La dittatura dei numeri

UnknownÈ noto, ma dimenticato, che quando fu chiesto di scegliere tra Cristo e Barabba il popolo scelse a larghissima maggioranza Barabba e gli altri tacquero. Meno noto, e non meno dimenticato, è che quando Hitler salì al potere nel 1933 fu grazie al voto popolare pari al 44%. Tre anni dopo nel 1936, in Germania si tennero le elezioni parlamentari nella forma di un referendum con una singola domanda, chiedendo cioè agli elettori se approvavano l’occupazione militare della Renania e un elenco composto da un unico partito, quello nazista. Ebbene a questa farsa partecipò il 98,8% della popolazione, di cui rispose “sì” il 95%, mentre il rimanente furono schede ritenute “non valide”. Un vero e proprio plebi-scito.

In passato la volontà popolare, in quanto espressione della massa verso il potere, si è sempre espressa per un potere centrale, forte, autoritario o anche una tirannide o dittatura identificandosi nel capo, nel leader. Ancora oggi le coscienze si mostrano non essere sufficientemente mature per esprimere una pluralità al potere. La democrazia può forse legittimarsi, ma non può fondarsi solo sulla base del voto popolare. Chi si esprimere per fare la volontà del popolo, anche se in buona fede, comunque è un ingannatore e spesso se in mala fede anche un ipocrita. Fondare la democrazia sui soli numeri non è espressione della volontà popolare, ma è il populismo nella sua più infima essenza, un insulto alla stessa democrazia, perché la democrazia non è una forma di potere, ma il modo con cui il potere governa un popolo in considerazione del valore da attribuire alla persona.

il concetto di popolo, inteso come nella Dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei Popoli (Barcellona, 1990) ove si afferma che “Ogni collettività umana avente un riferimento comune ad una propria cultura e una propria tradizione storica, sviluppate su un territorio geograficamente determinato”, viene sostituito da quello di popolazione, ovvero di un insieme di individui aggregati per talune caratteristiche. In seguito la definizione data scade dal concetto di popolo come sostanza politica legata alla cultura a quella di un definizione numerica legata all’appartenenza.

Questo passaggio ha portato con sé anche il cambiamento del concetto di rappresentanza, che dal suo significato politico fondato sul diritto e sulla storia (l’agire in nome dell’istituzione per l’interesse della collettività) si è spostato verso quello statistico (l’agire in nome dell’interesse prevalente, la moda).  Secondo l’impostazione statistica, infatti, un campione può dirsi rappresentativo del proprio universo quando si verifica un’identità delle proporzioni secondo le quali sono presenti, nell’uno e nell’altro, i vari caratteri della popolazione. E la rappresentatività statistica ha stravolto a sua volta il concetto di delega, non più inteso come conferimento di poteri dall’elettorato all’eletto per superare  i limiti oggettivi dell’incompetenza, ma come un mandato esercitato da un campione selezionato in nome e per conto dell’universo.  Nuovo fondamento razionale e scientifico della democrazia, la statistica va imponendosi nella società dominata dalla tecnica con la  potenza dei numeri e la suggestione dei sondaggi: è la democrazia statistica, in rappresentanza dell’opinione senza alcun riferimento morale.

Per di più anche secondo un tale rigore metodologico i dati risultanti dalle elezioni politiche basate sul suffragio universale potrebbero paradossalmente essere intesi come non rappresentativi della volontà popolare, quando il campione dei votanti non è rappresentativo dell’universo degli aventi diritto al voto.  In definitiva è passato il concetto secondo cui una vera democrazia rappresentativa deve poter consentire  ad ogni  componente presente nella società  il diritto di avere una sua rappresentanza politica in modo del tutto indipendente dai valori culturali partecipati.

Questo può apparire una concezione corretta del pluralismo ma quando la cultura del popolo è bassa può portare irrimediabilmente come in passato alla dittatura o comunque spingere verso regimi autoritari anche se portano il nome di democrazie. Ciò significa che la democrazia è diretta conseguenza della cultura popolare e dice della necessità assoluta di agire sulla stessa per avere maggiore democrazia senza sottomettersi alla dittatura dei numeri.

La miseria culturale dei politici contemporanei, addestrati dalle scuole di formazione politica di appartenenza sulle tecniche del marketing e della pubblicità, confonde il processo di selezione di una classe dirigente politica con  il metodo della formazione dei campioni rappresentativi dell’universo usati nei sondaggi d’opinione.

Non è qui in discussione la sovranità del popolo, ma la sua condizione di sottosviluppo culturale perché la democrazia non ammette l’ignoranza. Oggi assistiamo nel nostro paese al fatto che alle cariche istituzionali e al governo accedono spesso non le personalità  migliori, che pure  esistono ed operano nel paese  confinate nel proprio ruolo o nel privato, ma  rappresentanti del popolo che sono come il popolo. Si potrebbe definire il fenomeno come  un “imperativo statistico”, con riferimento  in questo caso  al prevalere della  “moda”, ovvero dei valori più frequenti: i governanti come rappresentanti della moda. E gli uomini politici contemporanei così selezionati si fanno vanto di essere non  per il popolo, non soltanto con il popolo, ma di essere proprio come il popolo.  A loro  questa  identificazione  totale appare come la realizzazione  compiuta della democrazia.

Troppi politici, sia di destra che di sinistra, si sono convinti che la democrazia è il potere derivato dalla maggioranza dei numeri: i voti non si pesano, si contano.   Votus non olet. Potenza e fascino del numero: il fondamento  razionale della democrazia è appunto la statistica.

Qualsiasi regime sia al potere la democrazia è dovuta unicamente al grado di civiltà raggiunto da un popolo, non la sua misura, ma l’essenza stessa legata alla sua cultura. O alla sua ignoranza. Più democrazia non dovrebbe di conseguenza significare che tipo di forma debbano prendere le istituzioni per meglio interpretare la volontà popolare, ma impegnare le istituzioni per migliorare la cultura del popolo.
La distinzione tra populismo e democrazia è netta: lottare per migliorare le condizioni materiali e spirituali del popolo e giammai per fare la sua volontà.
Ormai solo la cultura ci può salvare.




Al voto! Al voto!

UnknownQuando si dice che la quantità diventa qualità: l’astensione al voto arrivata al 50% fa ormai più paura dell’affermazione elettorale della formazione politica avversaria, per altro ormai assimilabile in governi di larghe intese.  Gli esiti delle ultime tornate elettorali politiche e amministrative hanno imposto all’attenzione dei politologi ed opinionisti la ricerca delle spiegazioni del fenomeno ‘astensionismo’,  quando  piuttosto dovremmo spiegarci il perché in passato avvenisse il contrario.

Quando i tassi di partecipazione al voto erano elevati (89% al referendum per scegliere fra monarchia e repubblica nel 1946, oltre il 90% negli anni ’70)  venivano interpretati come indicatore dell’elevata partecipazione alla politica degli italiani.  I dati sull’affluenza alle urne ci ponevano ai primi posti nel mondo occidentale e democratico e inorgoglivano i politici dell’epoca, i quali consideravano la scarsa partecipazione al voto  per esempio negli Stati Uniti d’America o in Gran Bretagna come una macchia per quelle democrazie che si consideravano più avanzate e mature. Il fenomeno è stato facilmente spiegato  con l’uscita del paese dalla dittatura fascista e con la contrapposizione ideologica domestica tra democristiani e comunisti nel quadro mondiale della divisione est-ovest.  Gli stessi tassi oggi drasticamente dimezzati segnalerebbero agli studiosi, già preoccupati per altre ragioni dello stato della democrazia in Italia, che in fondo non si tratterebbe di una pericolosa disaffezione nei confronti della politica, dei partiti e dei governi e che anzi il fenomeno va considerato come indicatore dell’affermarsi di una nuova specie di cittadino: “l’astensionista razionale, analitico, sofisticato: il cittadino critico che considera il non voto  come un’opzione politica”,  come analizza Elisabetta Gualmini (La Repubblica del 13/6/2013).  In un altro intervento sullo stesso quotidiano Roberto D’Alimonte osserva d’altro canto che “un alto livello di partecipazione non è necessariamente sinonimo di buona democrazia”.  D’altra parte, Barbara Spinelli in un acuto articolo dal titolo ‘ La paura del popolo’ (La Repubblica del 12/6/2013) aveva rilevato il riemergere dei dubbi sul suffragio universale in relazione al diffuso orrore del populismo, ricordano le origini del fenomeno tipicamente aristocratico risalenti all’epoca della Grecia classica e così bene espresse da Aristotele quando dichiarava di temere una degenerazione della democrazia  se sovrano fosse diventato il popolo e non la legge.  Dobbiamo risalire dunque a 25 secoli fa per riscoprire il punto cruciale da chiarire prima di discutere di democrazia e di popolo.

Quello che forse sfugge alla sensibilità degli opinionisti contemporanei è che i Greci prima della democrazia e dopo i miti inventarono la filosofia, ponendola a fondamento dell’intera esistenza umana e pertanto non potevano ammettere che la vita della polis, oggi diremmo di uno Stato, potesse dipendere dalla ‘volontà popolare’ piuttosto che dalla sapienza. Bisognerà attendere fino agli illuministi per comprendere come la precondizione per il riconoscimento del diritto al potere del popolo fosse il livello della sua cultura. La conoscenza per tutti e il diritto all’istruzione (il vero e profondo spirito dell’Encyclopédie) sono le premesse che daranno realtà e valore al suffragio universale. Con l’illuminismo il popolo può finalmente evolversi  dalla condizione di massa  in un insieme di cittadini che cooperano e si riconoscono mediatamente il diritto (lo Stato come entità terza).  E se il popolo fa paura è solo quando si ribella, consapevole dei propri diritti, non quando è passivo, acquiescente o assente.

Una conclusione che si può dunque trarre dalla fluttuazione della partecipazione al voto è che non esiste una correlazione tra il livello di democrazia di un paese e la partecipazione elettorale dei suoi cittadini, ma che esiste piuttosto una relazione tra entrambi i due fattori  (democrazia e  partecipazione) e il livello culturale di un popolo, ovvero la sua civiltà acquisita, il cui accrescimento è il fine ultimo della politica.  Una nuova scuola di pensiero si sta dunque affermando nel nostro paese, che  vede nella dinamica dell’astensionismo e nella fluttuazione della scelta elettorale una nuova e più evoluta forma di esercizio della sovranità popolare, ma si tratta del trionfo dell’ideologia economicistica  del mercato, del marketing, della logica della mercificazione che vince anche in politica sui principi.