L’intelligence di poi non aiuta la democrazia

La strage di Manchester ha alzato il livello dell’angoscia, ora i terroristi  uccidono i nostri figli, oltre i genitori: DEFCON 3 o 2?  Un foglio supplementare che avvolge il quotidiano La Repubblica del 24/5 dal titolo “L’orrore spiegato ai nostri figli” riporta le idee a caldo di tre commentatori: per Massimo Recalcati  il punto è stabilire il compito di chi sopravvive alla tragedia; per Massimo Ammanniti quello di trovare le parole giuste per non turbare i più piccoli e per Eraldo Affinati cogliere la sfida di resistere alla rabbia, a partire dalla scuola.

Nell’affrontare la sfida contro il terrorismo lo psicanalista Massimo Recalcati  si pone la domanda “quale responsabilità hanno gli adulti che osservano impotenti  lo scempio compiuto sulle vite innocenti?”  Per rispondere ricorre ad un esperimento di psicologia evolutiva secondo il quale un bambino piccolo è invitato a gattonare un percorso che va verso un falso precipizio: se la madre che assiste mostra spavento il bambino si blocca e piange, se invece la madre mostra un sorriso il bambino dopo un’esitazione riprende il percorso con sicurezza e senza paura. La morale che lo psicanalista ne trae è che bisogna assumere la responsabilità di rendere questi lutti un lutto collettivo, dare prova di saper resistere, …testimoniare piuttosto che spiegare, testimoniare l’apertura e non la chiusura del mondo.

Da parte sua lo psicanalista dell’età evolutiva Massimo Ammaniti osserva che “da sempre bambini e adolescenti sono stati testimoni silenziosi e impauriti delle violenze degli adulti“, il rimedio essendo la rassicurazione, soprattutto dei più piccoli, da parte dei genitori e per estensione delle forze dell’ordine, soldati compresi. Lo psicanalista osserva inoltre che la stessa specie umana è riuscita nel corso della sua storia a sopravvivere ai predatori e nemici che volevano distruggerla. Infine, sempre l’autore vede nella scuola , negli insegnanti “il compito di aiutare gli alunni a ricostruire la storia umana per far comprendere come siano stati affrontati  pericoli e minacce che venivano da altri popoli, mostrando come si sia riusciti a sconfiggerli quando la paura non ha preso il sopravvento”.

Infine lo scrittore e insegnante Eraldo Affinati, il quale si spinge oltre l’analisi e con il linguaggio figurato della letteratura afferma che “dobbiamo spiegare che il mondo può essere malvagio, ma noi abbiamo la possibilità di contrapporci alla solitudine cui è inevitabilmente destinato il vendicatore“. Per l’autore “la risposta militare, che non può essere evitata, è sale sulla ferita. La paura e semplice contrapposizione ci costringe all’interno del conflitto mimetico, secondo la classica definizione di René Girard, in un circuito chiuso, interminabile, privo di sbocchi, almeno finché non troviamo il capro espiatorio. Stiamo parlando di zone d’ombra, boschi biologia , cervelli rettili che albergano dentro il nostro animo (…)”

Alla fin fine in tutti i tre casi non si va oltre la descrizione sgomenta dell’accaduto, in un corto circuito angoscioso tra la paura e il suo rifiuto, nell’allontanare una realtà che non può essere vera perché non piace.  Il politicamente corretto viene meno e si esce allo scoperto: “la vita deve andare avanti”, come del resto si dice per lo show.  E’ vero, la vita della specie e della società nel loro complesso vanno avanti, ma quella dei singoli popoli e dei singoli individui sopravvissuti alle stragi o quella dei semplici spettatori?

Dalla fine della seconda guerra mondiale nel 1945  sono nate nelle popolazioni degli stati europei occidentali quasi tre generazioni cresciute ed educate in un clima di pace artificiale creata in società-riserve separate dal resto del mondo, tra i due blocchi contrapposti che se lo spartivano sotto il cielo della Guerra Fredda e del deterrente nucleare. Ogni vota che guerre e crisi internazionali mettevano in pericolo la stabilità, scambiata per la pace (Corea, Cuba, Vietnam, guerre di liberazione dei paesi colonizzati, Medio Oriente …), crescevano soprattutto fra le generazioni più giovani forme di dissenso con proteste pubbliche e formazioni di movimenti politici contro l’imperialismo occidentale, quello americano in particolare e mai quello sovietico. Nasce così e si diffonde una cultura della pace, il pacifismo, che trova le proprie ragioni nell’appartenenza ideologica, in una petizione di principio che fonda lo spirito umanitario sulla paura di perdere la sicurezza acquisita. Ricordo il mio disagio nella seconda metà degli anni sessanta di fronte alle marce di protesta contro la guerra in Vietnam: noi giovani manifestavamo  nelle vie delle nostre città tranquille con rabbia ed orgoglio critico, mentre laggiù altri giovani della nostra età, nostri fratelli morivano. Un dialogo con la CIA ricavato dal film “Good shepperd” recita: “Siete voi quelli che mi spaventate. Siete quelli che fanno le grandi guerre” “No, ci assicuriamo che siano piccole”.

Ora, c’è da chiedersi come i genitori e gli insegnanti, oggi gli adulti appartenenti a quelle tre generazioni, tutti testimoni silenziosi ed impauriti della violenza dei terroristi  possano rassicurare i propri figli e spiegare agli alunni in che modo i popoli abbiano agito e reagito per difendersi dai pericoli provocati da altri popoli.

Parlare ai figli del terrorismo? Certo, la realtà, nessuna esclusa, non va mai nascosta o censurata con un silenzio che altro non esprime se non l’angoscia dei genitori e che genera nei figli uno stato d’ansia per risonanza, tanto le notizie e le immagini sono già sui loro smartphone. Il punto è che occorre agire l’ansia per evitare che la passività induca quei disturbi d’ansia che tanto ci preoccupano. Dovremmo prendere ad esempio, per comprendere ed imparare, quei popoli che hanno convissuto e tutt’ora convivono con la guerra o il terrorismo, sia quelli occidentali i cui governi in molti casi hanno provocato o favorito guerre e terrorismo, sia quelli mediorientali che le guerre e il terrorismo hanno subito e i cui governi le guerre e il terrorismo hanno strumentalizzato per motivi di potere. In quei popoli in cui la maggior parte delle famiglie hanno genitori e figli caduti in qualche guerra. Tra questi popoli indico, a solo titolo di esempio, come caso di studio, il popolo israeliano (le questioni politiche e ideologiche dei loro governi qui non c’entrano). Questi ben conoscono il significato di una esistenza messa quotidianamente in pericolo, un tempo dalle persecuzioni e dalle deportazioni, fino all’Olocausto,  e più recentemente dagli attentati nelle loro città. Osserviamo il comportamento che hanno evoluto ed impariamo a riscoprire la vita, ad unirci come popolo sui propri principi e valori, a resistere contro l’orrore senza rinunciare alle forme del vivere civile tra tutti popoli. Perché come scrive Hölderlin: “Ma là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”

Penso infine che dovremo prima o poi imparare anche dai loro sistemi di intelligence, perché la domanda tragica che la realtà ci pone con sempre maggiore frequenza è: a cosa serve l’intelligence? Forse a dare il nome dell’attentatore “già noto alla polizia” dopo che l’attentato è avvenuto? Tra terrorismo, sviluppo demografico e cambiamento climatico, per non parlare del dominio globale del capitalismo più sfrenato, siamo entrati in un epoca per affrontare la quale occorre chiarirsi sul fatto che la difesa della democrazia, a volte e in talune circostanze, non potrà più avvenire praticandola.




Il terrorismo come stress test per le coscienze

Urlo-di-Munch-originaleL’Europa ha conosciuto nel secolo scorso regimi del terrore. Nel primo secolo del nuovo millennio stiamo forse entrando in un’epoca di regime del terrorismo?
Dopo l’11 settembre 2001, l’Europa (tralascio qui di considerare gli ancor più numerosi e devastanti attentati avvenuti nei paesi del Medio Oriente, dell’Asia, del Nord e Centro Africa) è stata oggetto di sanguinosi attentati terroristici di matrice islamica che hanno coinvolto fino ad oggi Spagna, Gran Bretagna, Francia, Belgio e Germania. Dalle bombe alle stazioni ferroviarie attorno a Madrid (2004) fino alla sparatoria a Monaco di Baviera (2016) si contano ormai centinaia di vittime, ma ciò che più sgomenta è la constatazione che l’obbiettivo dei terroristi, apertamente dichiarato e coerentemente perseguito, è la stessa vita quotidiana degli odiati paesi occidentali. È una tattica diretta in particolare contro le generazioni costituite dai liberi cittadini delle democrazie occidentali educate al pacifismo che non hanno da 70 anni conosciuto gli orrori e le sofferenze della guerra.

Una tattica che si mostra efficiente anche sul piano operativo: ucciderne uno per terrorizzarne cento. Una tattica oltretutto orchestrata con abilità sul piano della comunicazione i cui effetti possono essere vissuti con una soddisfazione emulativa tanto dagli islamici più radicali del daesh come vendetta per le morti e distruzioni subite dagli odiati occidentali, quanto dai nuovi nichilisti globali figli del “tramonto dell’Occidente”. Dagli sgozzamenti sistematici dei prigionieri ad opera delle milizie inquadrate dell’IS, ripresi in diretta con video girati sui territori occupati poi diffusi su internet, alle sparatorie dei “lupi solitari” rivendicati dall’IS come propri soldati ed eseguite negli affollati luoghi di ritrovo delle città europee, due fattori ci inducono paura e sgomento: da una parte la morte, vissuta dagli  attentatori suicidi come liberazione per sé e come punizione divina da infliggere agli infedeli, dall’altra il fascino ideologico subito da molti giovani occidentali verso la missione terroristica islamica.

Più che la concezione della morte di questi terroristi, che rimanda ad interpretazioni religiose ormai da secoli a noi estranee e che ci devono preoccupare  solo da un punto di vista militare in quanto l’uso della persona come arma tende ad annullare la potenza delle moderne armi sofisticate, quello che dovremmo comprendere sono le ragioni del fascino ideologico che spinge migliaia di giovani, ancorché caratterizzati da debolezze sociali o psichiche, ad abbracciare la causa del Califfato così estranea alla cultura occidentale. All’indomani degli ultimi attentati avvenuti in Germania analisti e commentatori televisivi, nell’ansia di trovare una spiegazione a tanto orrore, rilevavano come il vantaggio dei terroristi sarebbe dipeso dal fatto di essere guidati da “idee forti” a fronte della debolezza degli occidentali dovuta a una crisi di valori. Una spiegazione che sfiora il paradosso: sarebbe un’idea forte la concezione della società secondo la sharia islamica praticata dai terroristi?

Il fatto è che si confonde la forza di una idea con la violenza con cui l’idea viene sostenuta. Ed è forse nella confusione sulla forza che dobbiamo soffermarci e riflettere. Per farlo sottoponiamo la nostra coscienza al seguente stress test articolato nelle seguenti tre domande: i) un ragazzo del quartiere di Scampia a Napoli si arruolerebbe nelle milizie dell’IS? ii) I millennials sarebbero in grado di opporsi con la forza contro i terroristi ? iii) Esiste un limite nello stato di diritto oltre il quale la democrazia non può più essere difesa usando le forme democratiche?

i) In attesa del nuovo romanzo di Roberto Saviano “La paranza dei bambini” ho letto una sua anticipazione su La Repubblica e pensando ai cosiddetti foreign fighters mi sono domandato: un ragazzo del quartiere di Scampia a Napoli si potrebbe arruolare nelle milizie dell’IS? Io penso di no. In un mio recente articolo  ho cercato di mostrare come il male raccontato negli episodi di Gomorra-La serie sia la rappresentazione della regressione allo stato tribale delle relazioni umane  che ci hanno governato per centinaia di migliaia di anni, una regressione dovuta al venir meno della cultura evoluta proprio per dominare e superare istinti ancestrali. Ebbene, un’analoga situazione tribale è riscontrabile anche nelle relazioni e nei comportamenti dei militanti jihadisti: la prevaricazione, la ferocia, il territorio, l’appartenenza. E dunque possiamo comprendere come per un giovane isolato socialmente, economicamente, magari anche carente sul piano psichico, la paranza camorristica come la militanza terroristica possano costituire il modo per esercitare quegli istinti e in molti territori italiani controllati purtroppo criminalità organizzata non c’è posto per un’ideologia terroristica.

ii) Con il termine millennials si definisce la generazione del nuovo millennio, ma al di là dei richiami profetici potremmo comprendervi tutti i nativi digitali. I giovani fino ai 25 anni d’età (25 anni è il tempo medio che divide due generazioni) sono figli di altre due generazioni europee vissute in uno stato di pace, mai tanto lungo nella storia europea, costruito artificialmente sulla divisione ideologica Est-Ovest, con l’allontanamento dei teatri dei conflitti armati che la “Guerra fredda” alimentava, e sul consumismo economico. La caduta del muro di Berlino, dopo la breve illusione della “fine della storia”, non ha eliminato i confini, spostandoli a livello globale sotto le minacce della crisi economica, dell’inquinamento e dell’immigrazione. Uno di questi nuovi “confini” è rappresentato dall’invecchiamento tendenziale delle popolazioni occidentali a fronte i quelle asiatiche e africane. In un mondo sussunto nell’imperialismo del pensiero economico il lavoro scarso è distribuito su paesi alternativi e già si manifesta la competizione anche sul piano dell’istruzione e formazione tra giovani laureati di tutto il mondo. Ricordo un brillante intervento di un giovane pedagogista di molti anni fa il quale analizzando quel particolare periodo rivoluzionario della vita di tutti noi che si chiama adolescenza  ne individuava la chiave di volta nella avventura: dal gioco dell’infanzia il giovane si proietta alla scoperta del mondo. Oggi si sostiene che i nostri giovani rischiano di non avere un futuro e ciò rimane vero, ma non perché manca la prospettiva di un lavoro, magari sicuro, bensì perché l’uniformità imposta dalla visione economicistica dell’esistenza ha privato loro della dimensione progettuale della vita fatta di curiosità, di scoperte, di viaggi, di sogni, in altre parole dell’avventura. Hannah Arendt scrisse questa verità:“Gli uomini muoiono, ma non sono fatti per morire. Sono creati per incominciare”. 

iii) Concludo con l’ultimo test sui limiti della democrazia. Nella logica matematica i famosi teoremi di incompletezza del logico e filosofo austriaco Kurt Gödel affermano che i sistemi formali non possono avere alcune proprietà, per esempio il secondo teorema afferma che: nessun sistema sebbene coerente può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza. Passando dal piano razionale a quello reale si potrebbe sostenere che esiste un limite oltre il quale la democrazia non può essere difesa praticandola. Del resto la storia ci ha mostrato che i principi, gli ideali e i valori che oggi sorreggono le democrazie occidentali si sono affermati con la spada per poi mantenersi col diritto. Il problema diventa dunque individuare qual è il limite.

(to be continued)




Senza memoria né pudore

UnknownQuando in televisione si parla degli attentati terroristici  compiuti dall’Is in Europa, nel tentativo di comprenderli per poterli debellare, incredibilmente sento citare le Brigate Rosse come termine di paragone. Al di là della sua condanna politica, così come di ogni tipologia di terrorismo, tuttavia bisogna ricordare che il fenomeno terrorista delle brigate rosse avendo come obbiettivo quello di “colpire il cuore dello Stato”  si manifestava attraverso l’uccisione o gambizzazione di personaggi dello Stato o delle Istituzioni ritenuti simbolo del potere da abbattere. Quel terrorismo non ha mai avuto come obiettivo le stragi indiscriminate tra la popolazione, diversamente da quanto invece ha sempre fatto il terrorismo nero, così come fa quello dell’Is. Rinfreschiamo la memoria.

Bombe alla fiera il 25aprile1969, Il 25 aprile del 1969 esplose una bomba nello stand della Fiat alla fiera campionaria di Milano provocando sei feriti. Le indagini vengono affidate al commissario Luigi Calabresi il quale puntò sulla pista anarchica. Verrà per questo accusato di pregiudizi per aver indirizzato su un’unica via le indagini pur senza avere alcuna prova in merito; soltanto anni dopo per i fatti in questione verranno condannati in via definitiva due neofascisti veneti appartenenti a Ordine Nuovo, Franco Freda e Giovanni Ventura.

Strage di piazza Fontana, Le indagini si susseguiranno nel corso degli anni, con imputazioni a carico di vari esponenti anarchici e neo-fascisti; tuttavia alla fine tutti gli accusati sono stati sempre assolti in sede giudiziaria (peraltro alcuni sono stati condannati per altre stragi, e altri usufruiranno della prescrizione, evitando la pena). In contemporanea in Italia scoppiarono altre bombe, provocando 16 feriti, a Roma: una alla Banca Nazionale del Lavoro in via San Basilio, due all’Altare della Patria. Indro Montanelli così si espresse dei dubbi sul coinvolgimento degli anarchici, e vent’anni dopo ribadì quella tesi affermando: «Io ho escluso immediatamente la responsabilità degli anarchici per varie ragioni: prima di tutto, forse, per una specie di istinto, di intuizione, ma poi perché conosco gli anarchici. Gli anarchici non sono alieni dalla violenza, ma la usano in un altro modo: non sparano mai nel mucchio, non sparano mai nascondendo la mano. Quando fu imboccata la pista dell’attentato neo-fascista – abbandonata quella anarchica – si volle avallare la teoria della «strategia della tensione», ossia un disegno razionale, perseguito dall’estrema destra per creare instabilità e paura nelle istituzioni e nei cittadini. Andarono tutti assolti.

La strage di piazza della Loggia è stato un attentato terroristico compiuto il 28 maggio 1974 a Brescia, nella centrale piazza della Loggia. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista con la presenza del sindacalista della CISL Franco Castrezzati, dell’on. del PCI Adelio Terraroli e del segretario della camera del lavoro di Brescia Gianni Panella. Dopo molti anni di indagini e processi, vennero condannati o riconosciuti colpevoli alcuni membri del gruppo neofascista Ordine Nuovo

La strage dell’Italicus fu un attentato terroristico di tipo dinamitardo compiuto nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 sul treno Italicus, mentre questo transitava presso San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna. Per la strage dell’Italicus, come per le altre stragi, furono a più riprese incriminati come esecutori diversi esponenti del neofascismo italiano.

La strage di Bologna, compiuta la mattina di sabato 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria di Bologna,ritenuto più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra, da molti indicato come uno degli ultimi atti della strategia della tensione, xhe ha visto come esecutori materiali individuati dalla magistratura alcuni militanti di estrema destra, appartenenti ai Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), tra cui Giuseppe Valerio Fioravanti.

Notevole, ma sconfortante, constatare che quando molte indagini si sono dirette a destra si siano perse le tracce e che i neofascisti siano andati in molti casi assolti. Il terrorismo nero colpiva indiscriminatamente la gente comune indifesa e inconsapevole, di conseguenza a questa fattispecie di terrorismo dovrebbe essere evocato il terrorismo dell’Isis e, invece,  in modo più che colpevole i media quando parlano di terrorismo preferiscono riferirsi  solo delle Brigate Rosse. Questa smemoratezza non aiuta a combattere le varie forme di terrorismo perché non ne comprende le differenze. Questi “opinionisti”  ci sono e ci fanno. Solo la cultura ci salverà.




La paura della verità alimenta il terrore

12832316_1771238819771858_7155826556372205959_nSe il terrorismo non va confuso con la crisi migratoria, è altrettanto vero che la pulsione xenofoba strisciante in Europa non è razzista e non va confusa con la crisi della democrazia. I contriti democratici dovrebbero piuttosto considerare l’ondata xenofoba anch’essa come un’espressione della volontà popolare a cui amano richiamarsi.

Oggi siamo di nuovo in lutto per altre vittime di attentati jihadisti a Bruxelles, nemmeno il tempo di rincuorarsi dai precedenti con la cattura di un responsabile al Bathaclan. La paura dilaga e nemmeno più ci si può abbandonare all’adagio rassegnato de “l’ordine regna, ma non governa” perché il terrorismo c’è ed incalza con una velocità del proselitismo jihadista tra giovani europei (cosiddetti “homegrown mujahidin”) che è uguale, se non superiore, a quella della crescita del sentimento xenofobo. Ma cosa temere di più: l’azione sanguinaria e spettacolare compiuta da Salah Abdeslam a Parigi o la copertura silenziosa del suo autore per quattro mesi nel quartiere Molenbeek di Bruxelles? La stupidità giornalettistica si agita di fronte a tali eventi descrivendoli attraverso titoli e commenti dai toni della cronaca nera, stile a loro più familiare: a quando un terrorista jiahdista, magari pentito, intervistato a “Porta a Porta”?  Anche da ciò si capisce cosa significa “società dello spettacolo”, dove la paura di fronte a tali eventi altro non è che la proiezione della nostra passività, ipocritamente ammantata di principi democratici e ostentata dal politicamente corretto. Passività nostra di singoli cittadini, ma anche degli Stati e dei Governi. È singolare l’asimmetria che si osserva tra le valutazioni dell’Europa rispetto alle sue crisi. l’Europa infatti non esiste come entità politica quando si tratta di decidere sulla finanza, sulla politica fiscale, per affrontare l’immigrazione o agire contro lo Stato Islamico, ma esiste quando è oggetto degli attentati terroristici, quasi fosse un unico corpo: “Is, guerra all’Europa” titolano i quotidiani.

Lucio Caracciolo nel suo articolo “La crisi migratoria rivela chi siamo veramente” apparso su La Repubblica del 29/1/2016 non si capacitava di come la Svezia, paese di indubbia solidità civile e di tradizione politica socialdemocratica, possa essere giunta alla decisione di espellere 80 mila migranti dopo aver sostenuto una politica modello di accoglienza . Da questa decisione per l’espulsione l’analista trae la preoccupazione circa l’instaurarsi in tutta l’Europa di un circuito perverso di azioni e reazioni irrazionali che tendono ad uscire dal controllo: intervento militare contro lo Stato Islamico- azioni terroristiche dello Stato Islamico in Europa – reazione xenofoba delle popolazioni europee.

Il titolo dell’articolo di Caracciolo parafrasa la ben nota verità secondo la quale nello stato di emergenza, di fronte ad un reale pericolo, uno stato di limite, noi riveliamo la nostra vera natura. L’istinto di conservazione tende a prevalere sulla educazione civile rendendo quell’esposizione al limite un test del grado di civiltà raggiunto. Ed è per superare questo test che nella specie umana si è evoluta per oltre due milioni di anni  la cultura come  una forza più efficace della natura stessa. Tuttavia, come insegnano le leggi della fisica, il progresso della cultura, ovvero della civiltà di un popolo,  è uno equilibrio instabile: tanto più alto è il livello raggiunto tanto maggiore sarà l’energia necessaria per mantenerlo e basta poco per farlo ricadere a livelli più bassi. Terrorismo, emergenza, livello di civiltà sono esemplificazioni del concetto di  limite che descrive nella progressività degli eventi l’avvicinarsi ad una data situazione ed anche la logica ci aiuta a comprendere tale situazione quando dimostra che la coerenza di un sistema è tale proprio perché non può essere dimostrata.

Dove sta la democrazia in tutto questo? Sarebbe stato meglio mantenere i dittatori al potere piuttosto che inneggiare alle “primavere arabe”?          Alla fin fine, la questione che gli ultimi quindici anni hanno posto e che ci occuperà per il prossimo futuro è se si può praticare la democrazia quando la si deve difendere dagli attacchi che ne minacciano l’esistenza ? Il fatto è che si sono confusi i principi con i valori, la volontà con il potere, con il modo di governare, più in generale la libertà con il laissez faire, laissez passer. In una delle tante chiacchierate lascive che si svolgono in televisione i presenti si arrovellavano sugli effetti nefasti per la nostra vita quotidiana e per l’economia  dovuta alle limitazioni al turismo per la paura indotta dal terrorismo, sforzandosi di rassicurare gli spettatori: “non rinunciate a viaggiare perché fa parte della nostra cultura … e poi si crea un danno all’economia di quei paesi che vivono sul turismo…”.

La coscienza delle ultime due generazioni europee è stata intorpidita da una condizione di benessere artificiale e  irresponsabile scambiandola per la “pace” quando in realtà si trattava di “pacificazione”, di sottomissione al pensiero unico dell’economia . Il “pacifismo” peloso inneggia al laicismo, all’armonia e solidarietà tra i popoli dimenticando i sacrifici dei padri, rifiutando di conoscere che quei principi e i valori democratici attraverso i quali si aspira a realizzarli sono costati sangue a centinaia di milioni di persone delle generazioni precedenti: rivolte di schiavi e oppressi, guerre di liberazione, rivoluzioni sociali, guerre per l’unità nazionale ed anche guerre mondiali. In particolare, proprio quei principi universali di libertà, eguaglianza e fraternità che oggi si invocano ogni volta che l’altra parte del mondo rivela la propria arretratezza culturale si sono prima diffusi con la cultura dell’Illuminismo e poi imposti con la violenza della Rivoluzione Francese (per non parlare delle guerre con le quali Napoleone intese esportare la “democrazia” in Europa).

Tornando al presente, noi dobbiamo temere il fenomeno che è stato denotato come “ondata xenofoba”, che in varie forme e intensità avanza in sempre più numerosi paesi europei, non tanto perché esso possa far riemergere sentimenti razzisti, quanto perché quel fenomeno rivela la malattia senile delle nostre democrazie, ovvero la nostra incapacità a rinunciare sia pure in stati di emergenza ai nostri previlegi per difendere i nostri principi e valori. Questa è la vera asimmetria della guerra  in atto: l’opinione contraria ad ogni forma di violenza diffusa tra i cittadini europei di fronte al fanatismo religioso di uomini che cercano la morte usando se stessi come un’arma. Una battuta del film “Il ponte delle spie” ci aiuta a comprendere lo stato d’animo e il livello culturale con cui milioni di persone affrontano oggi gli accadimenti tragici del mondo: “Dimmi che non sei in pericolo, dammi qualcosa a cui aggrapparmi. La verità non mi interessa”.

 

 




Je suis soldat

images“Guerra totale all’Isis” è il nuovo grido di battaglia consolatorio dopo l’11 settembre di Parigi. Quale che sia il livello d’intervento che si deciderà prossimamente di attuare in Medio Oriente, quello che ormai appare a tutti è l’asimmetria di questa guerra. Non si tratta di un esercito regolare che si contrappone ad un altro esercito regolare come avvenuto in Iraq o a dei guerriglieri come avvenuto in Vietnam. Nè si tratta di un comune campo di battaglia: dai vasti territori desertici del Medio Oriente e Nord Africa alle popolate città metropolitane europee. Il fatto è che si è realizzata da tempo una radicale trasformazione nella concezione stessa delle armi in uso nella nuova guerra in atto. Sebbene i terroristi usino ancora le armi convenzionali, la loro vera è più temibile arma è l’uomo stesso: lo jihadista col giubbotto esplosivo che si fa esplodere in mezzo ad una folla o che spara con un fucile mitragliatore contro un gruppo di persone in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento della vita quotidiana di una città europea nella rivendicata consapevolezza di morire. L’intelligence lo sa da sempre ed ora tutti lo scrivono sui quotidiani che queste azioni sono scarsamente prevedibili e quando si manifestano sono assai poco contenibili nei danni che vogliono provocare. Questa asimmetria nella concezione delle armi corrisponde poi ad una concezione della vita altrettanto diversa tra le parti: noi tutti,  non importa se laici o religiosi,  sosteniamo la “sacralità” della vita di ogni persona e per questo ci dichiariamo anche contrari alla pena di morte e siamo tolleranti. I così detti integralisti islamici non esitano invece con le esecuzioni capitali esemplari, magistralmente diffuse con le tecniche mediatiche, e del martirio ne fanno un valore supremo.

L’asimmetria è anche descrivibile in termini di efficienza: da una parte si usano soldati super addestrati che utilizzano armi sofisticate, complesse e costosissime, sebbene dal potenziale distruttivo devastante, mirando a obiettivi identificati e precisi, dall’altra abbiamo terroristi poco addestrati militarmente ma totalmente indottrinati “religiosamente”che usano se stessi e con poco esplosivo e qualche arma basilare di facile reperibilità seminano morte indiscriminata.  A questa forma di combattimento non è opponibile come alternativa il raid aereo, sebbene questo rimanga necessario a livello strategico, né ha senso correlare tra loro bombardamenti e attentati per identificare, per esempio, i bombardamenti aerei francesi in Iraq come la causa della strage di Parigi. L’autonominato Califfo del sedicente Stato Islamico (sembra che Daesh sia il termine da preferire perché più politicamente corretto) non ha bisogno dei bombardamenti aerei per giustificare le azioni terroristiche in Europa perché questa fa parte della sua strategia di base.

Se per incanto gli jihadisti combattenti in MO e Nord Africa (le cui stime vanno da 20.000 a 200.000 unità a secondo della fonte d’informazione) sparissero oggi tutti improvvisamente, compreso il loro capo Abu Bakr al-Baghdadi, parte degli stimati 15.500 foreign fighters o “lupi solitari” o “jihadisti bianchi” che vagano tra MO e Europa rimarrebbero un pericolo per molti anni ancora. Vuoi per vendetta, per disperazione o per coerenza paranoica molti di loro infatti uscirebbero allo scoperto seminando morte con tanti attentati quanti sono loro numericamente, mentre altri rimarrebbero dormienti tra noi covando frustrazione e rancore in attesa di una prossima occasione. Questa considerazione ci porta alla domanda cruciale : che fare? Le analisi e i commenti prevalenti, da qualunque punto di vista ideologico, convergono sostanzialmente su due soluzioni: intensificare l’intelligence e intensificare l’intervento armato in MO, droni e bombardamenti, con la variante di armare i gruppi “alleati” o “alleabili” locali o intervenire direttamente sul terreno, come in Iraq e in Afghanistan. A tutti appare chiaro il significato di “bombardamenti”, intervento che desta in alcuni la disapprovazione per i probabili  effetti collaterali, o il significato del “intervento sul territorio”, che fa paura per le vittime tra i soldati che inevitabilmente genererebbe (vedi scelta Usa in questi ultimi anni dell’uso intensificato dei droni). Meno chiaro invece appare il significato dell’intelligence, perché entriamo nel campo dello spionaggio, del controspionaggio e dei servizi segreti, locuzione quest’ultima diventata sinonimo di poteri occulti e causa di tutti i mali del mondo.

Quando apprendiamo dai media il numero di terroristi esistenti che ogni agenzia rivela, magari accompagnato da nomi e cognomi, quando dopo ogni attentato veniamo a sapere che alcuni di quei terroristi uccisi o catturati erano conosciuti dalle polizie dei vari Stati, abbiamo la sensazione che i “servizi segreti”, a parte la mancanza di un loro reale coordinamento europeo,  abbiano una conoscenza del fenomeno più ampia di quella utilizzata per intervenire in termini di prevenzione o anche di repressione. Non sono in grado di entrare nei particolari per mancanza di informazione e di conoscenze tecniche sul problema, tuttavia quanto è dato di conoscere è sufficiente per comprendere, se lo vogliamo, che questa è e sarà in buona parte una “guerra coperta”, fatta con sistemi e metodi non convenzionali che l'”opinione pubblica”, quella stessa che inorridita dalle atrocità compiute dai terroristi reclama sempre maggiore intransigenza, non sarebbe disposta ad accettare  se li conoscesse, in nome del diritto. In altre parole, rinunciando ad essere “politicamente corretto”, intendo affermare che questi individui, “foreign fighters” o “lupi solitari” o “jihadisti bianchi”, costituiranno una minaccia per tutta la loro esistenza e quindi andrebbero neutralizzati. Per quello che so, il modello di riferimento dovrebbe essere quello del Mossad, servizio segreto israelianoi cui metodi e risultati (cattura di Eichmann, operazione “Collera di Dio”, operazione Entebbe, ecc) appaiono oggi quelli più efficaci per sconfiggere il nuovo nemico.

Tuttavia, per combattere con efficacia la nuova guerra non basta adottare i metodi dei   servizi segreti israeliani, perché io penso che comunque non basti l’intervento militare e poliziesco, occorre che tutto un popolo eserciti una vigilanza attiva con una coesione sociale forte, la coesione che fa di una popolazione un popolo. E ancora può valere qui il modello israeliano, questa volta in chiave civile. Dalla costituzione dello Stato di Israele (qui non interessano le questioni politiche e religiose) il suo popolo ha dovuto adattarsi in un territorio ostile pur volendo edificare e mantenere un sistema politico democratico. Nel 1990, a cavallo fra le due intifada che scoppiarono in quel paese, feci un viaggio in Israele e tra meraviglie storiche e naturali non mancai di notare alcuni aspetti della vita quotidiana che mi sorpresero molto e che a mio parere denotano la coesione sociale esistente tra quei cittadini. Notai per esempio che i tassisti di Gerusalemme montavano nelle loro auto un apparecchio ricetrasmettitore che li collegava in rete tra loro e con una centrale operativa. Il dispositivo, per altro diffuso anche tra altri privati cittadini, sfruttava la loro costante presenza sul territorio per esercitare una vigilanza attiva che potesse essere d’aiuto alle forze di polizia (e dell’esercito) al fine di prevenire attentati. Ciò che più mi aveva sorpreso era tuttavia constatare che ciò avveniva in un modo assolutamente normale, senza mostrare alcuna ansia o paura dovuta ad uno stato di emergenza che potesse interferire con lo svolgimento della vita quotidiana. Io non penso che nel nostro paese si possa nelle condizioni presenti proporre simili comportamenti (con buona pace di coloro che hanno voluto importare nelle istituzioni il whistleblowing da popoli con ben altra cultura), ma credo che quelli siano i comportamenti che dobbiamo apprendere al più presto. In questa prospettiva credo anche che sia stato un grave errore eliminare il servizio militare di leva e/o il servizio civile perché si è tolto ai giovani di tutto il paese, maschi e femmine naturalmente,  l’unica possibilità di aggregarsi temporaneamente per educarsi alla cooperazione per un fine comune. Sono convinto che un servizio di leva ben organizzato su solide basi democratiche e fini umanitari (per favore non si confonda il mio appello con l’ignoranza leghista o con la nostalgia fascista), fatto in tutti i Paesi europei, che consentisse anche scambi tra come un Erasmus civile, fornirebbe ai giovani l’occasione di educare la propria naturale propensione all’avventura e arginerebbe per esempio il successo della propaganda aruolativa degli jihadisti, fenomeno  che oggi tanto ci allarma.

Ammettiamolo: gli jihadisti stanno ora vincendo, non tanto sul campo di battaglia (prima o poi anche loro saranno definitivamente sconfitti) quanto per gli effetti dirompenti sulla tenuta democratica dei popoli nei nostri paesi occidentali, quelli europei in particolare. Intorpiditi dal benessere e dal consumismo abbiamo generato in Europa due generazioni di giovani dalla coscienza modificata  (chi scrive è nato nel 1948 ed è padre di tre giovani figli) che non hanno mantenuto la memoria del sacrificio delle generazioni precedenti nel conquistare ed affermare i principi della democrazia. Coloro che oggi insistono e giustamente nel ricordare i principi di libertà, uguaglianza e fraternità su cui si è fondata da oltre due secoli la civiltà occidentale a cui apparteniamo dimenticano tuttavia di ricordare che la Rivoluzione Francese è stato un bagno di sangue (colgo l’occasione per ricordare en passant  che Napoleone è stato il primo a voler esportare in Europa la “democrazia”), che tutte le successive Rivoluzioni, Risorgimenti, Guerre d’Indipendenza, Resistenze e Lotte Operaie sono stati tutti bagni di sangue. Risvegliamo dunque almeno con onestà intellettuale le nostre coscienze assopite e riconosciamoci nei nostri principi universali al di sopra delle religioni e delle ideologie. È  la nuova guerra, bellezza, e siamo chiamati a difendere la democrazia, non a praticarla. Siamo tutti soldati.




Lupi solitari e global hackers

images-2images-1Ad un secolo dalla Grande Guerra, ancora sotto shock per la follia terroristica degli jihadisti, scoppia la cyber-guerra mondiale. Non un colpo di pistola la causa, non una gola tagliata, ma apparentemente la censura di un film. La Corea del Nord, che si suppone abbia  hackerato il sistema informatico e email della multinazionale Sony rea di aver prodotto un film parodia del regime di Pyongyang, ha subìto un devastante cyber-attacco : l’intera rete del regime di Pyongyang è stata messa completamente fuori uso per parecchie ore. L’attacco in verità non è stato rivendicato da nessuno e sebbene il Presidente Obama abbia dichiarato che il fatto avrebbe avuto conseguenze il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America ha così commentato l’accaduto: “A volte la rappresaglia si può vedere, a volte no.”

La realtà ingenuamente definita virtuale rivela d’un tratto tutta la sua potenza materiale, considerato quanto la nostra vita quotidiana, l’intera integrità e sicurezza nella moderna società dipenda dal web (energia, economia, finanza, sanità, difesa, trasporti…), sia dal lato dei produttori che da quello dei consumatori.  Accettato il concetto, mutuato dalla fisica, che il potere risiedesse nell’informazione, i sostenitori della democrazia politicamente corretta hanno sostenuto come un mantra l’idea che la trasparenza applicata tanto in politica quanto nella economia e finanza potesse essere l’arma di difesa dei cittadini liberi e giusti contro gli abusi di un potere occulto ed ingiusto.

Ma così si è fatta della trasparenza un feticcio coprendo la sua essenza ovvero l’onestà, dal momento che la trasparenza altro non è che il modo attraverso il quale si manifesta l’onestà di una persona. Se gli individui che operano nelle istituzioni non sono onesti dentro di sé non possono operare con trasparenza nei rapporti con gli altri da sé. Al più essi possono aspirare a quella pseudo etica della professionalità, cinica e opportunista, che si esprime, nel chiuso dei propri ruoli come monadi, con la convinzione che non vi sia “niente di personale” mentre si compiono le più orribili azioni.

Gli attacchi informatici sulla rete e gli attacchi terroristici per le strade urbane prefigurano nuovi scenari per la “guerra al terrorismo” che dovrà essere condotta nel backstage del palcoscenico della democrazia, de iure si reciteranno in chiaro le parti dei diritti umani e civili contrapposte alle efferatezze degli attentati e delle oppressioni, de facto si svolgeranno operazioni militari coperte volte a neutralizzare i nuclei terroristici con armi tradizionali e tecnologiche. Hacker come sniper, cecchini contro lupi solitari. Non è una novità assoluta se si ripensa alla passata “guerra fredda” e ai metodi israeliani (tipo “Operazione Ira di Dio”), dai quali dovremmo pur imparare qualche cosa (sic!), ma la nuova “guerra asimmetrica” impone una scala globale perché il terrorismo è diventato oggi, come già da tempo lo sono diventati il capitalismo e il web, per sua natura globale e non può ammettere limitazioni territoriali o temporali.

Dal “pensarci sempre, non parlarne mai” del terrore dei regimi oppressivi nazisti e comunisti, al “a volte la rappresaglia si può vedere, a volte no” delle democrazie che debbono difendere i propri principi come una volta gli stati difendevano i propri confini.

 




Horror vacui

UnknownChe l’uomo abbia inventato Dio a sua immagine e somiglianza è un fatto. È tuttavia altrettanto vero che nessun popolo sia giunto fino a noi senza una religione. L’ateismo, nelle sue varie forme dello agnosticismo e del nichilismo, ha fatto capolino solo in epoche più recenti. La religione quindi pur rimanendo un mito è stata per l’uomo una necessità. Ora, quello che lamento non è l’assenza di un Dio, ma della Verità. Tutta l’indignazione sull’accaduto a Charlie Hebdo trova giustificazione solo se i valori che si affermano storicamente, in questo caso la libertà di espressione, sono valori che raggiungono l’universalità. Ma bisogna riflettere che prima di raggiungere l’universalità sono stati nella testa di qualcuno, di pochi, di pochissimi e che per questo non erano meno validi. Il che significa, di contro a ogni relativismo, che la verità c’è ed esiste indipendentemente dalla condivisione di pochi o di molti o dai punti di vista religiosi, politici o filosofici che le varie popolazioni della terra hanno conseguito.

Il relativismo ci ha dato la tolleranza e allontanato dalla bestemmia, ovvero dal dire vera la nostra verità, ma per altro verso esistono valori sulla via della morale che si affermano indipendentemente dalle convinzioni legate all’appartenenza e alla tradizione. Il mancato riconoscimento dell’esistenza della Verità, ovvero di una via retta sulla quale riconoscere un cammino, pone l’umanità al di fuori del progresso gettandola in un’anarchia governata da un serpente senza cuore, intendo dalla finanza e dall’economia.

Se non sapremo riappropriarci del cuore per un nuovo umanesimo che riprenda i temi della cultura e della morale dovremo paventare più che la recessione la regressione.
È infatti mia perfetta convinzione che la democrazia non si misuri sul regime al potere ma sul grado di coscienza conseguito dal popolo. Sogno una costituzione che reciti: “La Nazione Italiana si fonda sulla Cultura, il primo dovere di ogni Governo e di far crescere con ogni mezzo in civiltà la Nazione”. Desidererei anche che dopo “Tutti gli uomini nascono liberi” si proclamasse “Tutti gli uomini nascono uguali” invitando tutti i governi a eliminare le disuguaglianze dovute alla nascita. Sebbene comprenda che una tale affermazione precorra troppo i tempi rimane come utopia a indicare la strada.

La crisi europea è una crisi di coscienza, un malessere generalizzato, una stanchezza esistenziale che investe l’intero continente in mancanza assoluta di idealità.
Questo vuoto epocale che avvia al declino un intero continente deve essere colmato con nuovi ideali e questo non sarà possibile all’interno di una filosofia relativista che non riconosce della Verità l’esistenza. Nel riconoscimento paritetico dell’altro il relativismo non discrimina sui valori che danno all’uomo e alle diverse culture una diversa dignità su una scala non misurabile secondo opinione, ma assoluta. Testimonia questo l’esistenza della Giustizia, quando la giustizia si afferma nei valori morali al di là della legge.

Barbarie e civiltà distano tra loro, ma non c’è soluzione di continuità e le sfumature di grigio si distribuiscono ovunque in ogni possibile ambiente. La distanza che caratterizza i rapporti di potere tra maschio e femmina, tra genitori e figli, tra sé e gli altri, tra un governo e il suo popolo stazionano su ambiti differenti di valore nelle diverse culture e diversamente all’interno di una stessa cultura. Anche se la Verità non la possiede né la può possedere nessuno, sarebbe bestemmia come sostituire l’idolo al Dio, è altrettanto indubbio che esiste un cammino lungo il quale l’affermazione di certi valori corrobora il positum (ciò che si deposita nella cultura) e fissa principi inderogabili, su cui non si può più fare marcia indietro.

Nel mondo islamico non si è ancora arrivati a riconoscere che il Dio dei cristiani e Allah sono il medesimo: non lo comprendevano gli Egizi, come non lo comprendevano i pagani, come non lo comprendono gli ebrei, tutti in misura e modi differenti. Ancora come ai tempi di Omero gli dei in un senso del tutto blasfemo sono solo supereroi che si sfidano dall’alto del cielo sulla terra attraverso i conflitti umani.
L’appartenenza è possesso e il Dio inventato non può che rispecchiare l’appartenenza, il privilegio. Si tratta di sentimenti tribali che affondano le loro radici nella notte dei tempi e che si riassumono in libri sacri che fondano nell’appartenenza la tradizione.

Far riconoscere dunque che Dio è unico ma non è “il mio Dio” va considerato come un passo fondamentale per tutte le religioni. Non si può giungere all’ateismo saltando la contingenza storica. Mi chiedo peraltro che differenza ci sia tra la fiducia esistenziale e la fede se entrambe tendono a conoscere la Verità.

Rimane indubbio che chiunque interpreti la volontà di Dio sostituendosi a Dio per far valere il proprio credo in parole o azioni, bestemmi. In nome di Dio nessuna operato umano può essere giustificato. L’integralismo religioso, ovvero l’ideologia di coloro che ritengono di possedere l’unica vera fede, è la più grande delle menzogne. Ma non si dimentichi che il nichilismo Nietzschiano dello “scrivete da voi le tavole delle vostre leggi”, come l’ateismo comunista si sono resi colpevoli quanto e più delle religioni. Solo la cultura ci salverà.




La copertina di Charlie

Unknown“Le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità”. In questo avviso che introduce il video sull’attacco alla redazione di Charlie Hebdo proiettato nella rete possiamo riconoscere tutta la attuale debolezza dell’occidente.  Il moralismo del politicamente corretto applicato allo status democratico, mentre questo viene così apertamente attaccato sia da fattori endogeni che esogeni, ci ha fatto scordare che quando ci si trova in situazione di emergenza le strategie  devono cambiare e che siamo entrati in una fase storica in cui è necessario assumersi la responsabilità di difendere la democrazia con volontà e discernimento, piuttosto che ostinarci a praticarla nei confronti di coloro che la minacciano.

Per settanta anni, come mai era accaduto in precedenza in Europa, siamo riusciti ad educare due generazioni di giovani nel benessere ed in assenza di guerre consentendoci il lusso della formazione di una coscienza pacifista. Oggi, di fronte al solo continente africano la cui popolazione raddoppia nell’arco di una generazione con un tasso d’incremento demografico superiore al 3% (nel 1950 erano 224 milioni oggi superano i 1.100 milioni) e la cui povertà economica spingerà invano sempre più persone verso i paesi più ricchi, mostriamo indignazione e sgomento di fronte alle atrocità dei metodi terroristici, sempre più frequenti e diffusi, con i quali sedicenti califfati si contrappongono ormai apertamente al nostro mondo occidentale proclamando contro di esso una guerra in nome di un fondamentalismo religioso, loro unica ideologia rivoluzionaria disponibile.

Il senso di colpa per come abbiamo fondato i nostri principi di libertà, eguaglianza e fraternità (principi che rimangono universali) anche sfruttando per secoli le risorse di altri continenti sembra oggi spingerci all’ignavia e all’autodistruzione, a meno degli interessi dei poteri economici e finanziari multinazionali che governano il mondo nell’unico tentativo di preservare il potere tanto aspramente conquistato.

Crescita demografica, cambiamenti  climatici, diseguaglianze economiche, tensioni sociali-religiose-razziali sono i nuovi Cavalieri dell’Apocalisse, veri nemici dell’umanità contro cui dobbiamo lottare nei prossimi anni con estrema incisività e determinazione, per evitare di cadere nel baratro descritto dal monologo del colonnello Kurtz di Apocalypse Now : “(…) È impossibile trovare le parole…per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore. L’orrore…l’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore. L’ orrore e il terrore morale ci sono amici in caso contrario allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici. (…). Bisogna avere uomini con un senso morale, ma che allo stesso tempo siano capaci di… utilizzare i loro primordiali istinti di uccidere senza emozioni, senza passioni, senza discernimento… Senza discernimento. Perché è l’intenzione di giudicare che ci sconfigge.” 




La dignità ritrovata

Arin MirkanCeylan OzalpDue donne curde si sono uccise in questi primi giorni di ottobre per difendere la loro città di Kobane in Siria dall’aggressione delle brigate nere dell’Isis. Finite le munizioni, per evitare il martirio come prigioniere degli jihadisti, una si è gettata come un kamikaze contro il nemico, l’altra ha utilizzato l’ultima pallottola contro se stessa.

Nella mitologia greca gli eroi erano giovani e belli e costituivano per gli uomini il modo di avvicinarsi agli dei. Arin Mirka e Ceylan Ozalp erano donne giovani e belle. Non sono abbastanza “maschilista” per farmi commuovere solo dalla bellezza femminile, ancor meno sono ideologico per fare dei loro volti la versione femminile dell’icona del Che Guevara. C’è di più, molto di più in questa tragica vicenda che non si può esorcizzare elogiando il sacrificio o l’eroismo di donne fiere e combattenti e che ci riguarda tutti. Questi due volti, senza veli, ci sconvolgono per due sentimenti profondi che la loro tragica scomparsa ha fatto riemergere in noi: la vergogna e la paura della fine.

La vergogna. Non è questione di scontro tra civiltà, ma del riconoscimento e della difesa dei principi su cui si fonda le nostra identità e che il popolo curdo, prevalentemente musulmano ma di tradizione culturale indoeuropea, oggi ci ricorda con la propria lotta contro il terrorismo integralista. All’epoca delle manifestazioni contro la guerra del Vietnam, negli anni settanta, nutrivo un certo disagio nel pensare ai soldati americani miei coetanei che rischiavano la loro vita, molti di loro la persero, mentre io europeo sfilavo per le strade della mia città. Quando in anni più recenti, oramai adulto, mi sono recato al Vietnam Veterans Memorial  a Washington ho sfogliato il libro dei caduti per cercare il nome, i nomi, di coloro che erano nati nello stesso mio giorno, mese ed anno, con la profonda angoscia che avrei potuto leggervi anche il mio. L’inquietudine non derivava dalle ragioni di quella guerra, ancor meno da una mia presunta appartenenza ideologica o religiosa, ma dalla consapevolezza della alterità della vita, della sofferenza e della morte formatasi nella nostra società. È un fatto, ed è positivo, che i giovani, in particolare nel nostro Paese, non abbiano conosciuto da due generazioni la tragedia della guerra e i suoi sacrifici. Questa condizione privilegiata ha consentito loro di sviluppare una cultura solidale e pacifista, ma dobbiamo vigilare sul rischio che non abbia affievolito la loro integrità morale.

La paura della fine. Da un secolo ci arrovelliamo sulla possibilità del tramonto dell’occidente: due guerre mondiali, altre guerre in Corea, in Vietnam, nel Medio Oriente, dalla paura di ieri per un olocausto nucleare causato dalla guerra fredda indotta dalle super potenze e guerreggiata di nascosto al terrore per gli attentati preannunciati apertamente a tutto il mondo dagli jihaidisti islamici. Tornano alla mente le parole di Oswald Spengler: “Noi non abbiamo la possibilità di realizzare questo o quello ma la libertà di fare ciò che è necessario o nulla; ed un compito che la necessità della storia ha posto verrà realizzato con il singolo o contro di esso.” Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.  Intanto, un senso di angoscia si diffonde e si generalizza nei paesi occidentali: non tanto per l’orrore suscitato dalle decapitazioni spettacolari quanto per il timore di arrivare ad ammettere la necessità della forza come risposta e dunque regredire allo stato di violenza animale. E qui tornano alla mente le parole tratte da Cuore di tenebra di Joseph Conrad e riprese nel  monologo del colonnello Kurtz in Apocalypse now: “È impossibile trovare le parole…per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore. L’orrore…l’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore. L’ orrore e il terrore morale ci sono amici in caso contrario allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici. (…). Bisogna avere uomini con un senso morale, ma che allo stesso tempo siano capaci di… utilizzare i loro primordiali istinti di uccidere senza emozioni, senza passioni, senza discernimento… Senza discernimento. Perché è l’intenzione di giudicare che ci sconfigge.”

Sul piano politico noi portiamo la colpa di avere lasciato queste due donne senza più munizioni, disconoscendo coloro che là fuori, ai confini dell’occidente, difendono le nostre democrazie senza poter praticare la loro. Sul piano etico loro ci offrono un esempio per una dignità ritrovata.




Ebola non è virale nei social network.

virus ebolaMentre il Pentagono spiazza le dichiarazioni del Presidente Obama non escludendo la possibilità di inviare forze terrestri in prima linea per distruggere i miliziani jihadisti dello Stato islamico dell’Isis, tremila soldati americani sono già stati inviati nell’Africa Occidentale (Liberia) per arginare l’epidemia del virus Ebola, perché come ha dichiarato lo stesso Presidente Obama  questa epidemia è da considerarsi anche “una minaccia potenziale alla sicurezza globale e il mondo ha la responsabilità di agire”.

Non ci siamo ancora assuefatti all’orrore delle immagini dei cadaveri di migranti galleggianti sul mare nostrum e a quelle delle decapitazioni dei prigionieri eseguite dai terroristi per poter percepire l’orrore dei cadaveri colpiti dal virus ebola. Nel frattempo, nella nostra diffusa insicurezza, ci abituiamo alla visione di fiction sempre più realistiche e alla presenza delle forze militari in ogni situazione sia di guerra che di pace. E la razionalità scientifica del metodo sperimentale che affronta una variabile alla volta non aiuta la nostra coscienza, perchè è propria della nostra percezione e della politica (l’arte di governare le società) la necessità di comprendere e controllare più variabili simultaneamente.

Terrorismo, epidemie, cambiamento climatico, crisi economica, migrazione sono emergenze non nuove alla storia se considerate singolarmente, ma il combinato disposto di queste emergenze oramai globali, per la loro intensità e la loro velocità di diffusione, lascia sgomenti provocando uno stato di smarrimento che prelude alla paranoia collettiva. Sostiene Luigi Zoja che al paranoia è uno stato d’animo sempre più frequente e dal quale “chiunque può esserne contagiato“. Più che a una patologia, infatti, la paranoia somiglia oggi ad un sentimento generale, diffuso, accentuato dalla crisi e dall’inevitabile disorientamento che essa produce. Si ripropone dilemma: qual è il nuovo nemico? Dobbiamo temere le nostre paure.