane, ma volgersi a tutti, in quanto la stagione stessa della gioventù (lo “stato soave” di Giacomo Leopardi) costituisce con il portato del suo immaginario avventuroso la condizione “periferica” nell’umana formazione dell’individuo.

È in questa prospettiva che l’osservazione critica rivolta a Gomorra, secondo la quale i protagonisti per come sono stati ideati e per come gli attori li hanno così realisticamente interpretati possano indurre nei giovani e in generale nelle persone psicologicamente più fragili e socialmente più deboli fenomeni emulativi, acquista credibilità; a condizione cioè che essa venga considerata nel contesto di una società fondata sui ruoli che si è trasformata in un immenso accumulo di spettacoli, dove tutto ciò che prima era direttamente vissuto si è ora allontanato in una rappresentazione. Tuttavia, i timori attorno ai rischi di vedere il male per quello che è nulla tolgono al valore di Gomorra e alla necessità di diffonderne quanto più possibile la conoscenza, dal momento che proprio nel pericolo, per dirla con le parole di Martin Heidegger, cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva.

Una volta isolato il male, compresa la sua fenomenologia, occorre definire la cura, al di là della pur necessaria azione di contrasto della polizia e della magistratura, agendo a livello sociale sul piano culturale. Un primo vaccino contro i rischi da identificazione è costituito dall’ironia delle parodie di Gomorra come già circolano sulla rete con un successo pari a quello della fiction medesima: ridere del personaggio alienato che si rapporta nella realtà quotidiana ripetendo le battute del copione della fiction è un modo di affrontare con distacco ciò che è riprovevole e che tuttavia ci affascina. Più organicamente occorrerebbe diffondere la fiction nelle scuole superiori, penso nel triennio, come fossero documentari scientifici di antropologia accompagnando quindi la visione delle varie puntate con una adeguata e competente presentazione e commento. Infine, forse la più significativa per il carattere d’urgenza che la lotta contro la criminalità organizzata richiede, cito l’intelligente proposta del Presidente di Spazio Cultura Italia apparsa su l’Huffington Post con il titolo “Se il cast di Gomorra adottasse un’associazione di periferia”. L’idea è che gli attori escano dalla fiction e assumino nella realtà, cominciando ad appoggiare le iniziative delle associazioni che già operano nelle periferie di Napoli, il ruolo di eroe in difesa del bene (la legalità) che nella fiction è stata volutamente omessa per meglio comprendere il male (la criminalità).

Guardando Gomorra non solo noi ci avviciniamo alla verità conoscendo la fenomenologia del male come si manifesta in una parte della realtà, per altro a noi vicina, ma ci rendiamo conto di come abbiamo vissuto per migliaia di anni e possiamo quindi cogliere l’occasione per comprendere il reale significato della cultura, come essa abbia agito nell’evoluzione millenaria educando gli istinti in sentimenti facendo progredire il nostro spirito verso i diritti e la compassione. Gomorra è per un sito che si chiama “la cultura vivente” e che ha per incipit “dalla resistenza al risorgimento per un nuovo rinascimento” un valido esempio della via verso la verità.